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Autore: AlnyFMillen    18/04/2017    3 recensioni
Per questo hai bisogno, hai davvero bisogno di sapere quanto, se una manciata di attimi oppure due vite intere.
Questo per sapere ancora quanto dovrai aspettare, se cento notti oppure migliaia, se un fiume di lacrime o grida strazianti.
Per quanto tempo dovrai restare ferma, immobile, incapace a tremare e sperare, pregare con quell'unica goccia di sangue che ancora ti lasciano scorre placidamente nelle vene.
Sei rotta, ormai. Non funzionerai più bene.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Johanna Mason
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Uno, due, tre; quattro, cinque, sei.

Dieci volte, dicevano. Dieci misere volte. Dieci dannate, infinite volte. Quant'è passato dalla tua, di caduta? Quanti anni, quanti mesi, giorni, ore, minuti.... secondi? Quanto? Vuoi saperlo. Devi, ne hai bisogno. Un bisogno in ugual modo impellente, urgente e dilaniante.
 
Tredici, quattordici, quindici; sedici, diciassette.
< < Alzati Joh' o farai tardi a scuola > >.
Ventinove, trenta; trentuno, trentadue.
< < Gli Hunger Games non aspettano certo che tu cresca > >.
Quaranta, quarantuno.
< < È scaduto il suo tempo, signorina Mason > >.
Cinquanta.
< < Tick-tack, l'arena è un orologio > >.

Il corpo viene tirato indietro, due dita massicce e grassocce tengono ben stretto il collo della donna. 
La presa rimane ferma ancora per qualche secondo, il tempo di accertarsi che sia effettivamente viva, poi scivola verso la base del viso. 
Non sarebbe di certo la prima volta che, in uno di quei giochetti mortali, qualcuno ci rimette la vita a causa di  timer poco precisi. 
Pollice ed indice imprimono ancora una volta  il loro profilo ben delineato, lì dove le ombre violacee corrispondono perfettamente al tocco. Quelle stesse dita che ora torturano, solo poco tempo fa pulivano, truccavano, levigavano, ungevano la sua pelle quasi fosse una regina. 
La seconda mano va ad afferrare il tessuto leggero e stracciato della divisa che ha indosso, raggiungendo l'angolo dell'osso sporgente del bacino. Stringe, un tocco freddo, distaccato, come stesse dicendo che non vuole farle del male.
A Johanna verrebbe da congratularsi con quel tipo, semplicemente per il suo vivace senso dell'humour. L'ironia di quella stretta è così palese che comincia a pensare di dover stare seriamente attenta a non perdere la testa. Sempre che la ragione non l'abbia abbandonata già da un po', si intende. 
Se non fosse così certa — perché lo è  anche  deve ripeterlo continuamente per non scordarlo — che Snow e tutti i suoi seguaci muniti di camice bianco appartengano alla categoria degli esseri più ributtanti sulla faccia della terra, finirebbe per credere che loro le stanno facendo quel che le stanno facendo solo perché è il meglio per lei. 
È un corrodere psicologico, più che fisico. 
Ha sempre badato poco alle parole di chi afferma che “è tutto nella propria testa”, non si è mai fatta di questi problemi: il dolore inventato dalla propria mente per chissà quale squilibrio non può essere  nemmeno lontanamente paragonato a quello reale, tangibile. Persino appena uscita dall'Arena, con le maschere senza volto dei suoi compagni al seguito, ha continuato a credere fermamente nelle proprie idee. Insomma, un'ascia piantata dritta dritta fra le scapole — sgradito souvenir lasciato dal compagno di distretto subito prima di spirare — provoca sicuramente più dolore di quattro fantasmi immaginari. 
Eppure adesso la volontà comincia a vacillare, la realtà e la finzione non sono poi così distanti come li ricordava. C'è, o forse è meglio dire c'era, una stretta ma spessa linea a separarle che ha vacillato la prima volta, se la ricorda, quando i suoi occhi di bambina si sono posati sullo schermo del televisore stranamente acceso. 
A Johanna verrebbe da ridere, tanto perchè trova quei pensieri più che divertenti, ma non lo fa. Vorrebbe, non può a causa della tosse convulsa che le sta attanagliando il petto. 
La prenderebbero per i capelli, se potessero, se gliene avessero lasciati sulla testa. La tirerebbero su con violenza, con lo schiocco di qualcosa che viene riportato in superficie. Le ciocche corvine ricadrebbero fradicie sul suo viso, oscurandole in parte lo sguardo. 
Farebbe più
scena, di certo. 
Eppure non gli interessa più di tener in piedi nemmeno il loro spettacolino, basta che sia lei l'unica spettatrice. Vogliono metterla a nudo, fuori, dentro, ovunque. E ci stanno riuscendo.
 Non ha più niente e loro vogliono che lei lo veda bene, riflesso nella sua immagine a pelo d'acqua mentre un'uomo la costringe a tenere il capo chinato a pochi centimetri dalla vasca, ricordardandole che non ha più alcun potere nemmeno sul suo corpo. Se solo lui volesse immergerla di nuova, potrebbe; se solo lui volesse farla restare lì a fissarsi, potrebbe. 
Ci sono giorni in cui la lasciano semplicemente lì, davanti allo specchio d'acqua, aspettando probabilmente che dia di matto. Ma lei resiste, resiste accumulando l'odio e conservandolo per la battaglia finale che, lo sa, arriverà. Quando finalmente avranno escogitato un modo per poterli portare fuori da quel dannato manicomio tutta l'ira, il rancore covati verso le bestie si potrà riversare fuori dai suoi occhi come un fiume in piena. Almeno, insieme ad esso, espellerà anche l'acqua. 
La pelle entra in contatto con una superficie che sa di freddo e metallo. 
Istintivamente, cerca di ritrarsi con uno strattone mal coordinato ma le sue membra sono troppo deboli per assecondarla. Dov'è Johanna Mason, si chiede. Dov'è la ragazzina sopravvissuta agli Hunger Games, la ragazza sfrontata, la donna forte e temuta, si domanda. La risposta emerge semplice e priva di senso nel buio della mente.

'È morta'
Perchè è così, non può essere altrimenti. Non saresti qui a stringere i denti fino al punto di rottura per evitare di gridare. Non ancora almeno, non nei primi cinque miseri secondi, vuoi credere di avere la forza di resistere, la voglia di combattere. 
Percepisci le ventose -quelle maledette ventose- attaccarsi alle tue tempie, l'una dalla parte opposta rispetto dove si trova l'altra. 
L'impulso di strattonare le cinghie che ti tengono inchiodata alla sedia è forte ma devi trattenerti, i polsi e le caviglie sono già abbastanza mutilati e non serve che tu vi sfreghi sopra del cuoio. 
Inchiodi il capo allo schienale, con la consapevolezza che di lì a poco sotto i piccoli cerchietti di plastica appiccicati su di te vedrà la luce un altro lembo di carne cruda. Senti il sangue scivolare lungo la guancia, non riesci a pensare ad un particolare così stupido come quello che si incrosterà e non riuscirai più a pulirlo. 
Non c'è Finnick ad aiutarti come nell'Edizione della Memoria e se anche ci fosse non sarebbe comunque lì da te bensì da un'altra donna, la cella così attaccata alla tua da poter percepire ogni suo singolo rantolo. 
Che divertimento ci trarranno nel torturare qualcuno di così indifeso? Lo sanno anche loro, le manca qualche rotella. Perchè continuare ad infierire? 
L'hai vista non appena ti hanno sbattuto in quell'Hovercraft, dannata anche lei, e già sembrava fuori di sè nonostante l'avessero toccata nemmeno con un dito. Non stava delirando, non proprio, piuttosto era...
preoccupata. Per chi? Per te e quei due poveracci ridotti in fin di vita? Per lei stessa, temeva per la sua incolumità? Per quello che avrebbero potuto farle? No. Lei era preoccupata, terrorizzata dall'idea che fosse successo qualcosa a Finnick. 
In una situazione normale, le avresti urlato contro le peggio cose, una parte di te lo voleva intensamente. Voi eravate in quel casino, con praticamente due piedi nella fossa, e lei stava dando di matto per una persona che, se non era lì con loro, di certo restava sdraiato comodamente su un bel letto d'ospedale. L'infermità mentale può arrivare fino ad un certo punto, sicuramente non così in là. Eppure non avevi aperto bocca. Forse pensando a come, lontano da Finnick, ogni cosa per lei perdesse significato.
Senti l'ago pungerti il braccio e capisci che di lì in poi qualunque movimento ti sarà impedito. Non che potessi fare granchè, prima. Sforzi i bulbi oculari perchè possano mostrarti ciò che accade alla tua destra, lì dove si è spostato colui cui è stato affidato il compito di occuparsi di te. 

Pic.
La mano si poggia sulla leva ancora una volta.
Swish.
Spinge verso il basso ancora una volta. 
Tack
Ti spezza per la prima volta.


Tredici, quattordici, quindici; sedici, diciassette.
< < Alzati Joh' o farai tardi a scuola > >.
Ventinove, trenta; trentuno, trentadue.
< < Gli Hunger Games non aspettano certo che tu cresca > >.
Quaranta, quarantuno
< < È scaduto il suo tempo, signorina Mason > >.
Cinquanta
< < Tick-tack, l'arena è un orologio > >.


Hai urlato, urlato come non avevi mai fatto in vita tua. E scalciato, graffiato, ti sei dimenata come un'animale in gabbia ma non è servito. A niente. 
Guardi in faccia la realtà, sei rimasta ferma, immobile, impotente, mentre la tua testa si dibbatte per rimanere lucida. Fallendo. 
Sei rotta, ormai. Non funzionerai più bene. 
Per questo hai bisogno, hai davvero bisogno di sapere quanto, se una manciata di attimi oppure due vite intere. Questo per sapere ancora quanto dovrai aspettare, se cento notti oppure migliaia, se un fiume di lacrime o grida strazianti. Per quanto tempo dovrai restare ferma, immobile, incapace, a tremare e sperare, pregare con quell'unica goccia di sangue che ancora ti lasciano scorre placidamente nelle vene.
   
 
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