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Autore: _EverAfter_    10/05/2017    1 recensioni
Erebor è stata riconquistata.
I fedeli discepoli del legittimo re si concedono poche ore di riposo: la quiete prima della tempesta, che si rende manifesta nel potente esercito elfico che marcia inesorabile verso la montagna.
La paura prende posto nei cuori dei nani, ma lì, su quel bastione, Thorin non c’è.
È solo, nella grande sala dal pavimento dorato, combattendo un male ben più subdolo, ben più pericoloso.
È Smaug. È sé stesso.
Storia partecipante al contest "Residui di ruggine nel diamante" indetto da Ayumu Okazaki sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Smaug, Thorin Scudodiquercia
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Nickname su EFP e sul forum: ­_Vintage_ in entrambi

Titolo: L’oro, infausta vergine

Fandom: Lo Hobbit (Film)

Personaggi: Thorin Scudodiquercia, Smaug

Pairing: Nessuno

Sindrome: Inserzione nel pensiero






L’ORO, INFAUSTA VERGINE

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“Siedi qui in queste vaste sale, con una corona sulla tua testa e sei meno ora di quanto tu non lo sia mai stato.”

“Vattene, prima che io ti uccida.”

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Ripensava alle sue parole, all’odio, al rancore che aveva serbato così aspramente ai suoi camerati. Si chiese come fosse stato possibile che lui, proprio lui avesse pronunciato un verdetto tanto ostico nei confronti dell’amico fidato, leale presenza, devota solo all’unico vero Re sotto la Montagna.

Sentiva pesargli la corona, mentre la sua immagine si rifletteva violenta contro il pavimento dorato, sbattendogli in faccia una figura che non sentiva appartenergli. Si piegò a sfiorare il volto di quello sconosciuto, con la mano tremante, così poco confacente alla salda levatura morale del sovrano di Erebor.

Io non mi separerò da una sola moneta, pensò, e nel cogitar meschino patì la sofferenza di quelle parole, macchiate dal viscido sibilare del drago ormai morto.



"Tu non sei più il nano che ho incontrato a casa Baggins! Sei cambiato! Il Thorin che conoscevo io non si sarebbe mai rimangiato la parola data!”

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Camminava per il vasto salone il grande re, col pesante mantello di tenaci filamenti setosi che strisciava silente lungo il pavimento, ricordandogli lo spietato serpeggiare del maligno ospite. Il passo divenne più pesante, il respiro affannoso.

Thorin sentiva la presenza di Smaug ovunque: per terra, attorno alle salde colonne, nelle sculture idolatrate. Non riusciva a vederlo, ma mai l’aveva percepito così vicino, tanto che gli parve di vederlo riflesso nella sua immagine, quando ritrovò il coraggio di guardar la sua persona specchiata nell’oro.

Dov’era lui? Dov’era il valente Scudodiquercia?

Non s’interrogò a lungo: era certo che non vi fosse alcuna volontà nella sua mente ormai, giacché ciò che pensava era una menzogna, un parlar fasullo, l’eco del mostro ch’era sopravvissuto all’ultimo scoccare di Bard l’Ammazzadraghi.

Bard no, non l’aveva ucciso.

Perché la bestia vagava or ora per la sua mente, plasmandola a suo piacimento, nel rimbambimento di un re ch’aveva perso il senno.

Si prese la testa fra le mani, confuso. Quei pensieri erano i suoi? O l’architettar ingegnoso del drago ancora lavorava per distruggere la poca lucidità rimastagli? Non trovò alcun responso lecito al suo quesito. S’appoggiò ad una colonna, respirando a fatica; il mostro stava sottraendogli persino il respiro, giacché non si può pensar senza ossigeno che irrori la mente.

«Va’ via» sibilò, con rabbia, mentre s’inginocchiava esausto.

Aveva mal di testa. Era ovvio che poco fosse rimasto del suo ragionare, ma non si diede per vinto fino a quando il drago non avesse abbandonato la sua mente annebbiata. Gli aveva ghermito il cuore, stillandogli nelle vene l’infida malattia di chi ha il mal dell’oro, la cui paura di perderlo supera ogni lealtà, ogni nobiltà d’animo.



“Io vi prometto una cosa: se riusciremo, tutti condivideranno le ricchezze della montagna.”
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Dov’era la sua promessa? Dov’era il suo onore?

Questo tesssoro è tutto mio. Ancora quella voce, ancora quella strana sensazione di non esser padrone del proprio intelletto. Si lasciò sfuggire un gemito di rabbia, mentre serrava la mascella e ricordava le promesse infrante e le false speranze e la rovina imminente, poiché presto sarebbe sopraggiunta la guerra e, con essa, la morte di chi aveva riposto in lui ogni fiducia.

Cadde sulle ginocchia, ansante, madido di sudore. I suoi occhi sembravano fissare il suo corpo dall’esterno, il corpo di un re consumato dalla cupidigia, la confidente ingannatrice che gli aveva accigliato lo sguardo e irretito i sensi.

«Io non sono come mio nonno» sussurrò, stridendo con le unghie la pavimentazione ambrata.

Voleva farlo smettere di parlare, voleva che Smaug morisse, per davvero. Sfilò la spada dalla cintola che teneva legata stretta alla vita e la puntò contro il petto, con l’elsa avvinta da entrambe le pallide mani.

Morire.

Solo così avrebbe vinto contro il drago, solo così avrebbe potuto credere d’averlo sconfitto. E, forse, agli altri sarebbe rimasto un bel ricordo del loro re, ch’era impazzito e s’era redento prima dello scoccar della sua ora. Chiuse gli occhi, in attesa di trovare il giusto coraggio per compiere l’ardua impresa.

Ssssi, bravo, ucciditi. Non prestò più attenzione a quel vociare, mentre socchiudeva le palpebre alla ricerca dell’ultima luce che avrebbe potuto vedere, prima del buio della morte.

E pensò a chi avrebbe potuto mai mostrare un po’ di compassione per quell’avido re, chi sarebbe giunto alla sua tomba ricordando la sua nobile impresa, chi avrebbe mai associato la grandezza d’Erebor alla sua immagine.

I figli di Durin non sono inclini alle passioni, se queste non sono il frutto di gentili imprese.

Ma quell’oro, quell’oro era troppo bello, sensuale come una giovane vergine dai vestiti adamantini, dal sorriso perlaceo, le cui labbra dal color di rubini si piegano in dolce sorriso, mentre gli occhi ambrati incatenano la mente al loro volere.

Thorin immaginò di baciarla, quella puerile e fresca immagine. Sognò di stringerla a sé, di spogliarla, d’assaggiarla. La voleva per sé, non avrebbe mai permesso a nessuno di sfiorarla, né d’indugiar con lo sguardo sulla sua fulgida figura. Ché lei era sua. L’oro era suo.

Strinse l’elsa della spada con più decisione. Sarebbe morto, con la disperazione di non aver potuto trascinare con sé le sue ricchezze.

«Mio dolce incubo» mormorò, reprimendo un urlo. «Mio prezioso e bello e unico desiderio. Devo io forse lasciarti andare?»

Fallo, ucciditi. Non riusciva a comprendere chi gl’intimasse di farlo: era Smaug? Era l’oro?

Non aveva alcun potere su di essi. Avevano una volontà propria, massiccia e vigorosa, mentre la sua l’aveva di nuovo abbandonato al mero destino, perché neppure la sua coscienza voleva aiutare un disgraziato come lui.

E, mentre afferrava deciso la spada, pronto a punirsi per la sofferenza a cui stava piegando i suoi compagni, un piccolo, delicato ricordo emerse dall’oscurità della mente: una frase, giunta per caso, che non poteva appartenere a Smaug, suo spietato carnefice.



“Non sei costretto a farlo, puoi scegliere. Ti sei comportato con onore con la nostra gente. Ci hai costruito una nuova vita sulle Montagne Azzurre, una vita di pace e prosperità. Una vita che vale più di tutto l’oro di Erebor.”

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Non ricordava neanche più chi avesse pronunciato quelle parole, ma sapeva di averle già udite in passato.

Esse erano dolci, piene di gratitudine, speranza, aspettativa. Esprimevano la serenità perduta; a poco a poco i ricordi tornarono ad affiorare, come piccoli semi quiescenti sopravvissuti alla stretta del gelo.

E rivide le Montagne Azzurre e il Verde Cammino e la Contea. Posò lo sguardo sui visi pasciuti ed entusiasti dei suoi compagni di viaggio e il volto sereno dell’amico Bilbo. Rivide Azog, percepì l’odio che lo riempiva e la vittoria ch’egli avrebbe avuto se avesse deciso di uccidersi. No, pensò, non posso permetterlo.

Tra le pareti della grande sala riecheggiò il tonfo della pesante spada ferruginosa, la qual cadde come un avversario trafitto al petto. Come sarebbe dovuto cadere Thorin, per mano di essa.

Strabuzzò gli occhi, mentre sentiva l’aria tornare a riempirgli i polmoni e la mente riappropriarsi dei propri pensieri. Ammesso che essi fossero mai appartenuti realmente a qualcun altro.

Non sentì più alcun sibilo intorno a sé, né percepì il richiamo dell’oro.

Era libero.

Scagliò via la corona che portava sul capo, facendola cadere rovinosamente a terra con un sonoro tintinnio, nello stesso posto in cui si trovava lui qualche istante prima. Poi si voltò, per non tornare più indietro.



“Noi siamo figli di Durin.

E quelli di Durin, non fuggono da una battaglia.”



  
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