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Autore: Jordan Hemingway    21/03/2017    8 recensioni
L’izakaya dove trascorrevo cinque serate a settimana a ricevere ordini e a trasportare vari tipi di alcolici dalla cucina ai tavoli era un locale minuscolo, quasi invisibile dall’esterno, non fosse stato per l’insegna rosso fuoco che campeggiava fiera tra la réclame di un’azienda di assicurazioni e la vetrina di un conbini. L’interno era anche più piccolo, pochi tavoli e un bancone di legno consumato, luci basse e atmosfera fumosa. Non parlo solo del tabacco degli avventori: sembrava che tutti i clienti, o quasi, che decidevano di fermarsi da noi portassero con sé pensieri e fardelli di difficile risoluzione, dai quali cercavano di scappare con il buon vecchio metodo del bere fino al parossismo.
Un modo come un altro per passare il tempo.
Fu in una serata di inizio estate, calda e umida per la pioggia, che lui comparve di nuovo nella mia vita.

Seconda classificata al contest "Quel Primo, Assurdo Bacio" indetto su EFP Forum da Shanna_SlytherinEvil
Genere: Dark, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Kitsune no kisu
狐のキス
 
 
All foxes have supernatural power. There are good and bad foxes. […] Goblin foxes are peculiarly dreaded for three evil habits attributed to them. The first is that of deceiving people by enchantment, either for revenge or pure mischief. The second is that of quartering themselves as retainers upon some family, and thereby making that family a terror to its neighbours. The third and worst is that of entering into people and taking diabolical possession of them and tormenting them into madness. This affliction is called "kitsune-tsuki."
Lafcadio Hearn, Glimpses of Unfamiliar Japan
 
 
 
Nella primavera dell’anno in cui raggiunsi la maggiore età mi trasferii a Tōkyō per frequentare un corso breve di una famosa scuola di specializzazione.  Si trattava di un istituto culinario e la materia scelta era pasticceria.
Uno spreco di tempo, secondo la mia famiglia adottiva, ma avevano accettato di pagare la retta e parte delle spese per il trasloco dallo sperduto paesino del Kyūshū dove abitavamo all’epoca.
Penso tuttora che a convincerli sia stata la paura della mia reazione in caso di rifiuto.
La pasticceria è una scienza esatta: ho sempre pensato che le persone in grado di padroneggiare perfettamente il dosaggio degli ingredienti o di capire cosa aggiungere e in quale momento per cambiare il sapore di una crème brûlé o di un parfait possiedano una sorta di magia, un po’ come gli alchimisti con i loro alambicchi e la loro eterna ricerca della formula per mutare il piombo in oro.
Solo che nel caso della pasticceria l’oro si mangia, e con gusto.
Mossa da queste convinzioni mi accinsi per la prima volta a vivere da sola e in una capitale dove milioni e milioni di esseri umani respiravano, sudavano e parlavano nel ridottissimo (per me) spazio assegnato.
Era elettrizzante.
I colori, le luci e la musica di Tōkyō mi fagocitarono fin da subito, tanto che all’inizio mi sentii come se fossi approdata in un paese straniero. I giorni passavano tra lezioni al mattino e feste alcoliche alla sera, incursioni al karaoke e ai negozi di ingredienti per pasticceri.
Per questo motivo dopo il primo mese (e la vista del mio rendiconto mensile tristemente in rosso) iniziai a lavorare part-time.
L’izakaya dove trascorrevo cinque serate a settimana a ricevere ordini e a trasportare vari tipi di alcolici dalla cucina ai tavoli era un locale minuscolo, quasi invisibile dall’esterno, non fosse stato per l’insegna rosso fuoco che campeggiava fiera tra la réclame di un’azienda di assicurazioni e la vetrina di un conbini. L’interno era anche più piccolo, pochi tavoli e un bancone di legno consumato, luci basse e atmosfera fumosa. Non parlo solo del tabacco degli avventori: sembrava che tutti i clienti, o quasi, che decidevano di fermarsi da noi portassero con sé pensieri e fardelli di difficile risoluzione, dai quali cercavano di scappare con il buon vecchio metodo del bere fino al parossismo.
Un modo come un altro per passare il tempo.
Fu in una serata di inizio estate, calda e umida per la pioggia, che lui comparve di nuovo nella mia vita.
 
“Due whiskey e soda al numero tre, un piatto di edamame al numero cinque.” La voce della proprietaria era talmente alta che a volte credevo davvero potesse farsi sentire fino a Odaiba, come lei stessa dichiarava fiera dopo il terzo giro di sakè.  “Ah, e sbrigati a prendere l’ordine di quel tipo al bancone, Ayane. Saranno almeno venti minuti che fissa il vuoto.” Continuò abbassando il tono.
Clienti che si siedono senza consumare: l’incubo di ogni locale.
Mi accorsi solo in quel momento del cappotto di lana grigio e della ventiquattr’ore ordinatamente posati su uno sgabello, accanto a un uomo alto seduto nell’angolo più scuro del locale. Non fosse stato per la proprietaria avrei probabilmente continuato a ignorarlo, presa com’ero dai miei compiti giornalieri. Immaginavo già la lavata di testa che mi aspettava a fine turno.
Avvicinandomi con penna e blocco per gli ordini, sfoderai il mio tono più professionale. “Scusi il ritardo, che cosa prende…?” Mi bloccai, incapace di proferire altro. L’uomo si era voltato e mi fissava con un’espressione sconvolta.
Potevo contare le sue ciglia una a una, distinguere le screziature nel nero delle pupille e perdermi in quel labirinto. Cose che avevo già fatto molto tempo prima.
“Come puoi essere viva?” Mormorò, prima di alzarsi e afferrarmi le spalle. “Tu non dovresti essere viva!” Urlò, scuotendomi violentemente.
“Giù le mani!” La proprietaria, seguita da alcuni clienti, si materializzò armata di uno dei grandi (e pesanti) wok che usava per friggere il pollo. “E fuori dal mio locale, prima che chiami la polizia!” Tuonò furiosa, agitando il wok davanti al mio aggressore. Il quale, senza staccare lo sguardo da me, afferrò cappotto e borsa e si dileguò senza pronunciare più parola.
“Stai bene?” La proprietaria mi passò un braccio attorno alle spalle, mentre con l’altro (quello munito di wok) indicò uno dei nostri clienti abituali. “Hiroshi, vai nel retro e versami due bicchieri di quello forte. Non fingere di non sapere dov’è. Puoi prendertene uno pure tu.” Il povero Hiroshi si affrettò a ubbidire.
In pochi secondi mi ritrovai seduta nel retro dell’izakaya con un bicchiere colmo in mano. Ovviamente la proprietaria aveva già bevuto il suo e se ne stava preparando un secondo.
“Conoscevi quel bastardo?” Iniziò, senza tanti giri di parole.
Che cosa avrei dovuto dire? Come potevo rispondere?
Mi limitai a sorseggiare un po’ di quel sakè aspro e forte, sperando potesse aiutarmi a chiarire i miei pensieri.
La proprietaria rimase in attesa.
“La mia… La mia famiglia gestisce un albergo con terme incluse giù nel Kyūshū. Quell’uomo è stato nostro ospite qualche anno fa.” Sussurrai talmente piano da non essere sicura che la mia interlocutrice avesse sentito.
Invece annuì e una ruga le si formò tra gli occhi. “Perché era così sconvolto di vederti?”
Sapevo che saremmo arrivati a quel punto.
“Una sera mi incrociò mentre tornavo da un’escursione con alcuni amici. Ero sola, e a causa dell’ora tarda le strade erano vuote. Mi chiese qualcosa, indicazioni forse, e un momento dopo ero a terra con lui sopra.” Feci una pausa. Senza accorgermene il mio corpo aveva iniziato a tremare. La proprietaria mi versò dell’altro sakè.
“Quando ripresi conoscenza ero in ospedale. Ero stata in coma per giorni. Aveva voluto essere sicuro che non potessi testimoniare contro di lui, ma non ce l’aveva fatta, dissero i medici.”
“Quel figlio di puttana.” La bottiglia di sakè, ormai vuota, si infranse contro il muro. Non avevo mai visto la proprietaria tanto alterata. “Avrei dovuto chiamare immediatamente la polizia.”
“Sarebbe servito a poco, è passato tanto tempo…”
“Tu capisci che quello potrebbe decidere di finire il lavoro?”
Scossi la testa. “All’epoca la polizia non riuscì a rintracciarlo: il nome con cui si era registrato presso il nostro albergo risultò falso. Sparì senza lasciare tracce, come se non fosse mai esistito.” Cercai di controllare il tremito delle mani. “Fino a questa sera.”  Alzai gli occhi dal bicchiere. “Che cosa dovrei fare? Scappare? Tutt’ora ho problemi nell’uscire di casa e relazionarmi con gli altri. Venire qui a Tōkyō è stata la mia salvezza, per certi aspetti.”
La proprietaria mi scrutò a lungo. “Ho alcuni amici.” Si decise infine. “Loro potrebbero…”
“Non è necessario.” Sapevo anche troppo bene chi fossero gli amici della mia titolare. L’idea che potesse rimanere in debito con anche il meno importante di loro mi fece salire un conato di vomito. “Se si ripresenterà qui deciderò cosa fare. Tuttavia, non credo lo farà: se avesse voluto finire il lavoro sarebbe tornato nel Kyūshū anni fa. La mia storia era stata trasmessa su vari canali nazionali, nel tentativo di trovare il colpevole.”
“Ne sei convinta?” Di nuovo gli occhi della proprietaria cercarono di penetrare al di là delle mie parole. Qualunque cosa vedesse, si limitò a sospirare e a tornare nel locale. “Stai attenta, Ayane. Stai molto attenta.”
Solo gli dèi sapevano quanto lo sarei stata.
 
Il sorriso è energia vitale.
Me ne ero resa conto nel periodo successivo al mio risveglio dal coma: rimanevo chiusa in camera, apatica. Le azioni più semplici come alzarmi dal futon, lavarmi il viso, mangiare mi provocavano una stanchezza incredibile, tanto che dovevo fermarmi spesso per prendere fiato.
Le mie forze sembravano essere risucchiate in qualche spazio oscuro: persi peso e interesse per la vita che avevo condotto fino a quel momento. Le visite degli amici si diradarono. Se all’inizio avevano cercato di comprendere il mio stato d’animo, dopo qualche mese rinunciarono all’idea di vedermi tornare l’Ayane di un tempo, e ripresero le loro vite senza di me.
Sorridere mi procurava dolore. Quando mi chiedevano (apertamente o facendomelo intuire) di sforzarmi di essere felice riuscivo solo a produrre l’imitazione sghemba di un sorriso, dalla quale nessuno veniva ingannato.
Perché sorridere? A quale scopo? Se la vita era una sofferenza simile, perché mi era stata data in sorte?
La mia mente tornava sempre a quel ricordo.
 
Cammino nel buio, la strada è deserta. I muri e le cancellate coperte di siepi nascondono le case e le persone al loro interno. Sono esausta ma felice per l’escursione appena conclusa: domani chiederò a Miu di organizzarne un’altra.
Non vedo l’ora di entrare nella vasca e staccarmi il fango e la stanchezza dal corpo. Un corpo di cui sono orgogliosa, bianco e allenato da anni di attività fisica. In serate come questa mi sento in grado di fare qualunque cosa, qualunque…
Ed è allora che vedo la sagoma in fondo alla strada.
 
Dimenticare.
Un compito che richiedeva totale dedizione. La proprietaria non aveva di che preoccuparsi: erano anni che stavo all’erta.
 
 
Anche a quell’ora della notte l’incrocio davanti al 109 di Shibuya era affollato come in pieno giorno. Turisti alla scoperta di scorci da immortalare, uomini d’affari al cellulare, ubriachi di ritorno da una izakaya, studenti alla ricerca di divertimento.
Inalai quell’aria carica di aspettative e riuscii a calmarmi.
Lui era a Tōkyō.
Forse in questo momento stava pensando a me, a come avesse fallito nel suo intento.
Camminavo senza prestare attenzione ai passanti, concentrata nelle mie riflessioni. Che cosa dovevo aspettarmi di lì in avanti? L’immagine di lui che scappava dal locale era davanti ai miei occhi e non accennava a sbiadire. Potevo quasi percepire il suo respiro affannato, il fruscio del suo cappotto e la paura che emanava.
All’improvviso le mie fantasie sembrarono acquistare concretezza. A qualche metro da me un cappotto grigio percorreva la strada a lunghi passi, senza fermarsi e senza lasciarsi distrarre dai catch men che pubblicizzavano locali e case d’appuntamento.
D’istinto iniziai a seguirlo.
Era strano: pur sapendo che avrei fatto meglio a tornare a casa o al locale, sentivo che dovevo seguire quell’ombra ad ogni costo. Era come se una forza sconosciuta si fosse impadronita del mio corpo e mi obbligasse a infilarmi in una situazione potenzialmente letale.
Tuttavia, non riuscivo ad avere paura.
Minuti, o forse ore, trascorsero in questo modo, io che seguivo l’uomo dal cappotto grigio per i quartieri di Tōkyō, trattenendo il respiro quando credevo di averlo perso ed esalando piano nel momento in cui lo scorgevo di nuovo.
Ormai eravamo nel punto più buio della notte.
 
Infine raggiungemmo un vicolo cieco, un’apertura minima tra un negozio di elettronica con le serrande abbassate e una panetteria in stile francese. All’altezza del marciapiede qualcuno aveva creato un piccolo interstizio per un altare: una piccola volpe in pietra lavorata fissava i mandarini e le caramelle che le erano stati offerti con aria pensosa.
Fu proprio qui che il cappotto grigio si fermò, consentendo finalmente che anch’io mi fermassi.
Rimasi a lungo a guardare le spalle larghe rivestite di lana, la maniglia della ventiquattr’ore nella morsa di una mano pallida.
L’uomo si girò.
“Che cosa vuoi da me, ancora?” Sussurrò con quella voce che avevo tanto amato anni prima. Il suo viso era stravolto da un’emozione più forte della paura: forse era sollievo. “Torna nel tuo mondo di mostri e lasciami in pace.”
“Non posso.”
 
Ed è allora che vedo la sagoma in fondo alla strada.
Un ospite come tanti, non ricordo nemmeno il suo nome. Del resto non ha importanza: ci sono cose più profonde di un nome. Sguardi e occhiate lanciate di sfuggita. Passarsi accanto e sfiorarsi casualmente. La tonalità della voce nel pronunciare un ringraziamento, il mio inchino protratto appena più a lungo del necessario.
Gli occhi di qualcuno che mi desidera.
Basta questo a far scattare in me un desiderio altrettanto forte, intrinseco alla mia natura. Ormai è quasi tempo che io passi all’età adulta, come il resto della famiglia desidera da anni.
Mi avvicino: sono sporca di fango e di sudore ma l’uomo non sembra accorgersene. Mi passa una mano tra i capelli, sulla guancia. Sorrido, stringendomi di più a lui.
Aspetto il mio primo bacio.
Che però non arriva.
Vengo spinta indietro, cado e ruzzolo sull’asfalto. Non capisco che cosa stia succedendo. Alzo la testa e vedo la sua espressione sconvolta.
“Mostro.”
 
“Non posso.”
Risposi senza mentire: da quella notte di anni prima era come se la mia vita si fosse fermata. Ogni giorno che passa perdevo energia vitale, la mia luce si stava spegnendo.
Ed era il motivo per il quale avevo abbandonato il Kyūshū per la capitale: il mio clan sperava che a Tōkyō avrei potuto trovare un rimedio alla consunzione che mi divorava. Inoltre in quelle condizioni ero del tutto incapace di lavorare nell’albergo come voleva la tradizione di famiglia.  
Dovevo finire quello che non ero stata in grado di portare a termine anni prima.
“Perché?” La supplica di chi vede avvicinarsi la fine.
“Perché tu sei il mio primo.”
 
I suoi occhi puntano verso i miei piedi, verso la parte bassa delle gambe, e capisco: la coda.
Non sono riuscita a trattenere la mia coda.
Devo fare qualcosa, ma la caduta mi ha intontito.
Lui ne approfitta e mi è addosso. Non faccio resistenza: oltre al dolore e alla delusione, i miei poteri sono ancora deboli, la mia trasformazione in un corpo umano risale appena a qualche mese prima. Per questo lui riesce ad avere la meglio su di me.
Il mio ultimo ricordo è la pietra tagliente che mi scaglia sulla testa.
 
La reazione alle mie parole fu istantanea: impugnata la ventiquattr’ore lui si lanciò in avanti, cercando di colpirmi e fuggire nelle strade della metropoli.
Tuttavia io non ero più quella di una volta.
Ormai era tempo che giungessi alla maggiore età.
Scansai il colpo, evocando i miei fuochi: attirate dal profumo della preda le mie forze e il mio istinto si risvegliarono di colpo, riempiendomi di un potere mai sperimentato prima di allora.
Afferrai l’uomo per le braccia e lo schiacciai contro il muro. La disperazione del suo viso era un piacere che mi scorreva nel sangue.
E finalmente ebbi il mio primo bacio.
 
Ho sempre amato la cucina, in particolare le preparazioni tradizionali in cui i dosaggi devono essere esatti. Non per niente mi sono appassionata alla pasticceria.
Siamo quello che mangiamo: un vecchio detto che sta tornando in auge in questi tempi moderni.  Che sia vero o no, di una cosa sono certa. Il primo bacio, la prima volta in cui un kitsune assapora l’energia vitale di un umano (e non sempre per ucciderlo, anche se nel mio caso decisi di andare fino in fondo subito, per guarire completamente dal male che mi aveva tenuto in scacco per anni) e ne incamera le forze, di certo condiziona tutta l’esistenza che seguirà.
Come la lievitazione del pane per brioche: richiede sforzi per impastare, tempo e condizioni appropriate. Nel mio caso aveva richiesto più tempo e sforzi del previsto, ma il risultato finale era valso l’attesa.
Lasciai il cadavere nel vicolo e dopo aver camminato per qualche isolato presi l’autobus notturno per tornare verso casa.
Le luci di Tōkyō brillavano come stelle nella notte, ma molto più effimere. Mi concentrai sulle insegne dei locali, sugli ultimi passanti nelle vie, sui semafori e sui taxi che correvano alla ricerca di passeggeri. Presto sarebbe stata l’alba: le stazioni della metropolitana avrebbero riversato flussi di impiegati e studenti nella luce del sole, i caffè avrebbero alzato le saracinesche, una nuova giornata sarebbe iniziata.
Per la prima volta dopo tanto, troppo tempo, sorrisi.

 
 
 
Glossario
 
Izakaya: Pub giapponese dove vengono serviti sia bevande alcoliche che snack o piatti tipici.
Conbini: Piccoli supermercati aperti 24/7.
Edamame: Fagioli di soia bolliti nei loro gusci, da mangiare assieme agli alcolici.
Wok: Padella molto fonda usata per friggere o saltare verdure e tagliolini.
Futon: Materasso sottile steso a terra al momento di dormire.
Catch men: Ragazzi o ragazze di bell’aspetto che, davanti alle porte dei locali, reclamizzano il posto e cercano di attirare clienti.
 
 
Web
Per il brano di Lafcadio Hearn: http://academia.issendai.com/foxtales/japan-lafcadio-hearn.shtml

Storia scritta per il contest "Quel Primo, Assurdo Bacio" indetto su EFP Forum da Shanna_SlytherinEvil 

Nome su EFP/Forum EFP: Jordan Hemingway
Genere/Rating: Fantasy/Giallo
Tipologia: One shot
Pairing: Nessuno
Note: Glossario a fine storia.


 
  
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