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Autore: Black Swallowtail    30/05/2017    0 recensioni
I ricordi più difficili da serbare, quelli che ci marchiano come una maledizione, sono quelli dei giorni più felici, macchiati dal proprio errore, distorti dal senso di colpa.
Aidan Reiss, l'esperto dell'occulto che cammina tra la realtà e il mondo sovrannaturale, è costantemente tormentato dalla promessa che ha compiuto, una croce che ha scelto per se stesso.
Dopo gli eventi che hanno portato al salvataggio di Jeiv Kondras, Azure Kuri, in un parco in rovina, abbandonato e distrutto, su un'altalena arrugginita, ascolterà la storia di Aidan — una storia di sofferenze, apatia, abbandono e rosso cremisi.
La storia della sua più grande perdita.
Genere: Dark, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Scary Monsters and Nice Spirits'
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Part Three

CrimsonA tale of loss

 

I

Memories of days lost.

 

È una giornata piuttosto nuvolosa ed uggiosa; l'aria profuma di umidità, preannuncia l'arrivo della pioggia, di uno di quei temporali primaverili, così violenti, tanto quanto rapidi a scomparire, lasciando poi spazio ai timidi raggi del sole. Su di me, una pesante cappa grigia stende le sue dita scure fin dove l'occhio riesce ad arrivare, tingendo di colori smorti le figure dei palazzi e delle case che intravedo facendo spaziare lo sguardo tutt'attorno, attraverso il vetro della finestra, reso leggermente opaco dal calore del mio respiro; con le braccia poggiate sul davanzale, il mento che riposa sulle nocche, adagiato con stanchezza contro le mani, tento di districarmi tra i grovigli di pensieri che si avvolgono e si intrecciano l'uno con l'altro, in una matassa all'apparenza senza un bandolo, senza possibilità di sciogliersi. O meglio, senza che io voglia scioglierla, senza che io voglia avvicinarmi al centro della tempesta che è la mia mente.

Forse è per questo, per non soffermarmi sul cuore del subbuglio, sul motivo di questa mia vaga agitazione che riesco a sentire, insistente, mai del tutto soffocata, da qualche parte nel retro della mia mente, che mi sono lasciata trascinare dalla corrente di eventi di tutti i giorni, dalla banale vita scolastica che viviamo tutti, ripetitiva, sempre identica. Nemmeno una singola increspatura, nelle ultime settimane, ha scosso l'assoluta normalità in cui siamo immersi.

Dopo due settimane di convalescenza, il tesoriere del consiglio studentesco, Jeiviel Kondras, è tornato a prendere il suo posto e ha ricominciato la sua attività, in un modo o nell'altro. Non ho più avuto occasione di incontrarlo, da quel giorno in cui abbiamo infranto la maledizione che gravava sulle sue spalle, ma credo che, in qualche modo, qualcosa sia profondamente cambiato, in lui. E d'altra parte, le splendide, malinconiche melodie che serpeggiano al di fuori dell'aula di musica, che sembrano portare con loro un vago odore di tulipani ed un tepore impalpabile, non sono cessate.

Passo accanto ad un cartello affisso contro il muro, un piccolo manifesto che la maggior parte degli studenti ignora, senza nemmeno gettare un'occhiata al suo tenue colore zaffiro; d'altronde, un concerto in auditorium, per pianoforte, seppure eseguito da una persona così talentuosa, non riesce ad attirare l'attenzione di molti. Ma mi basta leggere il nome della compositrice, e l'elegante grafia con il quale è stato scritto il titolo dell'opera, per capire che a lei importi solo che la senta una persona, tra tutte. “Masquerade”, un nome appropriato, per quanto abbia un sapore amaro, nella mia bocca, ed una sorta di triste arrendevolezza.

Il picchiettio delle gocce di pioggia contro il vetro accompagna quello dei miei passi nel corridoio vuoto, mentre fiancheggio una classe dopo l'altra, mordendomi il labbro inferiore in un impeto di impazienza, un vago tormento che inizia a crescere, mentre si avvicina, inesorabilmente, l'ora dell'appuntamento. Provo a colpirmi leggermente le guance, a scacciare via quella sensazione di tensione che si allunga ad attorcigliare lo stomaco e ad aumentare il battito del mio cuore, senza alcun successo. Il groviglio così intricato di pensieri e dubbi, alla fine, si stringe attorno alle lancette dell'orologio che sta in cima alla scalinata dell'atrio, le cui punte sembrano muoversi così lentamente da essere immobili. Come se ogni ticchettio costasse loro una fatica inimmaginabile, come se il tempo non volesse scorrere, lasciandomi crogiolare, ancora nel mio dubbio e nella mia tensione. Nel mio terribile senso di impotenza, di incapacità, che mi ha attanagliato fin da quando mi sono resa conto di non essere riuscita a vedere oltre una maschera.

Non ho mai capito davvero. Non ho mai nemmeno visto il suo inseguire l'occulto, il suo essere attirato morbosamente dal suo mondo nebuloso, così lontano , tanto da non poter essere visto e toccato dagli altri, ma abbastanza vicino da poter immergersi in esso fino al collo, nemmeno il sentimento, che a volte mi è sembrato autodistruttivo, con cui si è dedicato ad ogni causa.

Le mie labbra si chiudono appena, nell'istante in cui mi rendo conto di aver vanificato ogni mio sforzo di distrazione, nell'esatto momento in cui il mio pensiero è andato, inevitabilmente, verso la fonte della mia confusione, del mio nervosismo – della mia silenziosa, spasmodica attesa.

Per quanto abbia osservato il panorama tetro, smorto della città che si sfoca ed appanna, sotto la fine pioggerellina che inizia a gocciolare dal cielo, per quanto abbia tentato di non portare l'argomento nelle mie conversazioni con Aidan, questo chiodo fisso non se n'è mai andato. Dal giorno stesso in cui ho conosciuto quell'esperto di occulto che sembra camminare nel mondo, senza tuttavia farne del tutto parte, da quando ho appreso come ognuno che si invischi nel mondo invisibile, senza eccezione alcuna, desidera scappare dalla realtà, mi sono chiesta quale fosse il motivo a sospingerlo.

Aiutare coloro che sono vittima di un fenomeno paranormale, di una creatura mostruosa, di una maledizione, di un desiderio distorto, è un lavoro estremamente pericoloso, che richiede una conoscenza ed una dedizione incredibili. Eppure, nonostante questo, Aidan, come ha fatto con me, presta la sua mano a chiunque ne abbia bisogno, senza chiedere nulla in cambio, senza mai fermarsi a dubitare di quel che fa, quasi come se fosse intimamente sicuro di non poter sbagliare, di non potersi fermare, lungo quella strada scoscesa, e visibile solo a lui, che sta percorrendo. Un sentiero che non riesco a percepire, per quanto io abbia tentato di affiancarmi a lui; per quante cose siano accadute, per quante volte sia stata accanto a lui, solo dopo mi sono resa conto di quanto poco io riesca a capirlo.

Ogni volta che mi volto, e provo a guardarmi alle spalle, non riesco a comprendere da dove abbia iniziato a camminare, né quanto abbia arrancato, quante volte sia crollato, e quante ancora abbia esitato, quasi sul punto di arrendersi.

Ogni volta che lo osservo, non riesco a capire quali pensieri si agitino in lui, quali parole reprime, proprio sulla punta della lingua, preferendo rimanere in silenzio; quali tormenti lo lacerino, quale determinazione lo sospinga, nel bene e nel male, a trascinarsi pesantemente in avanti.

Quando ancora mi trovavo privata delle mie emozioni, chiedendomi se il passo che stavo per compiere fosse il più giusto, quando la paura mi stava divorando, al limitare di un parco giochi abbandonato, nel cuore di un quartiere residenziale, incolore, come tutti gli altri, la sua voce si è incrinata per la prima volta. Ho sentito rabbia, in lui, una sorta di rimorso orribile, di fronte alla mia esitazione, al mio dubbio, come se volesse evitare un fallimento. Come se volesse impedirmi di compiere un errore che lui conosce bene.

Mi sono chiesta se le maschere che indossiamo, corrispondano all'oscurità che sentiamo. Se è davvero così, allora quale genere di tormento divorante può sentire, lui, che se ne sta lontano dalla realtà, indossando un travestimento che lo faccia apparire impassibile ed estraneo, quando in realtà si lascia divorare ogni volta dal sovrannaturale, con una foga tale da apparire non meno di disperazione?

L'atrio principale è completamente deserto, privo di vita, come se fosse stato abbandonato a se stesso. Privo perfino della musica che serpeggia, facendo vibrare l'aria, fuori dalle dita della musicista che solletica il pianoforte, è come se fossi lontana da ogni cosa, talmente distante da sentirmi quasi tremolante. Ci sono solo ombre, che si accumulano tutt'attorno, ammutolite, ad osservarmi, incapaci di proferire una parola, di emettere un suono; perfino il tamburellare incerto di qualche goccia, o l'avanzare spasmodico, pieno di sforzo indicibile, delle lancette non giunge alle mie orecchie. È in momenti come questi, quando sono completamente abbandonata a me stessa, lasciata sola con i miei pensieri, i miei dubbi e le mie paure, che non riesco ad evitare di pensare quale sia il mio scopo, in tutto questo.

Sono stata egoista, o forse piena di paura, o di desiderio – ma gli ho chiesto di ricordarmi, nonostante tutto, di non dimenticarsi di me. E, di conseguenza, siamo rimasti l'uno accanto all'altra, legati dal destino. Mi sono poggiata a lui, nei miei momenti più bui, sorretta dalla sua figura che non sembra essere mai sfiorata dalla paura, dal dolore, dall'indecisione, come se sapesse esattamente quale sia il suo posto nel mondo. Mai una volta, lui si è poggiato a me. Mai una volta, ha voluto lasciarmi una parte del suo fardello. Non si è trattata di pietà, o di poca fiducia, ma solo di terrore.

Qual è il terrore più grande, per chi non può che contare solo su se stesso?

—Confidare la propria debolezza agli altri.

Sarebbe come ammettere la propria sconfitta, il proprio fallimento. Significherebbe ammettere di essere deboli, incapaci di stare in piedi sulle proprie gambe. Mostrarsi fragili, così vicini a rompersi ed incrinarsi, significa strapparsi di dosso ciò che permette di rimanere non piegarsi. E si finisce così per essere divorati e corrosi da quel che si annida dentro di noi. Non è forse quel che è successo anche a me? Incapace di chiedere aiuto, di parlare con chi mi stava attorno, sono crollata su me stessa. Senza chiedere aiuto, nemmeno alla fine, nemmeno quando il Gatto, leggendo dentro di me, ha capito.

Non so cosa sia accaduto ad Aidan, né perché l'ombra della ragazza di nome Ayane incomba su di lui. Il suo nome, pronunciato dalle sue labbra, con la sua voce tremante, è come una stilettata contro il mio petto.

Tuttavia, per una volta, voglio essere capace di sorreggerlo, anche solo per un istante.

Le lancette raggiungono il sei, producendo solo un breve schiocco, che tuttavia, nel silenzio assoluto, è come se rimbombasse cristallino. Le ginocchia sembrano quasi tradirmi, quando mi metto in piedi esitante, alzandomi dai gradini che portano al piano superiore. Appoggio una mano contro il petto, a saggiare le vibrazioni che si espandono fino ai miei polpastrelli, regolari, talmente potenti da infrangere l'assoluto silenzio tutt'attorno.

Sono passate due settimane dal giorno in cui abbiamo salvato la vita di Jeiviel Kondras, impedendone la pietrificazione. Sono passate due settimane e tre giorni da quando il nome di Ayane è comparso per la prima volta, da quando ho deciso di scoprire i tormenti che si annidano dentro Aidan.

“Quando tutto sarà finito... Ti risponderò. Ti dirò chi è Ayane.” Mi ha sussurrato, senza voltarsi, quando ho stretto la manica della sua divisa, per trattenerlo accanto a me, per impedirgli di sparire. Di sfuggire dalle mie dita.

Il filo delle mie riflessioni si spezza al rumore di una porta che viene aperta, scivolando sui cardini con un leggero scricchiolio, lo scricchiolare di una maniglia che si abbassa, spinta brevemente, per poi rialzarsi e tornare al suo posto. Nonostante volessi trattenermi, non riesco a controllare il riflesso di trasalire al leggero risuonare di passi alle mie spalle, scarpe che, un gradino dopo l'altro, discendono la scalinata, avvicinandosi alla base, avvicinandosi a me, ancora esitante a voltarmi.

Serro le labbra, e posso quasi sentire i denti strusciare gli uni contro gli altri. Non riesco a sentire nulla, al di fuori del battere delle lancette dell'orologio, o di quella goccia d'acqua, di quella singola lacrima di pioggia che scivola contro la porta dell'atrio, o quei passi che ritmicamente si avvicinano. Ma sopra ogni altro, sento affollarsi, tra i miei pensieri, un rumore indistinto, che si attorciglia e riecheggia solo in me. No, non un rumore, ma una sorta di vibrazione. Il battito del cuore folle, che risuona nelle parole, nel nome, che mi ha detto con una voce appena udibile.

“...Chi è Ayane.”

Ayane.

Quando la figura si ferma alle mie spalle, emettendo un basso sospiro, pieno di esitazione, prima di poggiarmi una mano spalla, mi irrigidisco a tal punto a quel contatto fisico da rischiare di perdere l'equilibrio. Divincolandomi da quella presa con una violenza esagerata, faccio un passo all'indietro e mi volto appena le mani ancora poggiate contro il petto, in modo da essere di fronte ad Aidan, una mano affondata in una tasca, l'altra ancora tesa dove fino ad un attimo fa c'era la mia spalla.

Le sue labbra si muovono, ma la voce non raggiunge le mie orecchie, assorbita come sono dalla sua espressione.

La sua espressione, che per la prima volta, dopo tanto tempo, mostra il segno di un'increspatura, che mi sembra di aver intravisto, una volta, all'ombra di un parco abbandonato, degli scheletri di scivoli d'acciaio che si tendevano contro il cielo albeggiante.

Quello che ho intravisto per un istante, era rimorso, era dolore?

Era malinconia?

“—Mi stai ascoltando?”

Un battito di palpebre è quanto basta per riportare tutto all'apparente normalità. La sua espressione, seppure più scura del solito, come ombreggiata dai ricordi che stanno ribollendo dentro di lui, è sempre la stessa. Fuori, il pigro ticchettio della pioggia è cessato, segno che, almeno per ora, non ci bagneremo uscendo dall'atrio, addentrandoci nel cuore della giornata grigiastra e temporalesca.

Scuoto la testa, “Scusami, ero sovrappensiero.”

“Ti ho chiamata tre volte. Sei sicura di stare bene?”

Non sei tu quello che dovrebbe preoccuparsi, in questo momento. Ho visto, per un secondo... “Sì, tranquillo.” Non sembra molto convinto della risposta, ed è quasi sul punto di chiedermi ancora qualcosa; ma all'ultimo istante, scrolla le spalle e, a testa bassa, mi fa cenno di seguirlo. Seguendolo appena dietro, ci facciamo stringere dall'aria insolitamente fredda che spira al di fuori, dal tenue venticello che, soffiando, agita i rami degli alberi contro le nuvole nerastre e gonfie, un tetto di oscurità indefinita sopra di noi.

Completamente in silenzio, abbandoniamo la scuola, lasciandoci il suo edificio tetramente silenzioso alle spalle, inghiottiti dalle strade intricate della città. Non chiedo dove stiamo andando, né riesco a mettere insieme sufficiente coraggio dal rompere il silenzio glaciale che gravita tra di noi. Ci sono volte, in cui non c'è stato bisogno di parole per capirci, per comprendere cosa uno stesse pensando; ma questa volta, si tratta di un silenzio diverso. Le sue spalle sono leggermente piegate, come gravate da un peso che non riesco a vedere, un peso talmente poderoso da creare una distanza tra di noi.

Per qualche ragione, sono sicura che quel peso abbia la forma di una ragazza. Abbia la forma di Ayane.

Percorriamo strade che iniziano a divenire, dopo un po', sempre più familiari. Riesco a riconoscere negozi ed incroci, palazzi e giardini; intravedo la grande, sontuosa casa dei Neires, e vaghi ricordi di mesi fa attraversano la mia mente per un secondo, prima di sparire non appena giriamo l'angolo. Mentre attraversiamo le strisce pedonali per immetterci in quartiere fin troppo noto, capisco dove i suoi passi mi stanno portando e mi stupisco di non averci pensato subito. Era inevitabile, dopotutto, che saremmo finiti in questo luogo che per entrambi, per ragioni diverse, ha un'importanza distorta, ma indissolubile. Proprio sul limitare di questo parco, Aidan si è incrinato per un secondo, mostrandomi quello che cela, nascosto, a tutti coloro che lo circondano. Un luogo che, in qualche modo, ci rispecchia e che, nelle sue macerie contorte ed abbandonate, nella sua desolazione, è evitato da tutti. Un luogo solitario, invisibile, nonostante tutti lo abbiano sotto gli occhi continuamente – come il mondo in cui viviamo noi, su quella linea indefinita che sfuma a metà tra la realtà ed il sovrannaturale che la contamina.

“Te lo ricordi?” Non si volta per gettarmi un'occhiata interrogativa, limitandosi a sfiorare con i polpastrelli uno dei cancelletti divelti, come se temesse di sgretolarlo al tocco. Faccio un cenno di assenso, che non può vedere, tutto preso com'è dal camminare tra la ferraglia strappata e contorta di quel parchetto. Non mi sono chiesta cosa lui possa vedere, tra queste macerie. Non mi è mai passato per la mente, nemmeno per un secondo, che questo luogo potesse avere un'importanza, per lui, che la sua memoria lo possa animare con spettri sbiaditi e vecchi fantasmi direttamente dai ricordi. O forse, da un solo fantasma, dai contorni così vividi, nei suoi ricordi, da essere insopportabile.

Superiamo senza degnarlo di più di un'occhiata il piccolo spiazzo dove, qualche mese fa, ho incontrato il Gatto, ho riacquistato le mie emozioni, me stessa... Ed ho deciso di rimanere al fianco di Aidan, nella speranza che, almeno lui, possa ricordarmi. Un piccolo cavallo a molla giace estirpato tra l'erba alta, e la molla alla sua base vibra appena, quando Aidan si accovaccia accanto ad esso per toccarne esitante la figura. Riesco ad intravedere i denti che si conficcano nelle labbra, per un solo attimo, ma è già in piedi prima ancora che io possa anche solo tendere la mano per sfiorarlo.

Cosa può essere accaduto, in un luogo desolato come questo? Perché, per lui, è così doloroso, al punto da suscitare tutto quel rimorso... Cos'è accaduto, Aidan?

Infine, arriviamo ad un nuovo spiazzo lastricato, circondato dai resti di tre panchine sfracellate e spaccate, di cui rimangono solo assi di legno marcite e acciaio contorto, arrugginito. Si ferma a contemplarne una, le mani affondante nelle tasche, perso in qualche pensiero troppo profondo perché possa interromperlo. Ma quel che gli interessa davvero, è ciò che si erge, scheletrico, all'angolo di questa piccola area. In mezzo all'abbandono e allo sfacelo, quell'unica struttura arrugginita appare fuori posto, così integra, seppure provata e scricchiolante. In sé, non ha nulla di speciale. È solo un'altalena come tante, mal ridotta e ormai inutilizzata, dalle catene malandate, al punto che potrebbero rompersi perfino sotto il mio esile peso.

Ora che sono così vicina al conoscere la verità, mi sento quasi schiacciata da qualcosa e, per quanto tenti di controllarlo, il battito del mio cuore non vuole rallentare. Mi siedo esitante su uno dei due posti rimasti dell'altalena, le ginocchia una contro l'altra, muovendomi appena con la punta delle scarpe in un lento, esasperante oscillare.

Non riesco a guardare Aidan se non con la coda dell'occhio, mentre si poggia, accanto a me, sull'altalena rimasta. Continua ad osservare l'erba incolta e le panchine solitarie, mentre solletica la ghiaia con le suole.

L'altalena produce un basso, costante scricchiolare, uno sferragliare affaticato di catene, ogni volta che mi spingo stancamente in avanti con i piedi. Il freddo acciaio delle catene sembra scivolare attraverso la mia pelle; ma non so se i brividi siano dovuti al vento che soffia delicatamente, facendo dondolare il posto accanto a me, oppure al pensiero di quel che sta per accadere.

Nessuno dei due ha proferito parola, da quando siamo arrivati in questo parchetto abbandonato che entrambi conosciamo bene. Su di noi, aleggia un'aria di tensione, pesante come un macigno, un silenzio talmente delicato da poter essere incrinato solo con il rumore dei nostri respiri. Per questo, anche se il mio petto si alza e si abbassa, non emette alcun suono.

Con le mani poggiate sul viso, gli occhi vitrei, perso nei suoi pensieri, sembra così lontano dal mondo, da questa realtà, immerso nei suoi ricordi peggiori, più torbidi. Gli stessi ricordi che gli ho chiesto di rivangare.

“Ti racconterò tutto, come promesso.”

Alza lo sguardo verso i ruderi di questo parco ormai lasciato a se stesso, a marcire e ad arrugginirsi. Un parco che preserva, tra le sue rovine di acciaio e plastica, i fantasmi di vecchi ricordi sbiaditi.

“— È la storia di come sono diventato quel che sono ora.

È la storia di una morte e di un senso di colpa.

È la storia di una stupida promessa, che mantengo ancora oggi.”

Le catene sferragliano un ultima volta, prima di immobilizzarsi del tutto.

“Questa è la storia della mia perdita.

 

   
 
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