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Autore: Jawn Dorian    09/05/2017    2 recensioni
«Krista dice che stai cercando di diventare mio amico.»
Elliot Alderson ha un cuore gentile sepolto sotto un mare di incubi e John Watson è notoriamente l'amico di chi non ha amici.
John Watson brama ancora la guerra con ogni fibra di sè e Elliot Alderson ha una guerra dentro la testa.
L'ironia di due vite che si intrecciano quando non si sarebbero mai dovute intrecciare.
{ Sherlock (BBC) + Mr.Robot }
La cosa più strana che abbiate mai letto.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Sherlock Holmes
Note: Cross-over, Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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(Se vi state chiedendo il senso di tutto ciò e come mi sia passato anche solo per l'anticamera del cervello, le note a fine capitolo sono quello che vi ci vuole. Se invece siete dei menefreghisti sentimentali come me, godetevi questa roba senza sapere.)




 

 

A Martina, senza cui questa storia non esisterebbe.
A Kaja, che mi fa capire cosa vuol dire volersi prendere cura di qualcuno.
E alla mia Sherlock, che mi ricorda sempre come comincia la storia di un'amicizia

 

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1. La prima volta che il soldato vide il burattino non lo vide davvero, perché era buio pesto.

 
Erano le tre di notte. E nei mesi che seguirono, John si domandò perché accidenti tutte le cose più assurde in quella casa piombavano nella sua vita proprio di notte, quando lui invece avrebbe tanto volentieri dormito. Ma non ci poteva fare niente, perché la sorte l’aveva scelto per vivere tra le anormalità. E quindi erano le tre di notte e John stava scendendo le scale per prendere un bicchiere d’acqua, ma inciampò. E non inciampò sul tappeto mal posato o su un giornale lasciato lì da Sherlock, ma inciampò su un fagotto nero raggomitolato in un angolo della stanza, che appena venne toccato sgusciò all’indietro come un gatto a cui qualcuno aveva pestato la coda. Ma non era un gatto, era decisamente un essere umano, che per qualche motivo se ne stava rannicchiato alla fine della scalinata. John inciampò ma non cadde, e con uno scatto riprese l’equilibrio e afferrò il fagotto con una certa irruenza. «Chi diavolo-» cominciò, e si stupì più che altro di non aver incontrato alcuna resistenza: il fagotto nero si lasciò afferrare ed emise solo un mugolio di disapprovazione ed era estremamente leggero da spostare. Si calmò un poco, perché di chiunque si trattasse sentiva di sovrastarlo fisicamente, ma non mollò la presa. «Chi è?!» tuonò, vagamente scosso dalla sorpresa, e mentre gli occhi si abituavano un po’ al buio, poté notare la sagoma dell’intruso irrigidirsi terribilmente sotto la sua stretta, e poco dopo – riusciva a percepirlo – si mise a tremare. «Sono Elliot.» Non sembrò essere sufficiente per John. Non smise di tenerlo immobile, inchiodato alla parete.
«Come sei entrato?»
«Sherlock» la voce era meno sicura, ora, più rotta e sbiascicata. Sembrava più spaurito di qualunque altro incursore che John aveva avuto modo di affrontare a Baker Street, quindi allentò un poco. «Sherlock mi ha fatto entrare.»
«Chi sei tu?» ripeté John, ancora più confuso di prima, se possibile.
«Sono Elliot...»
«No, intendo— perché Sherlock ti ha fatto entrare? Perché sei qui?»
«Aveva un lavoro per me.»
John Watson non dubitava del fatto che il suo coinquilino avesse fatto qualcosa del genere – e cioè ingaggiare qualcuno per qualcosa senza dirgli un bel niente e non premurarsi di accompagnarlo alla porta una volta che l’opera era conclusa – ma volle fare un ultimo accertamento. Lasciò la presa e aspettò di vedere ricomporsi lo sconosciuto, che sembrava più che sollevato e poi domandò che genere di lavoro gli avesse assegnato. «Io sono un hacker» biascicò la voce dopo un attimo di esitazione «stavo cercando di risalire ad una persona-»
«Perché sei ancora qui?»
Ci furono dei secondi di silenzio, prima che la voce ammettesse stentante: «Non ho un altro posto dove dormire.»
John contò fino a dieci (come la sua analista gli aveva consigliato caldamente di fare ogni volta che sentiva la rabbia montare per via delle mancate norme sociali di Sherlock) poi sospirò, e sebbene fosse ancora molto sospettoso, decise che tra l’ipotesi di un ladro entrato in casa e quella dell’hacker senzatetto ingaggiato da Sherlock – data la sua vita e dato Sherlock – la seconda, in fondo, non era che la più fattibile.  «Perché non ti sei steso sul divano?» chiese quindi al nuovo arrivato. «Sherlock mi ha detto di non toccare nulla» fu l’innocente risposta, e per un secondo John si chiese se lo stesse prendendo in giro, ma non pareva affatto che fosse in vena di scherzi. «Non…non fa niente, stenditi sul divano, ti do io il permesso.»
Elliot – aveva quasi dimenticato che quella sagoma nera aveva un nome - sgattaiolò verso il divano senza dire una parola e riuscì a sentirlo accucciarcisi senza troppi complimenti.
Decise che era il momento di tornarsene a letto. Era troppo stanco anche solo per avere una reazione a tutto…quello. Non poteva fare altro che salire in camera e sperare di non aver davvero lasciato un ladro a piede libero nel loro appartamento. Si consolò, dicendosi che se anche lo fosse stato sul serio avrebbe rimediato solo un teschio o una lente d’ingrandimento e cominciò a risalire le scale lentamente. «Buonanotte» mormorò per pura educazione, non aspettandosi risposta. E infatti non la ottenne.
 
***
 
«’Buongiorno John’ un paio di palle» fu la prima frase che Sherlock Holmes si sentì rivolgere la mattina seguente e francamente, oltre ad essere estremamente volgare, gli sfuggì cosa avesse fatto questa volta per meritarsi una cosa simile di prima mattina, quando per altro lui aveva avuto il garbo e il buon gusto – per una volta – di dire ‘buongiorno’.
«John, temo tu stia passando troppo tempo in compagnia di Lestrade.»
Ma John Watson ignorò la provocazione, armato di una tazza di caffè ed un’aria più sbattuta del solito, e ritornò all’attacco nell’ennesimo vano tentativo di spiegare a Sherlock che in quanto suo dannato coinquilino era suo dovere avvertirlo di ogni eventuale ospite. «’Hey, John, uno dei miei amici senzatetto rimane a dormire’! Dimmi, era così difficile?»
«Elliot non è un senzatetto. Non tutti quelli che lavorano per me lo sono. E poi non ero sicuro avresti approvato.»
John si arrese. Era troppo presto per continuare quella discussione che in ogni caso avrebbe perso. Tempo perso. Abbaiare al vento. Mandò giù il resto del suo caffè e si infilò un biscotto in bocca prima di avviarsi in bagno.
«Quindi non ti infastidirebbe se Elliot rimanesse a dormire altre volte.»
Prima di chiudersi la porta alle spalle, John trovò la forza di ribattere solo con: «Magari la prossima volta assicurati che non si metta a dormire per terra.»
Sherlock si aprì il giornale concedendosi un sorrisetto vittorioso.
 
***
 
Per settimane l’argomento non fu più riportato a galla, e John aveva quasi dimenticato quell’insolito incontro notturno – perché in fondo ormai la sua vita nella sua interezza era più che insolita – e inoltre tutti erano in fermento per un nuovo caso che Sherlock Holmes e il Dottor Watson avevano brillantemente risolto ancora una volta. Sherlock stranamente sembrava davvero compiaciuto di sé stesso e di aver ritrovato quella coppia di coniugi scomparsi. Come al solito aveva chiesto che le attenzioni della stampa non si rivolgessero a lui ma a Lestrade o a Dimmock – che in quell’occasione erano intervenuti entrambi a sorvegliarlo – ma pareva soddisfatto della riuscita, ed ancora non scalpitava reclamando un nuovo caso preso da una crisi d’astinenza. Forse perché quel caso li aveva veramente messi a dura prova entrambi. Fatto stava che, nonostante la sua nomea di anti-festa che aveva raggiunto la fama internazionale, non tentò di protestare quando John andò a fare la spesa in grande per sperimentare in cucina in modo da “festeggiare” il loro successo. Quindi John Watson camminava tranquillo con le sue buste in mano e l’aria un pochino trionfante per il bottino e l’idea di un ottimo spezzatino di patate e manzo. Tutto ad un tratto, quando aveva quasi raggiunto la porta del 221b, si sentì chiamare. «Dottor Watson?»
Si girò con tranquillità e trovò un profilo familiare e due occhi enormi e un po’ agitati che lo fissarono per poco, prima di rivolgersi verso il marciapiede, nascosti dall’ombra di un cappuccio nero. A chiamarlo era stato un ragazzo. Forse per via dello sguardo sfuggente, della felpa nera in cui era infilato o del fatto che teneva le testa incassata nelle spalle e le mani nelle tasche, a John sembrò uno scricciolo. «Sì..?»
Pareva stesse prendendo coraggio, prima di parlare. Respirò impercettibilmente più forte dalle narici e tornò a guardarlo, prima di biascicare: «Scusa.»
«Per cosa— Aspetta…aspetta un attimo» John si avvicinò di un singolo passo riconoscendo quel profilo, ma bastò affinché il ragazzo indietreggiasse terrorizzato «…Elliot, giusto?»
Il giovane annuì velocemente con le labbra serrate, visibilmente spaventato, così John si ricordò che la prima volta che si erano incontrati lo aveva sbattuto contro il muro scambiandolo per un ladro. «Temo di dover essere io a scusarmi per non averti dato tempo di— beh…Sherlock non mi spiega mai— in ogni caso, ti chiedo scusa per l’irruenza.»
Elliot per un attimo sembrò confuso, come non avesse mai sentito qualcuno fargli delle scuse prima di quel momento, ma poi ripeté: «Scusa.»
«Per…cosa, con esattezza?»
Il ragazzo tirò fuori il cellulare con gesto deciso e avanzò di poco verso Watson, mostrandogli il display. Tutto ciò che John vide furono lettere e numeri di cui non capì il reale significato fino a che non scorse una barra che caricava su cui sopra capeggiava il suo nome. «Ti ho hackerato il cellulare» disse Elliot a quel punto chiarendo ogni dubbio, con una tale nonchalance che a John riuscì quasi complicato offendersi. «E…Ehi!» protestò, ma un po’ per le buste in mano, un po’ per i modi stentati di quel ragazzino, un po’ per la consapevolezza che la cosa più imbarazzante nel suo telefono era una sua vecchia foto da piccolo a lezione di clarinetto, si limitò a sospirare e corrucciarsi. «Beh, hai perso tempo. Non c’è un bel niente di top secret nel mio cellulare.»
«Questo lo so. Tu sei un tipo normale» ribatté con naturalezza disarmante. John a quel punto fu pervaso da una strana sensazione di deja vu: una curiosità martellante e una voglia matta di chiedergli per quale motivo allora avesse deciso di hackerare comunque il suo cellulare. Rimase lì imbambolato ed incredulo un altro attimo, che diede il tempo ad Elliot di accumulare altro coraggio per continuare: «Di solito non lo faccio. Non chiedo scusa di persona.»
L’ennesimo sguardo perplesso del medico sembrò invogliarlo a concludere il discorso: «Cerco di lavorare sulla mia ansia sociale.»
«Err— okay…cioè, ottimo. Ottima cosa…grazie per le scuse, allora. Io…vado a preparare la cena.»
«Okay…»
Era sorprendente come molte cose che un tempo avrebbero fatto uscire Watson dai gangheri ora gli provocassero solo un vago fastidio alla base dello stomaco, che comunque in quell’occasione represse con maestria invidiabile. Quel ragazzo era strano ed un po’ inquietante, ma in qualche modo lo trovava simpatico. Gli faceva tenerezza. Probabilmente si trattava di un adulto, ma i suoi atteggiamenti, quegli occhioni strabuzzati e lo zaino in spalla lo facevano sembrare un ragazzino. E poi John apprezzava molto la sincerità. «Uhm, senti…Elliot. Mi dovevi solo dire questo?»
«In realtà» ammise con un po’ di fatica «ero venuto per concludere quel lavoro per Sherlock…forse ho trovato qualcosa ma— insomma, siete occupati, torno un’altra volta.»
E allora John capì che in qualche maniera Elliot aveva fatto un grande sforzo a venire fin lì, e che probabilmente l’ansia sociale non era il suo unico problema e sospirò, sospirò sonoramente perché sapeva che si stava probabilmente facendo fregare da quell’aria sprovveduta e infantile, ma al diavolo. «Non dobbiamo fare nulla di particolare se non cenare. Non preoccuparti, entra pure con me.»
Elliot gli lanciò uno sguardo totalmente confuso, facendo saettare le pupille da una parte all’altra, come se si stesse facendo esplodere la testa con mille domande, e John sentì il bisogno di calmarlo: «Puoi rimanere a cena con noi. Se vuoi. Insomma, lavori per darci una mano, offrirti una cena è…un gesto…ti senti bene?»
Sembrava ancora più confuso di prima, ma annuì. «Okay» mormorò piano.
 
***
John sapeva una cosa o due sui piccoli geni che avevano difficoltà a rapportarsi con le altre persone. Dopotutto, condivideva un appartamento con una delle menti più brillanti di quel secolo che era anche un sociopatico iperattivo. Per questo Elliot Alderson lo incuriosiva tanto: gli ricordava Sherlock, ma allo stesso tempo pareva completamente diverso da lui. Insomma, tra una visita a Baker Street e l’altra John si mise ad osservare involontariamente i suoi atteggiamenti, e notò che l’ansia sociale sembrava la cosa meno problematica nella vita di quel ragazzo. Ogni volta che lo vedeva gli sembrava sempre più magro e malandato. Al di fuori delle sue sporadiche visite a Baker Street non aveva idea di quale fosse la sua vita, e quasi faceva fatica ad immaginarla. Ma la cosa che John era certo di aver capito senza alcun dubbio, era quanto quel ragazzo fosse geniale. Non importava quanto le richieste di Sherlock fossero assurde, esigenti, o deliranti, Elliot abbassava la testa sul suo portatile, e in meno di un minuto avevano quello che stavano cercando. Nomi, indirizzi, informazioni, amanti, password, non aveva alcuna importanza: trovava tutto in poche mosse, senza pretendere nessun grazie e senza donare nessun prego. Era impressionate, e diede la possibilità a John di comprendere un elemento fondamentale di Elliot Alderson: non era abituato alla gentilezza.
«Fantastico!»
John non era solito farsi problemi nell’esprimere il suo entusiasmo di fronte alle deduzioni di Sherlock, e non vedeva perché avrebbe dovuto fare altrimenti con le doti straordinarie di Elliot. Solo che quando ebbe rintracciato il truffatore che stavano cercando da un’intera settimana e John gli concesse quel complimento, Elliot lo guardò come se gli fosse spuntato un terzo braccio. «Fantastico?» biascicò perplesso «Cosa dovrebbe essere fantastico?»
Sherlock, dalla sua poltrona, emise uno sbuffo per poi dichiarare: «Non farci caso, Elliot. I complimenti fuori luogo sono una prerogativa di John.»
E prima che John potesse protestare, il ragazzo ripeté la domanda, con la stessa espressione di un bambino insistente e curioso: «Cosa è fantastico?»
«Ma tu! Il lavoro che hai fatto! Sei stato bravo e io te l’ho— insomma, nulla di fuori luogo, Sherlock esagerava. E’ stato fantastico!» A quel punto Elliot si bloccò. Ancora una volta prese a scrutare John, poi Sherlock, e poi ancora spostò lo sguardo sul portatile e infine, inaspettatamente, arrossì così tanto che la cosa risultò evidente anche da sotto l’ombra del cappuccio. Sherlock aggrottò le sopracciglia di fronte a quella visione oscenamente infantile mentre John, prevedibilmente, trattenne una risata.

 
***
Elemento fondamentale di Elliot Alderson numero due: Elliot non mangiava. O almeno, non abbastanza. E di questo John si era fermamente convinto. Non seppe spiegarsi perché, ma sentiva l’istinto di rimpinzarlo con un buon pasto caldo ogni volta che lo vedeva, perché ogni volta che lo vedeva gli sembrava più sciupato e magro di quella precedente. E se Sherlock aveva cominciato ad inneggiare ad un delirio di mancata paternità dovuto all’andropausa imminente del suo coinquilino, la signora Hudson invece lo sosteneva fermamente in quella convinzione: quel ragazzo era troppo magro, sottopeso, e aveva bisogno di pasti regolari. Per questo quando - nel bel mezzo di una delle sedute di hacking supervisionata da Sherlock e Lestrade - John posò sul tavolino un piatto di uova strapazzate e pomodori al forno, nessuno nella stanza sembrò stupirsi più di molto. Nessuno a parte Elliot. Non fece domande ma spostò lo sguardo sospettoso dal piatto a John che si affrettò a spiegare: «Te lo offre la signora Hudson.»
«Perché?»
«Perché no?»
Il giovane hacker sbatté le palpebre un paio di volte, prima di decidere che non sapeva come rispondere. Quindi prese la forchetta, ed iniziò a mangiare.
***
Elemento fondamentale di Elliot Alderson numero tre: sembrava soffrire di un disagio ben più grave che una semplice ansia sociale. John notò le cose giuste, perché d’altronde era un medico, e finì per domandarsi se quel ragazzo non rientrasse nello spettro autistico. Era piuttosto evidente dal modo in cui evitava lo sguardo, dall’immediato spasmo allarmato che produceva non appena lo si sfiorava appena. Fece un paio di ricerche anche aiutato dalla sua memoria, e tra le varie ipotesi la più plausibile gli sembrò quella della sindrome di Asperger. Molto spesso scherzando l’aveva associata a Sherlock, ma in realtà quella sindrome era molto più complicata. Non era uno specialista in materia, ma gli parve plausibile, dati i comportamenti che aveva avuto modo di osservare in quel ragazzo tanto geniale: un grave disturbo dello sviluppo caratterizzato dalla presenza di difficoltà importanti nell’interazione sociale e da schemi inusuali e limitati di interessi e di comportamento. Quella sindrome, in un certo qual modo, era ancora misteriosa e definita poco precisamente, ma alla mente poco allenata sull’argomento di John quello parve proprio un caso da manuale. Sapeva per certo che Elliot era più che consapevole dei suoi problemi comportamentali, ma finì per domandarsi se il ragazzo – o chi per lui quando era un bambino – avesse provato a dare un nome a tutti i suoi comportamenti inusuali. Fu a quel punto che si rese conto che in definitiva di Elliot non sapeva nulla, mentre lui sapeva sempre tutto su di loro. Famiglia, vita, casa. Che cosa faceva un hacker nella sua vita privata? E cosa bisognava fare per entrare a farne parte?
***
 
«Krista dice che stai cercando di diventare mio amico.»
Accadde presto – come spesso accadeva nella vita di John Watson da un po’ di tempo a quella parte – che quella frase inaspettata rimbombò nel salotto del 221b. Sherlock era fuori per una chiamata urgente (molto probabilmente da Mycroft, considerato il grugno stampato sulla faccia del consulente investigativo e la veemenza con cui aveva sbattuto la porta), e quindi ad assistere all’hackerata mattutina doveva essere John da solo, che di tecnologia era certamente quello che ne capiva di meno, ma qualcuno doveva pur esserci, e John c’era. C’erano solo lui ed Elliot, per una volta. E ben presto il ragazzo alzò la testa dal portatile, tolse le dita dalla tastiera, e rivolse a John quell’affermazione come fosse stato qualcosa su cui aveva lungamente meditato e che ora voleva sottoporre alla sua supervisione. Così come molte altre volte, il povero dottore stilò velocemente una lista di domande nella sua testa e partì subito con la prima, dopo una breve pausa: «Chi diavolo è Krista?»
«La mia strizzacervelli.»
«Tu hai una terapista?»
«Sì..?»
Rimase spiazzato, ma anche piuttosto sollevato da quella scoperta. Almeno poteva essere sicuro che quel ragazzo non stesse affrontando i suoi problemi da solo. «Penso che Krista abbia ragione. Sì, sto cercando di diventare tuo amico.»
E fu così che John scoprì l’elemento fondamentale di Elliot Alderson numero quattro: nonostante non amasse le persone, amava ancora meno la solitudine.
«Che cosa dovrei fare a riguardo?» biascicò a quel punto, tra l’imbarazzato e l’esterrefatto.
John era sinceramente intenerito da quegli occhi strabuzzati e l’aria di chi non doveva aver avuto molti amici prima di quel momento, e decise che valeva la pena tentare di aiutarlo. Avere un amico non avrebbe risolto tutti i suoi problemi sociali, ma magari avrebbe migliorato la situazione e spianato la strada ad un percorso terapeutico più sereno. «Dipende. Ti piace l’idea che io cerchi di diventare tuo amico?»
Elliot si prese un momento per pensarci, guardando altrove. Ma poi, con un guizzo cristallino nelle iridi chiare, tornò a incatenare gli occhi a quelli di John, che quasi si sorprese di tanta audacia. «Sì…credo. L’idea mi piace.»
Un piccolo sorriso – il primo che John vide sul volto di quel ragazzo – sbucò sulle sue labbra. Un sorrisetto innocente, sincero e piuttosto…tenero. John ammise a sé stesso senza troppe cerimonie di avere un debole per quell’espressione, ma la vide svanire quasi immediatamente. Ora Elliot aveva gli occhi inchiodati al pavimento e l’aria incupita. «Però penso che non dovresti. Non dovresti essere mio amico.»
«Perché no..?»
«E’ meglio che tu stia lontano da me.»
***
Sherlock aveva molti giovani amici che bazzicavano le strade a cui chiedere consiglio, ma difficilmente John aveva avuto contatti con loro per lungo tempo. C’era stato Buzz, il writer della pittura gialla per colpa di cui era finito in tribunale per comportamenti antisociali. Si era fatto perdonare a processo concluso con una torta e delle scuse che erano state una cosa tipo: “Ma tanto lo sapevo ti avrebbero assolto, Doc. Hai il faccino troppo da bravo dottore per finire dietro le sbarre.”
Insomma John non conosceva realmente gli elementi che costituivano la rete di Sherlock. Non aveva avuto modo – e spesso neppure la voglia - di familiarizzarci in alcuna maniera. Così Elliot Alderson finì per essere l’ennesima eccezione alla regola della sua vita. Dopo la conversazione che avevano avuto sull’amicizia però, Elliot parve diventare più schivo del solito nei suoi confronti. Decise all’improvviso che non riusciva a lavorare se c’era anche John nella stanza, così il malcapitato dottore doveva sempre aspettare che l’operazione fosse conclusa fuori dalla porta dell’appartamento, poi prese a rifiutare il cibo che gli veniva offerto, finché non arrivò addirittura ad ignorarlo del tutto.
 
***
«Non capisco.»
«Non tutti hanno voglia di essere tuoi amici, sai, John?»
John abbassò il giornale e alzò gli occhi al cielo, mentre il suo coinquilino e ironicamente amico Sherlock Holmes lo derideva dalla sua postazione in cucina, davanti al microscopio. «Elliot ha un animo solitario, non è detto che abbia bisogno della tua amicizia.»
«Esistono tanti animi solitari che hanno comunque bisogno di almeno un amico.»
Su quel punto Sherlock non sapeva come ribattere, perché in effetti lui faceva parte proprio di quella categoria, e dopo l’avventura del mastino di Baskerville, entrambi lo sapevano benissimo.
«Sono solo preoccupato. Mi sembra irrequieto.»
«Ahh, dottore...» un sorriso amaro che cercava di farsi beffe di lui ma non ci riusciva comparve sul volto di Sherlock «non puoi salvare tutti quanti.»
«Sherlock?»
«Mh?»
«Perché ‘salvare’
***
Quando Elliot aveva hackerato John Hamish Watson erano saltati fuori degli elementi piuttosto contraddittori. Per esempio, sembrava essere un tipo semplice che amava vivere giornate tranquille, ma allo stesso tempo non riusciva a smettere di essere presente ogni volta che il pericolo chiamava. Si trattava dell’assistente di Sherlock Holmes, che doveva certamente aver imparato a dure spese che gli esseri umani sapevano essere i peggiori mostri sulla faccia del pianeta, ma comunque sembrava ben disposto verso tutti senza eccezioni. John Watson non aveva fiducia in nessuno, ma allo stesso tempo si fidava di tutti. Era una persona buona ed onesta in modo insolito, consapevole, all’erta di ciò che il mondo gli riservava. Era strano, ed Elliot aveva provato una strana sensazione nel spiare la sua vita. Oltre ad un senso di colpa più forte della maggior parte delle volte in cui frugava nella privacy altrui senza permesso, c’era anche una voglia poco convenzionale per lui di parlargli. E quindi gli aveva chiesto scusa di persona, omettendo ovviamente vari dettagli sulla faccenda dell’hacking. Ma non ci poteva fare molto se era un gran codardo. La faccenda si era complicata quando si era reso conto che parlare con John non lo agitava o faceva sentire a disagio. John rendeva malleabile la conversazione, gli domandava cose su quello che faceva con sincero interesse, lo faceva sentire bravo. Bravo. Di solito non sentiva alcun bisogno di ricevere complimenti sul suo lavoro o sui suoi scarsi progressi in ambito di socializzazione, ma John glieli faceva lo stesso, ogni volta. E non importava che fosse un ‘fantastico!’ dovuto ad un hacking appena compiuto o un ‘bravo!’ per via di un’interazione sociale andata a buon fine, Elliot si sentiva stranamente appagato e dai suoi complimenti, in qualche modo. Aveva confidato a Krista con non poca fatica queste sensazioni, e lei con un sorriso malnascosto gli aveva spiegato che John probabilmente stava cercando di diventare suo amico.
E così all’improvviso, senza che nemmeno se ne rendesse conto, Elliot Alderson aveva un nuovo amico e la cosa lo terrorizzava da morire, perché quel nuovo amico era John Watson, dalla moralità ferrea e la volontà instancabile. Erano praticamente come il sole e la luna, e qualcosa prima o poi sarebbe andato storto.
«Che ci fai tu qui?»
Aveva iniziato ad evitarlo di proposito per frenarlo e per tutta risposta ora John era di fronte alla porta del suo monolocale con una busta della spesa e un’espressione tranquilla.
«Ti sono venuto a trovare.»
«Io non— non ricevo visite, di solito.»
«Posso entrare?»
«No
Se c’era una cosa che Elliot sapeva fare, quella era allontanare le persone da sé. Quel soldatino inglese di buoni principi sarebbe stato un gioco da ragazzi, ne era certo. Ma solo gli stupidi non hanno mai dubbi e – come Holmes aveva sottolineato più volte quando si erano incontrati la prima volta – Elliot sapeva essere un discreto stupido, certe volte. «Posso lasciarti questa?» il dottore gli porse la busta senza cambiare espressione, mentre lui sembrava sempre più confuso. «Perché?» domandò, senza biascicare. «Perché so che non fai pasti regolari.»
Era vero. Decise di allungare la mano e prendere la busta, e mormorare un «Grazie» piuttosto sentito per essere suo. John sorrise a quel gesto e, dopo un breve cenno del capo si girò per andarsene. «Aspetta!»
Elliot non si rese conto di essere stato lui a parlare fino a che non vide il dottor Watson girarsi.
«Vuoi un—»
In quel caso sarebbe stato opportuno offrire un caffè o qualunque altra cosa, ma lui aveva solo…pillole di morfina. Ecco, era certo che John non avrebbe apprezzato.
«…bicchiere d’acqua?»
Sorrise di nuovo e annuì con un altro cenno del capo. Avanzò, ed Elliot, suo malgrado, si scostò e lo lasciò entrare. Era strano che lo avesse fatto. Perché lo aveva fatto, poi? Non aveva senso. Forse le cose non dovevano sempre avere senso.



 

 
 







Note piuttosto lunghe della pazza che si è lanciata in questa avventura
(Se ti piace leggere e basta senza farti troppo domande, saltale pure!)
Salve, straniero. Se sei su questa pagina può voler dire solo che hai cliccato per sbaglio (cosa che personalmente ritengo statisticamente più probabile), oppure che hai letto l’introduzione di questa fanfiction e hai pensato “Sherlock e Mr.Robot?! Cos’è questa roba? Diamo un’occhiata!”
Mi sembra quindi giusto chiarirti le idee con una piccola guida alla lettura (visto che come avrai ben capito ci saranno altri capitoli) e con qualche spiegazione sul come la mia mente sia arrivata a partorire un simile crossover che all’apparenza non ha il minimo senso.
Questa storia trova le sue radici e si ispira ad una role crossover cominciata parecchi mesi fa quasi per sbaglio. Una ragazza che ruolava Elliot Alderson è capitata nel gruppo RPG di Sherlock che frequento. Io ruolavo John, lei ruolava Elliot, mi ha contattato in privato, è iniziata una role e bam: non è più finita. Non so spiegare come e cosa ci abbia portato a continuarla. Essenzialmente ci divertivamo molto, e per qualche motivo le dinamiche tra i due personaggi funzionavano. Presa dall’entusiasmo, ho iniziato a scrivere una storia senza una vera trama in cui John e Elliot si incontrano e nasce un rapporto bizzarro. E niente, sostanzialmente, non riesco a smettere di scrivere. So che la cosa non ha il minimo senso e che è piuttosto dissacrante prendere un personaggio come Elliot Alderson e farlo diventare una specie di cucciolo d’uomo bisognoso di attenzioni, ma non sono davvero riuscita a trattenermi in nessun modo.
Avvisi, che non ho intenzione di ripetere: - E’ possibile che Elliot ogni tanto – come temo abbiate già notato in questo primo capitolo-  risulti OOC. Per me è un personaggio davvero complicato da gestire e mi scuso in anticipo;
-Ho dovuto spostare Elliot da New York a Londra. Mi rendo conto che la cosa non ha senso, perché sono certa che una storia come quella di Mr.Robot può funzionare solo in un paese come l’America e che uno spostamento in Europa non renda, ma mi avvalgo di questa licenza poetica per far sì che questi due possano chiacchierare ogni volta che vogliono;
-Non so quanti capitoli la storia durerà e dove porterà esattamente, si tratta di un pasticcio introspettivo e sentimentale senza capo né coda, prego i lettori di essere pazienti con me, che sono una gran sentimentale;
-Cercherò di incastrare le trame delle due serie per quanto possibile in un ordine cronologico che riesca a risultare logico e non troppo forzato, ma inevitabilmente alcuni dettagli mancheranno, specialmente per quel che riguarda Elliot perché questo benedetto ragazzo non ha un attimo di respiro per godersi la vita, cosa che tenterò di fargli fare in ogni modo;
-Disseminerò citazioni qua e là. Lo stesso titolo della fanfiction è una gigantesca citazione. Citazioni, citazioni, citazioni. Se le saprete cogliere tutte vi giuro che vi premierò in qualche modo. Un biscotto, una coccardina. Non lo so, ma troverò qualcosa, ve lo assicuro.
Spero davvero che qualcuno si diverta a leggere questa fanfiction come io mi sono divertita a scriverla. Solitamente non riesco mai a rispondere alle recensioni per mancanza di tempo, ma questa volta vedrò di essere presente e rispondere a qualunque domanda abbiate intenzione di fare, o a qualunque insulto (meritatissimo) pensiate di dovermi rivolgere.
Grazie infinite a chi ha letto fin qui. Buon 9 Maggio a tutti.

 
  
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