Capitolo I.
“Non so che destino avremo, ma io non ho mai mancato un appuntamento in vita mia.
Se vuoi fuggire, vai. Non ti fermerò. Ma come si dice: non voltarti, perché io sarò lì, a guardarti.
Ti voglio. Comunque vada.”
Imprecai in silenzio, stritolando
la cinghia della borsa che
tenevo sotto il braccio. Non era la prima volta che mi trovavo in
quella
situazione, giusto? Né sarebbe stata l’ultima. Ma
tutte le volte era qualcosa di tragico,
perché non si poteva mai sapere quale
sarebbe stato il risultato. Fino
all’ultimo, c’era la cosiddetta
“sorpresina”. Sospirai, rallentando
l’andatura.
L’idea di andare a
controllare gli esiti non mi entusiasmava
granché. Anzi, non mi era mai piaciuta, sin dalle scuole
elementari. Eppure,
come ogni anno, la mia migliore amica Alessandra mi aveva costretto ad
andarci
con lei.
Ero passata a prenderla a casa
sua, rigorosamente a piedi –
per colpa mia: non avevo mai voluto la moto, per quanto mia madre mi
avesse
pregato di prenderla. Abitando fuori paese, sarei stata molto
più autonoma di
quanto non fossi, ma io non ne avevo voluto sentire: avevo troppa
paura. Ed ora
aspettavo con ansia di compiere diciotto anni per poter prendere la
patente per
la macchina.
Cosa che sarebbe successa
esattamente tra un mese.
E questo spiegava parte della mia
esitazione nel voler vedere
gli esiti: non che mi aspettassi di venire bocciata, oh no, grazie al
cielo no.
Più che altro temevo di essere rimandata a settembre in
qualche materia nella
quale ero piuttosto debole, come, senza fare tante storie, matematica.
E non
volevo proprio trascorrere l’intera estate dei miei diciotto
anni a studiare
come una disperata per non perdere l’anno!
Anche Alessandra, comunque,
temeva per matematica. Non era decisamente
il nostro punto forte, ma per fortuna nelle altre materie ce la
cavavamo
abbastanza.
Mi voltai verso di lei,
osservandola attraverso le lenti
scure dei miei occhiali. Sembrava l’immagine della
tranquillità: un’espressione
sorniona sul volto, i capelli ricci e rossicci raccolti in una coda di
cavallo
e un paio di occhiali da sole come i miei sugli occhi. Sembrava
tranquilla,
già: ma osservando il modo in cui giocava nervosamente con
il ciondolo del suo
cellulare decisi che era preoccupata esattamente quanto a me. Ah-ha.
“Nervosa,
geme?” Le chiesi, sorridendo maliziosa. Oh già,
forse vi starete chiedendo perché quel soprannome. Beh,
nulla di top secret: è
il diminutivo di “gemellina”, ci chiamiamo
così a causa dell’assurda identicità
dei nostri caratteri. A qualcuno potrà sembrare
imbarazzante, ma in realtà è
divertente urlare “geme!”
quando usciamo o ci incontriamo in giro e vedere le
altre persone che ci fissano stranite!
Ad ogni modo, lei finse di non
cogliere la mia provocazione.
“Nervosa, io?” replicò, senza guardarmi.
“Io ho studiato tutto l’anno, geme, e
non ho proprio nulla da temere.”
“Ah si? E allora
perché stai tormentando in quel modo quel
povero ciondolo?”
Per tutta risposta mi fece la
lingua. “Lo sai che la
matematica ed io non siamo grandi amiche!”
Risi, scuotendo la testa. Non si
smentiva mai.
Una volta arrivate al liceo ci
scambiammo un’occhiata
nervosa. Dopo esserci strette la mano per infonderci coraggio a
vicenda,
prendemmo un profondo respiro e varcammo la soglia.
Nell’atrio c’era fresco, si
stava molto meglio rispetto all’esterno: era la prima volta
che mi faceva
piacere essere a scuola, pensai con un sorriso.
“Devono averli appesi
di là.” Annunciò Alessandra, indicando
il corridoio alla nostra destra. Io annuii, seguendola mentre faceva
strada.
C’era silenzio, e i nostri passi rimbombavano rumorosi per
tutto il corridoio.
“Infatti,
eccoli.” Dissi, quando arrivammo di fronte ad una
parete tappezzata di fogli bianchi. Non c’era
nessun’altro oltre a noi, così ci
avvicinammo alla bacheca con tutta tranquillità e ci
mettemmo alla ricerca
della nostra classe.
Finalmente la trovammo:
IV° D.
“Sei pronta?”
mormorai, evitando fino all’ultimo di scorrere
con lo sguardo l’elenco dei nomi.
Lei annuì.
“Vai.” Mi disse, come se mi stesse dando il via
per una battaglia.
Presi un profondo respiro e poi
posai il dito sul foglio,
facendolo scorrere lentamente in verticale alla ricerca del mio nome:
quelli
delle mie compagne di classe si susseguivano velocemente davanti ai
miei occhi
ma io non li vedevo, troppo in ansia nell’attesa del
mio… E poi… Eccolo.
O. Giulia.
Deglutii, dopodiché
feci scorrere il dito in orizzontale,
alla ricerca della lapidaria parola che avrebbe segnato il destino
della mia
estate, ignorando momentaneamente i voti scritti… Poi, di
nuovo, trattenni il
fiato. Promossa.
Chiusi gli occhi, lasciando
andare tutto d’un colpo il fiato
che avevo trattenuto fino a quel momento.
“Promossa!” Esclamai poi, mettendone
a parte anche la mia amica.
Lei stava saltellando sul posto,
innervosita ed impaziente.
“Dai, dai, ora cerca il mio!”
“Si si, un
attimo!” Ricominciai a far scorrere il dito sulla
pagina, fino a quando trovai quello della mia gemellina.
“Eccoti qui, S.
Alessandra…”
Lessi il risultato, e subito dopo
mi lasciai sfuggire un
gemito dispiaciuto. “Oh, Ale…
Cavolo…”
“Cosa?
Cosa?!” Esclamò, cercando di sbirciare da dietro
le
mie spalle.
Ma io non glielo feci leggere.
“Mi dispiace…” Aggiunsi,
triste.
“CHE COSA?!”
Urlò quasi, spingendomi come una furia da una
parte e catapultandosi sopra il foglio degli esiti, cercando
freneticamente il
suo nome. Lo trovò, lo lesse, e rimase in silenzio per
alcuni secondi buoni.
Poi esclamò.
“Brutta disgraziata, mi hai fatto prendere un
colpo!”
Accanto al suo nome spiccava,
teneramente, la parola Promossa.
“Beh, andiamo a
festeggiare?” Chiesi, dopo essermi asciugata
le lacrime delle risate.
Lei mi imitò, con un
sorriso che le attraversava il volto da
una parte all’altra. “Ci prendiamo un bel gelato
con un bicchiere di spumante!”
Sollevai un sopracciglio.
“Spumante? Alle dieci del mattino?”
Lei annuì con la
testa, ostentando un’aria di superiorità che
aveva sempre l’effetto di farmi ridere come una scema.
“È sempre l’ora dello
spumante.”
Risi di nuovo, prendendola
sottobraccio e guidandola verso
l’uscita. “Guarda che quelli sono i
pavesini!”
“È la stessa
cosa.” Disse, scrollando con noncuranza le
spalle.
Continuammo a chiacchierare
parlando di scemenze e cose senza
senso fino a quando non arrivammo in piazza, e ci mettemmo alla ricerca
di un
bar o una gelateria. Ci sentivamo finalmente più leggere e
più tranquille, come
se ci fossimo tolte un peso enorme dallo stomaco. Scendemmo nel Corso,
un lungo
viale alberato le cui fronde ci avrebbero protette dal calore
asfissiante di
giugno.
“Andiamo da
Agnese?” Chiesi, guardando l’orario. Agnese era
la proprietaria del Bar Centrale, ma il nome del locale era quasi
sconosciuto:
la gente lo conosceva con il nome della donna, che lo gestiva insieme a
uno
stuolo di giovani camerieri che facevano letteralmente
impazzire le ragazzine dalle medie in su,
come poteva testimoniare anche Alessandra. Lei era infatti perdutamente
cotta
di Riccardo, un cameriere assurdamente bello, con i capelli lunghi e
biondi e
un paio di occhi che ricordavano l’ambra. E, cosa
più importante di tutte, non
era fidanzato.
Perciò, la mia
gemellina non replicò quando le proposi quel
locale. Anzi, i suoi occhi iniziarono a brillare a metà tra
il posseduto e
l’entusiasta, dedicandomi uno sguardo che avrebbe fatto
impallidire il leone
più feroce ed affamato.
“Si, geme, andiamo da
Agnese.” Disse, con aria da
cospiratrice.
Quando entrammo nel locale
venimmo investite dall’aria gelida
del condizionatore, che per un attimo ci fece rabbrividire. Salutammo
la
proprietaria che, come sempre, si trovava dietro al bancone, e ci
cercammo un
tavolino libero, sedendoci poi nelle poltroncine rotonde intorno ad
esso.
Alessandra si diede una rapida controllata allo specchio che occupava
tutta la
parete, sistemandosi i capelli e passandosi una mano leggera sulla
faccia. Io
alzai gli occhi al cielo.
“Neanche stesse
arrivando Brad Pitt…” mormorai, scuotendo la
testa.
Lei si voltò e mi fece
la lingua. “Ti ho sentito, sai! E
comunque, lui è più bello di Brad Pitt.”
Sgranai gli occhi, stupita, ma mi
limitai a scrollare le
spalle. “I gusti sono gusti…”
Prima che Ale potesse ribattere,
un cameriere si avvicinò al
nostro tavolino: con grande piacere della mia amica, si trattava
proprio del suo
Riccardo.
“Ciao, ragazze. Che
cosa vi porto?” Esordì, sorridendoci
cordiale.
Io presi una coppa di gelato al
gusto di cioccolato e
tiramisù, mentre Alessandra ne prese uno al gusto di
vaniglia e pesca. Riccardo
ci fece un altro sorriso e tornò dietro il bancone,
preparandoci le nostre
ordinazioni.
In quel momento, nel locale fece
irruzione un rumoroso gruppo
di ragazzi, tutti ben vestiti, con pantaloni blu scuro o neri e camice
chiare,
come se avessero avuto una divisa. Ridevano e parlavano ad alta voce,
ma si
capiva che ruotavano tutti intorno ad una ragazzo in particolare, che
indossava
un paio di pantaloni neri e una camicia bianca a maniche corte e che
camminava
con un’aria indisponente di superiorità, come se
fosse stato il padrone del
mondo. Si sedettero nel tavolo vicino alla porta, separati da noi da un
altro
tavolino vuoto, ed io mi ritrovai a fissarlo a lungo un po’
perché mi dava
fastidio il suo atteggiamento, e un po’ perché era
incredibilmente bello. Altro
che Riccardo! Il giovane cameriere, per quanto fosse di tutto rispetto,
non
poteva competere.
Il nuovo arrivato aveva morbidi
capelli neri, folti ma non
troppo lunghi, che teneva costantemente in sensuale disordine
passandovi ogni
tanto una mano in mezzo, con noncuranza. Gli occhi erano chiari, a
quella
distanza non riuscivo a vederli bene ma avrei potuto scommettere che
fossero
verdi, circondati da una cornice di ciglia lunghe e nere. Le spalle
erano
larghe, e quando era ancora in piedi avevo notato che aveva un fisico
asciutto
e muscoloso, come se facesse palestra. Il volto aveva dei lineamenti
decisi e
marcati, che lo rendeva bello in modo selvaggio.
Peccato che non mi piacesse
l’aura da bastardo che emanava.
Ero così presa ad
osservarlo che non mi accorsi del ritorno
di Riccardo.
“Non fissateli troppo,
ragazze.” Sussurrò dando le spalle al
gruppo, mentre ci distribuiva le due coppe di gelato.
“Perché? Chi
sono?” Chiesi, rispettando la sua scelta di
parlare a bassa voce.
Lui aggrottò
leggermente le sopracciglia. “Vedi quello più
alto? Con i capelli neri?” Disse, senza voltarsi. Io annuii:
era quello che
avevo osservato fino a due minuti prima. “È un
Occhi Belli, il più giovane
della famiglia… E quelli che sono con lui sono i suoi amici.
Non
guardateli troppo, ragazze, ignorateli.”
Alessandra annuì,
accogliendo come oro colato le parole del ragazzo,
mentre io lanciai nuovamente uno sguardo al loro tavolo, incuriosita.
Un Occhi
Belli, eh? Sapevo di chi si trattava. “Occhi Belli”
era il soprannome di una
delle famiglie del paese, anzi: era quella più conosciuta
nonché benestante, se
così si può dire. Il nome derivava dal nonno
dell’attuale capo della famiglia,
che, presupposi, doveva essere il padre di quel ragazzo; il nonno aveva
gli
occhi strabici, ed era stato soprannominato scherzosamente in quel
modo. Il
nome era rimasto, ed ora ogni volta che si pronunciava quel nome tutti
sapevano
che era meglio parlare a bassa voce o cambiare direttamente discorso.
Perché?
Perché erano una famiglia di delinquenti. Non solo
gestivano un traffico di droga pesante in tutta la provincia, ma
giravano anche
delle voci a proposito di un traffico di armi illegale. Da poco mi era
capitato
di sentire addirittura che la morte di un noto ex assessore –
ufficialmente un
infarto – era causa loro. Solo voci? Non si sapeva, ma
nell’incertezza era
comunque meglio tacere.
Purtroppo, però,
ignorarli si rivelò essere estremamente
difficile.
“Ehi, Riccardo!
Perché non vieni a servirci?” Esclamò
il
figlio degli Occhi Belli, sollevando un braccio in direzione del
cameriere e
fissandolo con quell’insopportabile aria di arrogante
superiorità. Le risate
dei suoi compari accompagnarono la sua scortese esclamazione, mentre
Riccardo
si sforzò di non alzare gli occhi al cielo e si diresse
tranquillamente verso
di loro.
Con la coda dell’occhio
notai che Agnese, da dietro la sua
postazione abituale, stava osservando la scena piuttosto preoccupata.
Anche
Alessandra lo era, e neppure io riuscii ad astenermi
dall’osservarli. In quel
momento il ragazzo coi capelli neri si accorse del mio sguardo e mi
fece
l’occhiolino, complice. Ma complice di che cosa?!
Purtroppo arrossii,
com’era mio solito, e abbassai lo sguardo
sul mio gelato. “Che razza di
presuntuoso…” bisbigliai, certa che Ale mi
avrebbe sentito.
Lei scosse piano la testa, prima
di iniziare a mangiare il
gelato ignorando volutamente tutto quello che succedeva a pochi passi
da noi.
Io la imitai, ma purtroppo non riuscimmo ad evitare di sentire quello
che
stavano dicendo.
“E così,
Riccardo, adesso lavori qui.” Era sempre lui, quel
ragazzo. Parlava come se avesse voluto deriderlo per il suo lavoro, ma
il
nostro cameriere non si lasciò intimidire.
“Esatto,
Enrico.” Rispose, solo. E così era quello il suo
nome? “Allora, che cosa vuoi ordinare?”
Tuttavia il ragazzo non rispose,
continuando il suo discorso.
“Quando eri dei nostri non avresti mai osato fare un simile
lavoro. Servire ai
tavoli come uno schiavo… Se fossi ancora nel gruppo non ti
avrei mai permesso
di scendere così in basso.”
A quella frase Riccardo non
resistette più, e batté con forza
il pugno sul tavolo, facendo tremare i bicchieri e zittendo
all’istante le
risate degli altri ragazzi. Io e Alessandra alzammo stupite la testa,
decise a
seguire attentamente quello che sarebbe accaduto dopo.
Gli amici di Enrico si erano
fatti improvvisamente seri,
messi in una posizione che indicava che erano pronti a scattare e
mettergli le
mani addosso, ma il loro capo fece un cenno con la mano che li
riportò
“all’ordine”, mentre Riccardo rispondeva.
“Non ti permetto di
parlarmi così!” Ringhiò furioso,
ignorando il resto del gruppo che lo fissava con astio. “Non
ti devo più
niente, Enrico, ho chiuso con te e con la vita che fai! E non hai
nessun
diritto di venire a criticarmi per quello che ho deciso di
fare.”
L’altro strinse gli
occhi, minaccioso. “Questo non è certo il
posto migliore per parlare del tuo passato, vero, Riccardo? Dimentichi
che non
siamo soli.” Sibilò, senza scomporsi.
“Sappi che non rispondo alla tua
provocazione solo in ricordo della nostra vecchia amicizia, ma la
prossima
volta non sarò così generoso. E
adesso…” Aggiunse poi, sorridendo con un ghigno
sarcastico. “Portaci da bere.”
Riccardo gli diede le spalle,
dirigendosi furente verso il
bancone, mentre io e Ale ci scambiammo una rapida occhiata stupita e
sconvolta.
Ma cosa stava succedendo? Grazie al cielo avevamo già finito
il nostro gelato,
così potevamo andarcene subito prima che
l’atmosfera diventasse troppo tesa.
“Vieni, geme,
andiamocene.” Mormorai, prendendo la borsa alla
ricerca del borsellino.
In quel momento sentii nuovamente
la voce di Enrico. “Ehi,
Riccardo, pago io per le signorine!”
Io aggrottai le sopracciglia,
sollevando di scatto la testa
per cercare lo sguardo di Alessandra e capire se si trattava o meno di
uno
scherzo. Ma lei era arrossita completamente, e questo mi fece capire
che,
sfortunatamente, non lo era.
“Cosa facciamo,
Giuly?” Mormorò, guardandomi.
Io mi alzai, decisa, voltandomi
verso il ragazzo e ostentando
un sorriso forzato. “Grazie, ma siamo capaci benissimo di
pagare da sole il
nostro conto.”
Raggiunsi il bancone ignorando i
fischi che provenivano da
quel tavolo maledetto, deponendo i soldi accanto alla cassa.
“Grazie, Riccardo,
a presto.”
Poi mi voltai verso Alessandra.
“Geme, andiamo?”
Riuscimmo ad uscire a testa alta
dal locale, senza più
degnare di uno sguardo quei ragazzi. Ma fu solo dopo essere uscite e
aver
camminato a passo sostenuto per una trentina di metri che riprendemmo a
respirare normalmente.
© Disclaimers. I personaggi e la trama di questa storia sono di mia proprietà, dunque sarebbe gradito evitare di copiare o trarre ispirazione da essi. Ogni fatto e/o riferimento a eventi o persone realmente esistenti è da considerarsi puramente casuale.