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Autore: Lory221B    19/03/2017    8 recensioni
Sherlock e John, due anime che si rincorrono come le stagioni.
Quattro capitoli, quattro stagioni, quattro sentimenti da esprimere.
[johnlock] [post S4]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di sir A.C.Doyle, Moffatt Gatiss BBC ecc.; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro per il mio puro divertimento

Angolo autrice:
Primo di quattro capitoli dedicati alle quattro stagioni e a quattro diversi sentimenti. Iniziamo con inverno e malinconia, poi arriveranno stagioni più “allegre”.  Ho deciso praticamente di riformulare alcuni pensieri post quarta stagione, già presenti in due mie os, in modo da dargli più consistenza e un happy ending.
Spero vi piaccia e grazie a chi leggerà, un abbraccio!


Inverno


La neve sta cadendo soffice, imbiancando i tetti della mia Baker Street ed io sono come ipnotizzato dal lento e perfetto scendere dei fiocchi.

Mi avvicino alla finestra, rapito da quella danza che mi appare davanti. C’è tanto silenzio e sembra che la neve stia inscenando un numero di ballo soltanto per me, che osservo pensieroso.

E’ sicuramente l’ultima nevicata dell’anno, la primavera si sta avvicinando con tutti i suoi colori e i suoi profumi e soprattutto il suo clima mite, è l’ultima sferzata dell’inverno. Questo clima così silenzioso, questo momento come perso nel tempo, come se improvvisamente l’appartamento fosse stato chiuso dentro una palla di vetro, mi riporta malinconicamente ad un inverno di tanti anni prima, quando complice qualche bicchiere di brandy di troppo, avevo insegnato a John a ballare il valzer, con soltanto la luce del camino ad illuminare le nostre sagome e i nostri volti.

« Ma sta nevicando? »

Avevo quasi dimenticato che John era salito nella sua vecchia camera, credo in un attacco di nostalgia o forse solo per recuperare le cose che non aveva mai avuto la forza di portare via dal 221B.

John e la piccola Rosie vengono a trovarmi sempre più spesso, soprattutto quando si tratta di ascoltare i clienti o di risolvere i casi stando comodamente seduti in poltrona. A dir la verità, noi stiamo comodamente seduti in poltrona, mentre la piccola Watson, degna figlia di John e Mary, gattona per l’appartamento giocando con tutto quello che le capita a tiro. Ho dovuto nascondere buona parte delle mie cose per evitare che si facesse male, rimpiazzati con peluche, palline e pupazzetti.

Fa male quando i Watson vanno via; ogni volta mi ritrovo da solo, a fissare la mia figura nello specchio, circondato dai giocattoli lasciati a terra e da quel leggero profumo di dopobarba che John non ha mai cambiato, anche dopo tanti anni.

« Nevica, incredibile » ripete John sconsolato, avvicinandosi anche lui alla finestra e per un attimo mi sembra di scorgere uno sguardo malinconico diretto verso di me. E’ questione di un secondo, non sono sicuro sia successo davvero, forse voglio soltanto che mi guardi come faceva una volta, quando eravamo soltanto noi due senza tutte le cicatrici che ci portiamo addosso.

«Potreste restare qui, stanotte » Mi trovo a dire senza avere il tempo di riflettere seriamente su quello che sto proponendo «Solo finché non smette di nevicare, non credo che troverete un taxi con questa bufera » aggiungo, mentre la piccola Rosie fa dei versi dal seggiolone che sembrano confermare che la mia è una buona idea.

John sussulta per un attimo, mi guarda alla ricerca di una risposta e poi ritorna a contemplare la danza della neve. Mi piacerebbe poter dire di aver finalmente compreso tutte le sfumature dei sentimenti, che tutto quello che mi è accaduto mi abbia reso “più umano”, ma sono ancora in balia di situazioni che non comprendo. No, forse non mi piacerebbe poter dire questo, almeno non sempre; a volte mi manca filtrare tutto esclusivamente con la logica e la ragione. In ogni caso, la reazione di John mi lascia confuso, soppesa la cosa come se non gli andasse di restare nel nostro vecchio appartamento e non ne capisco del tutto la ragione. Credevo che ormai le cose tra noi fossero sistemate e superate, che fossimo di nuovo il detective con il cappello e il dottore che non è mai tornato dalla guerra, o almeno che questo valesse per lui.

Il silenzio galleggia ancora, pesantemente, nell’appartamento finché John non sussurra un “va bene”, quasi rassegnato,  prima di sparire in cucina per preparare la cena.

Il leggero zoppicare di John, il rumore di piatti e pentole, l’acqua che bolle sul fuoco, sono tutti rumori che sanno di casa e di qualcosa che non c’è più da troppo tempo. Sento l’immediato bisogno di coprirli con qualcosa che mi rilassi e mi porti distante, almeno per un attimo. Non me ne rendo nemmeno conto quando prendo in mano il violino e inizio a suonare una composizione molto malinconia, qualcosa che rappresenta perfettamente il mio attuale stato d’animo, come irrimediabilmente spezzato.

Credevo di aver superato tutto, invece sono qui a lottare per rimettere insieme il mio mondo in frantumi.

« Smettila, per favore »

Quella frase, così perentoria, mi lascia senza fiato. Le mie dita tremano leggermente sull’archetto mentre mi volto, solo per notare lo sguardo triste di John, altro dettaglio che non capisco. Mi sembra sempre che il fantasma di Mary aleggi tra noi; mi ha confessato di averla vista, in un certo senso, per molto tempo, almeno fino a due mesi fa, quando si è deciso a confessare tutto quello che avrebbe voluto dirle in vita.

« Qualcosa non va? » chiedo.

« Stai suonando il valzer del matrimonio, Sherlock! »

Lo guardo stranito « No, John. E’ un valzer ma non è quello »

« Beh è molto simile, per favore suona qualcos’altro »

Mi guardo riflesso nel vetro della finestra e noto un sorriso triste prendere forma sul mio viso. Ho scritto il valzer per il matrimonio con estrema fatica e solo adesso mi rendo conto che non rappresentava l’amore tra John e Mary ma la mia visione dell’evento, la tristezza che mi ha accompagnato per tutta la cerimonia e ciliegina sulla torta, John nemmeno  ricorda la melodia, al punto da confonderla con un’altra.

Appoggio il violino e torno nuovamente a fissare fuori dalla finestra, “It is what it is” mi riaffiora alla mente e alla fine capisco che è questo quello che abbiamo e me lo devo far andare bene così com’è.

Sono talmente preso dai miei pensieri che non mi accorgo nemmeno che John è arrivato alle mie spalle, posso vedere il suo sguardo, malinconico quanto il mio, riflesso nel vetro della finestra.

« Scusami, Sherlock »

« Per cosa? »

« Per tutto. Mi sono reso conto di non averti mai chiesto scusa per averti accusato della morte di Mary, per averti picchiato in obitorio… » la frase resta in sospeso, inconclusa, mentre il respiro di John accelera leggermente. Mi volto, solo per dimostrargli che non c’è biasimo né rancore, non ne ho mai avuto per lui. Ho sempre saputo di non meritarmi la sua amicizia e ho sempre temuto che avrei fatto qualcosa che l’avrebbe rovinata, invece lui è ancora qui, nonostante tutto.

« Non c’è bisogno che ti scusi, non funziona così tra noi » rispondo serio, senza traccia di dubbio nelle mie parole e nel mio sguardo.

« Ti sei scusato più volte quando sei tornato dalla morte, per te le regole valgono diversamente? » chiede sarcastico e poi resta in silenzio, un’altra pausa. Continua a ricordarmi del salto dal tetto, anche in momenti in cui non ci sarebbe il motivo e mi chiedo se l’abbia effettivamente superato del tutto.

« Beh, era un po’ diverso. Dopo due anni le scuse erano d’obbligo » rispondo, accennando un leggero sorriso che sembra rallegrare anche il mio dottore.

John ha una vasta gamma di sorrisi, alcuni più luminosi di altri. Ha un sorriso di cortesia, non falso ma semplicemente educato. Ha un sorriso allegro, quando qualcuno dice una battuta o scherza. Ha un sorriso perfino per quando è arrabbiato, quando trattiene tutta la furia dietro ad un sorriso tirato, reso ancora più glaciale dallo sguardo. Ha un sorriso particolare che rivolge soltanto alla piccola Rosie, quello di un padre felice e orgoglioso e aveva un sorriso che riservava soltanto a me e non l’ho più visto dalla sfortunata avventura che ci ha portato da Charles Augustus Magnussen, se non forse per un attimo, l’ultima volta che ho indossato il cappello per lui.

Eppure, forse è stato soltanto per un secondo, o forse lo voglio talmente tanto che la mia vista è stata ingannata dai miei desideri, ma mi è sembrato di veder riaffiorare in lui quel sorriso luminoso, pensato solamente per me.

« In dispensa avevi solo del riso, dovremo cenare con quello » cambia argomento, come trattenendosi, come se avesse voluto dire altro ma alla fine avesse optato per quella frase « Fortunatamente ho qualche omogeneizzato per Rosie »

« Perfetto, John » rispondo calorosamente, mentre si volta e ritorna in cucina, lasciandomi in mezzo al salotto alla ricerca di risposte a domande che non oso fare.

Qualche ora dopo, quando finalmente Rosie è crollata dal sonno e siamo riusciti a portarla al piano di sopra, ci ritroviamo stranamente rilassati in poltrona, come se il calore del camino stesse sciogliendo il gelo palpabile fino a qualche secondo prima.

John mi sembra distante a volte, soprattutto quando è qui, a Baker Street. Quando il gioco inizia e il campo di battaglia è pronto, ritorna il vecchio Watson leale compagno di avventure, ma quando rimaniamo da soli, sento sempre il peso di qualcosa che resta in sospeso tra noi. A volte vorrei poter soltanto dire qualcosa di stupido che spezzi la tensione, ma negli ultimi tempi mi sembra quasi difficile.

« La signora Hudson sarà felice di preparare la colazione per tre domani mattina » commento, prendendo un sorso del tè preparato con cura da John.

« Felice mi sembra eccessivo, l’ho sentita gridare che non solo non è la nostra governante ma nemmeno la babysitter » scherza, quasi divertito.

«Eppure le fa piacere occuparsi di Rosie »

Bevo un altro sorso di tè, cercando di non perdermi nell’illusione di John nuovamente in Baker Street, immersi nella nostra routine. Niente sa più di noi due che essere seduti nelle nostre poltrone, davanti al caminetto con una tazza di tè in mano. Eppure, a volte, ho la sensazione che non abbiamo mai parlato davvero di cose personali; tante volte ho sperato accadesse come nel mio palazzo mentale, solo noi due, da uomo a uomo, ma sono sempre stato il primo a evitare questo genere di conversazioni e di certo non le ho mai incoraggiate.  
« Sai, delle volte sono nel mio appartamento, circondato da mobili che mi rendo conto di non aver scelto io ma che piacevano a Mary e mi sento come un estraneo a casa mia » mi confessa ad un tratto, probabilmente il suo sguardo aveva vagato in giro per il 221B ed era arrivato a questa particolare conclusione.

« Potresti prendere altri mobili »

«Anche qui non ho scelto niente, erano tutti mobili della signora Hudson, ma non ho mai avuto questa sensazione » Continua con il suo pensiero, come se la mia interruzione non ci fosse mai stata e in fin dei conti, credo non stia parlando davvero di mobili.

« Cosa intendi? »

« Non lo so, onestamente »  mi confida e per un attimo mi regala davvero il sorriso di John Watson, migliore amico, coinquilino, blogger.
Questo strano discorso mi aiuta comunque a prendere coscienza di qualcosa che forse avrei dovuto capire prima: Baker Street era un porto sicuro per John, il luogo dove aveva messo da parte l’insoddisfazione di essere tornato dalla guerra per abituarsi alla vita civile,  dove, spero, si sentisse a casa e poi rapidamente è diventato un luogo tetro, dove aleggiava ancora il mio spirito, dove Mary ha confessato di avergli mentito, dove era così difficile tornare per ammettere che alla fine, anche lui era umano.

« E’ per questo che non ti piace stare qui? Ti senti in colpa verso… i tuoi mobili? »

John sorride di nuovo, anzi accenna quasi ad una risata « In un certo senso »

Restiamo qualche minuto in silenzio, prima che John si sieda sul bordo della poltrona e protenda la schiena verso di me, come per avvicinarsi e per dirmi qualcosa di intimo forse, sicuramente qualcosa di importante che non poteva pronunciare nella posizione rilassata in cui si trovava.

« E’ un nuovo inizio, Sherlock? »

« Uno dei tanti »

« Non dire così, non credo di poter reggere il dovermi reinventare di nuovo, ancora una volta »

Capisco davvero cosa voglia dire, ho dovuto reinventarmi più volte negli ultimi anni, cercando sempre di accettare le cose come venivano.

Mi porto anch’io sul bordo della poltrona e allungo  una mano, tremante, in modo da poter prima sfiorare con le dita la mano di John, col desiderio di prenderla, come a infondergli un qualche coraggio, una rassicurazione sul futuro. Sembra sciocco ma sono davvero preoccupato che all’ultimo la sposti, che mi dica che non posso in alcun modo promettergli niente, che ho già fallito in passato; invece non si muove e attende che la mia mano si chiuda sulla sua.

E’ un nuovo inizio e presto sarà primavera.
   
 
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