Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |       
Autore: Niglia    09/06/2009    12 recensioni
{Vecchio titolo: The Wrong Man}
Giulia è una normale ragazza di 18 anni; va a scuola, esce con le amiche e, quando capita, con qualche ragazzo, ma non è certo alla ricerca del Principe Azzurro.
Sembra l'inizio di un'estate come le altre quando, all'improvviso, compare Enrico: l'erede di un impero criminale, bello e affascinante, che si invaghisce di lei e la obbliga, un po' con le buone e un po' con le cattive, a frequentarlo...
"I tuoi amici non sanno dove sei, però loro sono al sicuro." Mormorò, avvicinando le labbra al mio orecchio e facendomi rabbrividire con il suo caldo respiro. "Cerca di fare in modo che rimangano tali... Se mi disobbedisci in qualsiasi modo, farò loro del male, e ti assicuro che sembrerà un incidente."
Parlava come farebbe un amante nell'intimità di una camera da letto, con la stessa voce calda e rassicurante, leggermente roca: eppure le sue parole erano tutto fuorchè rassicuranti. La sua era una minaccia bella e buona...
[dal Capitolo 7]
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
twm





Capitolo I.









Non so che destino avremo, ma io non ho mai mancato un appuntamento in vita mia.

Se vuoi fuggire, vai. Non ti fermerò. Ma come si dice: non voltarti, perché io sarò lì, a guardarti.
Ti voglio. Comunque vada.


Imprecai in silenzio, stritolando la cinghia della borsa che tenevo sotto il braccio. Non era la prima volta che mi trovavo in quella situazione, giusto? Né sarebbe stata l’ultima. Ma tutte le volte era qualcosa di tragico, perché non si poteva mai sapere quale sarebbe stato il risultato. Fino all’ultimo, c’era la cosiddetta “sorpresina”. Sospirai, rallentando l’andatura.

L’idea di andare a controllare gli esiti non mi entusiasmava granché. Anzi, non mi era mai piaciuta, sin dalle scuole elementari. Eppure, come ogni anno, la mia migliore amica Alessandra mi aveva costretto ad andarci con lei.

Ero passata a prenderla a casa sua, rigorosamente a piedi – per colpa mia: non avevo mai voluto la moto, per quanto mia madre mi avesse pregato di prenderla. Abitando fuori paese, sarei stata molto più autonoma di quanto non fossi, ma io non ne avevo voluto sentire: avevo troppa paura. Ed ora aspettavo con ansia di compiere diciotto anni per poter prendere la patente per la macchina.

Cosa che sarebbe successa esattamente tra un mese.

E questo spiegava parte della mia esitazione nel voler vedere gli esiti: non che mi aspettassi di venire bocciata, oh no, grazie al cielo no. Più che altro temevo di essere rimandata a settembre in qualche materia nella quale ero piuttosto debole, come, senza fare tante storie, matematica. E non volevo proprio trascorrere l’intera estate dei miei diciotto anni a studiare come una disperata per non perdere l’anno!

Anche Alessandra, comunque, temeva per matematica. Non era decisamente il nostro punto forte, ma per fortuna nelle altre materie ce la cavavamo abbastanza.

Mi voltai verso di lei, osservandola attraverso le lenti scure dei miei occhiali. Sembrava l’immagine della tranquillità: un’espressione sorniona sul volto, i capelli ricci e rossicci raccolti in una coda di cavallo e un paio di occhiali da sole come i miei sugli occhi. Sembrava tranquilla, già: ma osservando il modo in cui giocava nervosamente con il ciondolo del suo cellulare decisi che era preoccupata esattamente quanto a me. Ah-ha.

“Nervosa, geme?” Le chiesi, sorridendo maliziosa. Oh già, forse vi starete chiedendo perché quel soprannome. Beh, nulla di top secret: è il diminutivo di “gemellina”, ci chiamiamo così a causa dell’assurda identicità dei nostri caratteri. A qualcuno potrà sembrare imbarazzante, ma in realtà è divertente urlare “geme!” quando usciamo o ci incontriamo in giro e vedere le altre persone che ci fissano stranite!

Ad ogni modo, lei finse di non cogliere la mia provocazione. “Nervosa, io?” replicò, senza guardarmi. “Io ho studiato tutto l’anno, geme, e non ho proprio nulla da temere.”

“Ah si? E allora perché stai tormentando in quel modo quel povero ciondolo?”

Per tutta risposta mi fece la lingua. “Lo sai che la matematica ed io non siamo grandi amiche!”

Risi, scuotendo la testa. Non si smentiva mai.

Una volta arrivate al liceo ci scambiammo un’occhiata nervosa. Dopo esserci strette la mano per infonderci coraggio a vicenda, prendemmo un profondo respiro e varcammo la soglia. Nell’atrio c’era fresco, si stava molto meglio rispetto all’esterno: era la prima volta che mi faceva piacere essere a scuola, pensai con un sorriso.

“Devono averli appesi di là.” Annunciò Alessandra, indicando il corridoio alla nostra destra. Io annuii, seguendola mentre faceva strada. C’era silenzio, e i nostri passi rimbombavano rumorosi per tutto il corridoio.

“Infatti, eccoli.” Dissi, quando arrivammo di fronte ad una parete tappezzata di fogli bianchi. Non c’era nessun’altro oltre a noi, così ci avvicinammo alla bacheca con tutta tranquillità e ci mettemmo alla ricerca della nostra classe.

Finalmente la trovammo: IV° D.

“Sei pronta?” mormorai, evitando fino all’ultimo di scorrere con lo sguardo l’elenco dei nomi.

Lei annuì. “Vai.” Mi disse, come se mi stesse dando il via per una battaglia.

Presi un profondo respiro e poi posai il dito sul foglio, facendolo scorrere lentamente in verticale alla ricerca del mio nome: quelli delle mie compagne di classe si susseguivano velocemente davanti ai miei occhi ma io non li vedevo, troppo in ansia nell’attesa del mio… E poi… Eccolo.

O. Giulia.

Deglutii, dopodiché feci scorrere il dito in orizzontale, alla ricerca della lapidaria parola che avrebbe segnato il destino della mia estate, ignorando momentaneamente i voti scritti… Poi, di nuovo, trattenni il fiato. Promossa.

Chiusi gli occhi, lasciando andare tutto d’un colpo il fiato che avevo trattenuto fino a quel momento. “Promossa!” Esclamai poi, mettendone a parte anche la mia amica.

Lei stava saltellando sul posto, innervosita ed impaziente. “Dai, dai, ora cerca il mio!”

“Si si, un attimo!” Ricominciai a far scorrere il dito sulla pagina, fino a quando trovai quello della mia gemellina. “Eccoti qui, S. Alessandra…”

Lessi il risultato, e subito dopo mi lasciai sfuggire un gemito dispiaciuto. “Oh, Ale… Cavolo…”

“Cosa? Cosa?!” Esclamò, cercando di sbirciare da dietro le mie spalle.

Ma io non glielo feci leggere. “Mi dispiace…” Aggiunsi, triste.

CHE COSA?!” Urlò quasi, spingendomi come una furia da una parte e catapultandosi sopra il foglio degli esiti, cercando freneticamente il suo nome. Lo trovò, lo lesse, e rimase in silenzio per alcuni secondi buoni.

Poi esclamò. “Brutta disgraziata, mi hai fatto prendere un colpo!”

Accanto al suo nome spiccava, teneramente, la parola Promossa.





*




“Beh, andiamo a festeggiare?” Chiesi, dopo essermi asciugata le lacrime delle risate.

Lei mi imitò, con un sorriso che le attraversava il volto da una parte all’altra. “Ci prendiamo un bel gelato con un bicchiere di spumante!”

Sollevai un sopracciglio. “Spumante? Alle dieci del mattino?”

Lei annuì con la testa, ostentando un’aria di superiorità che aveva sempre l’effetto di farmi ridere come una scema. “È sempre l’ora dello spumante.”

Risi di nuovo, prendendola sottobraccio e guidandola verso l’uscita. “Guarda che quelli sono i pavesini!”

“È la stessa cosa.” Disse, scrollando con noncuranza le spalle.

Continuammo a chiacchierare parlando di scemenze e cose senza senso fino a quando non arrivammo in piazza, e ci mettemmo alla ricerca di un bar o una gelateria. Ci sentivamo finalmente più leggere e più tranquille, come se ci fossimo tolte un peso enorme dallo stomaco. Scendemmo nel Corso, un lungo viale alberato le cui fronde ci avrebbero protette dal calore asfissiante di giugno.

“Andiamo da Agnese?” Chiesi, guardando l’orario. Agnese era la proprietaria del Bar Centrale, ma il nome del locale era quasi sconosciuto: la gente lo conosceva con il nome della donna, che lo gestiva insieme a uno stuolo di giovani camerieri che facevano letteralmente impazzire le ragazzine dalle medie in su, come poteva testimoniare anche Alessandra. Lei era infatti perdutamente cotta di Riccardo, un cameriere assurdamente bello, con i capelli lunghi e biondi e un paio di occhi che ricordavano l’ambra. E, cosa più importante di tutte, non era fidanzato.

Perciò, la mia gemellina non replicò quando le proposi quel locale. Anzi, i suoi occhi iniziarono a brillare a metà tra il posseduto e l’entusiasta, dedicandomi uno sguardo che avrebbe fatto impallidire il leone più feroce ed affamato.

“Si, geme, andiamo da Agnese.” Disse, con aria da cospiratrice.

Quando entrammo nel locale venimmo investite dall’aria gelida del condizionatore, che per un attimo ci fece rabbrividire. Salutammo la proprietaria che, come sempre, si trovava dietro al bancone, e ci cercammo un tavolino libero, sedendoci poi nelle poltroncine rotonde intorno ad esso. Alessandra si diede una rapida controllata allo specchio che occupava tutta la parete, sistemandosi i capelli e passandosi una mano leggera sulla faccia. Io alzai gli occhi al cielo.

“Neanche stesse arrivando Brad Pitt…” mormorai, scuotendo la testa.

Lei si voltò e mi fece la lingua. “Ti ho sentito, sai! E comunque, lui è più bello di Brad Pitt.”

Sgranai gli occhi, stupita, ma mi limitai a scrollare le spalle. “I gusti sono gusti…”

Prima che Ale potesse ribattere, un cameriere si avvicinò al nostro tavolino: con grande piacere della mia amica, si trattava proprio del suo Riccardo.

“Ciao, ragazze. Che cosa vi porto?” Esordì, sorridendoci cordiale.

Io presi una coppa di gelato al gusto di cioccolato e tiramisù, mentre Alessandra ne prese uno al gusto di vaniglia e pesca. Riccardo ci fece un altro sorriso e tornò dietro il bancone, preparandoci le nostre ordinazioni.

In quel momento, nel locale fece irruzione un rumoroso gruppo di ragazzi, tutti ben vestiti, con pantaloni blu scuro o neri e camice chiare, come se avessero avuto una divisa. Ridevano e parlavano ad alta voce, ma si capiva che ruotavano tutti intorno ad una ragazzo in particolare, che indossava un paio di pantaloni neri e una camicia bianca a maniche corte e che camminava con un’aria indisponente di superiorità, come se fosse stato il padrone del mondo. Si sedettero nel tavolo vicino alla porta, separati da noi da un altro tavolino vuoto, ed io mi ritrovai a fissarlo a lungo un po’ perché mi dava fastidio il suo atteggiamento, e un po’ perché era incredibilmente bello. Altro che Riccardo! Il giovane cameriere, per quanto fosse di tutto rispetto, non poteva competere.

Il nuovo arrivato aveva morbidi capelli neri, folti ma non troppo lunghi, che teneva costantemente in sensuale disordine passandovi ogni tanto una mano in mezzo, con noncuranza. Gli occhi erano chiari, a quella distanza non riuscivo a vederli bene ma avrei potuto scommettere che fossero verdi, circondati da una cornice di ciglia lunghe e nere. Le spalle erano larghe, e quando era ancora in piedi avevo notato che aveva un fisico asciutto e muscoloso, come se facesse palestra. Il volto aveva dei lineamenti decisi e marcati, che lo rendeva bello in modo selvaggio.

Peccato che non mi piacesse l’aura da bastardo che emanava.

Ero così presa ad osservarlo che non mi accorsi del ritorno di Riccardo.

“Non fissateli troppo, ragazze.” Sussurrò dando le spalle al gruppo, mentre ci distribuiva le due coppe di gelato.

“Perché? Chi sono?” Chiesi, rispettando la sua scelta di parlare a bassa voce.

Lui aggrottò leggermente le sopracciglia. “Vedi quello più alto? Con i capelli neri?” Disse, senza voltarsi. Io annuii: era quello che avevo osservato fino a due minuti prima. “È un Occhi Belli, il più giovane della famiglia… E quelli che sono con lui sono i suoi amici. Non guardateli troppo, ragazze, ignorateli.”

Alessandra annuì, accogliendo come oro colato le parole del ragazzo, mentre io lanciai nuovamente uno sguardo al loro tavolo, incuriosita. Un Occhi Belli, eh? Sapevo di chi si trattava. “Occhi Belli” era il soprannome di una delle famiglie del paese, anzi: era quella più conosciuta nonché benestante, se così si può dire. Il nome derivava dal nonno dell’attuale capo della famiglia, che, presupposi, doveva essere il padre di quel ragazzo; il nonno aveva gli occhi strabici, ed era stato soprannominato scherzosamente in quel modo. Il nome era rimasto, ed ora ogni volta che si pronunciava quel nome tutti sapevano che era meglio parlare a bassa voce o cambiare direttamente discorso.

Perché? Perché erano una famiglia di delinquenti. Non solo gestivano un traffico di droga pesante in tutta la provincia, ma giravano anche delle voci a proposito di un traffico di armi illegale. Da poco mi era capitato di sentire addirittura che la morte di un noto ex assessore – ufficialmente un infarto – era causa loro. Solo voci? Non si sapeva, ma nell’incertezza era comunque meglio tacere.

Purtroppo, però, ignorarli si rivelò essere estremamente difficile.

“Ehi, Riccardo! Perché non vieni a servirci?” Esclamò il figlio degli Occhi Belli, sollevando un braccio in direzione del cameriere e fissandolo con quell’insopportabile aria di arrogante superiorità. Le risate dei suoi compari accompagnarono la sua scortese esclamazione, mentre Riccardo si sforzò di non alzare gli occhi al cielo e si diresse tranquillamente verso di loro.

Con la coda dell’occhio notai che Agnese, da dietro la sua postazione abituale, stava osservando la scena piuttosto preoccupata. Anche Alessandra lo era, e neppure io riuscii ad astenermi dall’osservarli. In quel momento il ragazzo coi capelli neri si accorse del mio sguardo e mi fece l’occhiolino, complice. Ma complice di che cosa?!

Purtroppo arrossii, com’era mio solito, e abbassai lo sguardo sul mio gelato. “Che razza di presuntuoso…” bisbigliai, certa che Ale mi avrebbe sentito.

Lei scosse piano la testa, prima di iniziare a mangiare il gelato ignorando volutamente tutto quello che succedeva a pochi passi da noi. Io la imitai, ma purtroppo non riuscimmo ad evitare di sentire quello che stavano dicendo.

“E così, Riccardo, adesso lavori qui.” Era sempre lui, quel ragazzo. Parlava come se avesse voluto deriderlo per il suo lavoro, ma il nostro cameriere non si lasciò intimidire.

“Esatto, Enrico.” Rispose, solo. E così era quello il suo nome? “Allora, che cosa vuoi ordinare?”

Tuttavia il ragazzo non rispose, continuando il suo discorso. “Quando eri dei nostri non avresti mai osato fare un simile lavoro. Servire ai tavoli come uno schiavo… Se fossi ancora nel gruppo non ti avrei mai permesso di scendere così in basso.”

A quella frase Riccardo non resistette più, e batté con forza il pugno sul tavolo, facendo tremare i bicchieri e zittendo all’istante le risate degli altri ragazzi. Io e Alessandra alzammo stupite la testa, decise a seguire attentamente quello che sarebbe accaduto dopo.

Gli amici di Enrico si erano fatti improvvisamente seri, messi in una posizione che indicava che erano pronti a scattare e mettergli le mani addosso, ma il loro capo fece un cenno con la mano che li riportò “all’ordine”, mentre Riccardo rispondeva.

“Non ti permetto di parlarmi così!” Ringhiò furioso, ignorando il resto del gruppo che lo fissava con astio. “Non ti devo più niente, Enrico, ho chiuso con te e con la vita che fai! E non hai nessun diritto di venire a criticarmi per quello che ho deciso di fare.”

L’altro strinse gli occhi, minaccioso. “Questo non è certo il posto migliore per parlare del tuo passato, vero, Riccardo? Dimentichi che non siamo soli.” Sibilò, senza scomporsi. “Sappi che non rispondo alla tua provocazione solo in ricordo della nostra vecchia amicizia, ma la prossima volta non sarò così generoso. E adesso…” Aggiunse poi, sorridendo con un ghigno sarcastico. “Portaci da bere.”

Riccardo gli diede le spalle, dirigendosi furente verso il bancone, mentre io e Ale ci scambiammo una rapida occhiata stupita e sconvolta. Ma cosa stava succedendo? Grazie al cielo avevamo già finito il nostro gelato, così potevamo andarcene subito prima che l’atmosfera diventasse troppo tesa.

“Vieni, geme, andiamocene.” Mormorai, prendendo la borsa alla ricerca del borsellino.

In quel momento sentii nuovamente la voce di Enrico. “Ehi, Riccardo, pago io per le signorine!”

Io aggrottai le sopracciglia, sollevando di scatto la testa per cercare lo sguardo di Alessandra e capire se si trattava o meno di uno scherzo. Ma lei era arrossita completamente, e questo mi fece capire che, sfortunatamente, non lo era.

“Cosa facciamo, Giuly?” Mormorò, guardandomi.

Io mi alzai, decisa, voltandomi verso il ragazzo e ostentando un sorriso forzato. “Grazie, ma siamo capaci benissimo di pagare da sole il nostro conto.”

Raggiunsi il bancone ignorando i fischi che provenivano da quel tavolo maledetto, deponendo i soldi accanto alla cassa. “Grazie, Riccardo, a presto.”

Poi mi voltai verso Alessandra. “Geme, andiamo?”

Riuscimmo ad uscire a testa alta dal locale, senza più degnare di uno sguardo quei ragazzi. Ma fu solo dopo essere uscite e aver camminato a passo sostenuto per una trentina di metri che riprendemmo a respirare normalmente.

© Disclaimers. I personaggi e la trama di questa storia sono di mia proprietà, dunque sarebbe gradito evitare di copiare o trarre ispirazione da essi. Ogni fatto e/o riferimento a eventi o persone realmente esistenti è da considerarsi puramente casuale.

   
 
Leggi le 12 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Niglia