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Autore: ToscaSam    24/06/2017    1 recensioni
Questa è la storia di Elena da Travale, detta l’Incantatrice. Giovane donna realmente esistita, che visse in Toscana nel XV secolo. La fantasia vuole qui avviluppare quel che la storia ha lasciato a pezzi e bocconi, vuole ricucire una trama bucherellata dalla quale tuttavia si percepisce un disegno intrigante e misterioso.
Genere: Mistero, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Medioevo
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le vergogne
 
Il sole sorgeva di nuovo sul piccolo paese di Travale.
Una scia dorata, leggermente rosea, pitturava il contorno di alte chiome d'albero, tutti arrampicati per i colli alti e scoscesi. I tetti delle case facevano ombra sulle strade, mentre alle loro spalle la luce prendeva sempre più campo.
Non c'erano molte anime già in piedi, a quell'ora. Erano circa le sei del mattino e per quanto quel numero fosse stato usato come minaccia per punire una certa persona, questa persona lo trovava affascinante.
 
« Buongiorno grande disco dorato padrone del cielo, cui gli uomini hanno dato il nome di Sole»
disse una ragazzina magra, sui quattordici anni.
Se ne stava appollaiata sulla finestra del campanile: c'era una rientranza di pietra molto spaziosa – e parimenti polverosa – che consentiva ad una bambina esile di entrarci comodamente.
Il suo vestitino grigio era semplice, più volte rattoppato e con molti fori.
Per terra, segno di un lavoro abbandonato e dimenticato, giacevano una scopa di saggina, un secchio d'acqua e un libro buttato a rovescio.
Il sole rispose al saluto della giovane, impigliandosi fra i suoi ricci rossi, dorandoli come una giovane fiamma lucente e risplendendo nei suoi occhi verdi come lucertole.
« Oh, si, lo so che ti sorprendi a vedermi qui» continuò la bambina, parlando con voce soave e sussurrata « È molto presto, vero? Sei arrabbiato perché non sei stato il primo a svegliarti? Oh, non preoccuparti, Sole. Anche se ero in piedi si può dire che dormivo. Sai che il prete mi ha fatto dire le lodi dalle quattro alle cinque di stamani? Quindi, ti prego. Accetta le mie scuse per essermi svegliata prima di te? Prometto che ti troverò un tributo adeguato e che te l'offrirò. Buona risalita del cielo, mio luminoso amico e sovrano. Non durare troppa fatica, eh».
Mentre parlava, Elena faceva cerchietti con il dito nella polvere; era troppo difficile guardare sempre il sole , le lacrimavano gli occhi.
« Scusami anche se non ti fisso, come si dovrebbe fare coi re. È che mi rimane tutta una macchia strana negli occhi. L'ombra è più bella. Oh, no! Non offenderti, Sole caro! Lo so che tutte le notti tu devi combattere con il buio. Ma ci riesci sempre, a vincere, no?»
« Chi c'è lì?»
Tuonò una voce, amplificata dalle scale di pietra.
Elena si rizzò ad una velocità estrema, sapendo che comunque non ce l'avrebbe mai fatta a raccattare gli oggetti che prima aveva buttato in terra.
« Elena? Sei te? Che ci fai lì?»
Continuò la voce grinzosa del parroco.
Anche prima di vederlo, anche prima di sentirne la voce, Elena era certa che casomai qualcuno in quel momento avesse risalito la torre campanaria, quello era il parroco. Tutta la sua persona era incartapecorita: appena sbucò dall'ultimo spiraglio di muro, ecco che le mani ossute e antiche entravano nel raggio visivo di Elena, insieme alla faccia con la pelle calante.
« Come hai fatto a salire quassù, in nome del cielo?»
Con aria indignata, quasi spaventata, si portò una di quelle mani vecchie all'altezza del cuore.
Elena spiegò, cercando di nascondere la polvere che aveva sul vestito:
« Signore, la chiesa era troppo grande per me sola a quell'ora di mattina. E poi avevo paura di Gesù»
Il prete sgranò gli occhi:
« Avevi paura di Gesù ?!»
« Signore, era lì sulla croce, morto, con il sangue che colava. Era tutto buio e i lumini lo facevano sembrare un fantasma. Anzi, sembrava uno di quei demoni delle storie che mi raccontavano quando ero nella foresta. Una volta una donna si era macchiata tutto il vestito di sangue. L'aveva perso da laggiù. Mi dissero che era una cosa del diavolo. Quella statua di Gesù mi ricordava il diavolo. Ho avuto paura.»
La sincerità che era costata a Elena anche un po' di fatica – confessare di aver avuto paura non rientrava nella lista di ciò che preferiva fare – fu ricambiata con uno strillo scandalizzato:
« Cristo santo! Perdona questa bambina, perché non sa ciò che dice! Vieni subito qui!».
Elena sgranò i grandi occhi verdi e pensò di non essersi spiegata bene, perché quel che aveva da dire non meritava nemmeno lontanamente una punizione:
« Ma no, signore! Sono salita qui perché era più piccolo e buio. Non c'erano i lumini! Ho aspettato la luce del sole, che non fa paura. Lo so che Gesù è bravo, erano solo i lumini e il sangue che lo facevano sembrare un diavolo!»
Il prete non volle sentire altro; si avvicinò a grandi passi a Elena e la tirò per un orecchio verso il muro polveroso della piccola stanza delle campane.
« Ora alza la gonnella, e che il Signore mi sia testimone. Santo cielo! Che hai fatto al tuo vestito?»
il prete alzò la gonna impolverata con le sue mani e così vide anche tutti i buchi mal rattoppati.
« Non hai ricucito il tuo abito?»
« Ci ho provato, ma non mi riesce!» ribatté Elena, stizzita. Non era più una marmocchia cui un adulto potesse alzare la gonna! Era grande! Un prete non poteva farlo!
« Non hai ascoltato la lezione di suor Teudigia?»
« Si che l'ho ascoltata, ma si arrabbia quando non capisco!»
« Ci credo che si arrabbia, demonio di bambina! Vieni qui per imparare quello che una donna deve saper fare nella vita. e non stai ottenendo progressi. Se non ricordo male, la tua punizione per non essere riuscita a svolgere i tuoi compiti prevedeva un'ora di laudi mattutine e la pulizia della chiesa. L'hai fatto?»
Elena si infuriò drasticamente, picchiando i piedi: « Ma se vi ho detto che avevo paura! Sono salita qui!».
Il prete si abbassò per raccogliere la scopa e ordinò di nuovo che Elena si alzasse la gonna.
Vedendo l'impossibilità di un rifiuto, la bambina obbedì e giurò a sé stessa di non piangere o gridare, mentre le venivano sferrati secchi colpi sulle natiche e sulle cosce.
La saggina bruciava e graffiava come un coltello le carni tenere da ragazzina di Elena. Pensò a tutte le maledizioni che potesse scagliare contro il prete. Chiese aiuto al Sole, offrendogli come tributo la vita del prete. È tuo, pensava. Prendilo, è un sacrificio che ti offro.
Ma il Sole non la aiutò e le vergate sulle natiche le fecero così tanto male che non fu in grado di scendere le scale della torre campanaria per tutta la mattina.
Immaginò che il parroco non avesse detto a suor Teudigia dell'accaduto e che quindi non fosse esentata dal frequentare la lezione di cucito.
 
Dopo che l'indignazione per l'offesa subita e l'impossibilità di muoversi si furono attenuate, Elena azzardò alcuni passi. Arrivare fino alla porta di pietra che dava sulle scale a chiocciola fu un'impresa. Ad ogni passo sembrava che un diavolo le graffiasse le cosce per trascinarla nell'inferno.
La giovane Elena strinse i denti.
Si appoggiò al muro, per poi sbirciare fuori dalla porta: era sola.
Aveva sentito che il prete, prima di andarsene del tutto, si era soffermato un poco dietro la soglia di pietra, per sentirla piangere. Non ce l'aveva fatta a trattenersi oltre, la povera Elena: aveva giudicato che la sua promessa di silenzio potesse finire una volta che il prete fosse andato via. Si era accorta che egli era rimasto un poco sulle scale, ma a quel punto le lacrime non ce l'avevano più fatta a rimanere dentro gli occhi.
Elena era fiera di non aver comunque fatto rumore: giusto gli inevitabili singhiozzi smorzati che uno che vuol piangere in silenzio non è umanamente in grado di contenere.
Ma ora … ora era sola per davvero e l'urlo di fuoco bruciava nella sua ugola, vibrava, desiderava la libertà.
Elena gliela concesse. Prese fiato, tutto quello che la sua bocca dalle labbra chiare riuscì ad ingerire, poi gridò nella tromba delle scale:
« Vai all'inferno, prete del diavolo! Vai e marcisci! Ti odio! Ti odio! Che il diavolo ti porti! Hai capito?! Voglio che tu muoia! Che tu crepi subito! Crepa all'inferno!! ti maledico!!».
Mentre Elena urlava e le scale a chiocciola dagli spessi muri davano potenza al suo grido, proava una gioia immensa. Che piacere sublime e sinistro! Quel posto era fantastico per lanciare maledizioni, per sfogarsi contro i prepotenti, per non farsi avvicinare da nessuno.
Quando l'ultima “o” di “maledico” fu svanita nella magia dell'eco, Elena sogghignò. Il sorriso non le stava più negli angoli della bocca, così decise di aprirla e digrignare i denti.
Sorrise così per molto tempo, tutto quello che occorse al sentimento di vendetta ripagata di fluire nelle sue vene.
Borbottò fra sé ancora un po', compiacendosi del rimbalzo che la sua voce compiva sulle pareti di pietra. Decisamente, quello era il posto migliore che le fosse mai capitato per uno scopo simile.
Aveva sempre pensato che le sue maledizioni fossero poco potenti: una volta voleva scagliare qualche maleficio su Nanni, che la importunava con domande strane o con sguardi incomprensibili, e gli aveva urlato di andare al diavolo; non si era sentita molto potente, anzi, intimorita. Un'altra volta avrebbe volentieri urlato contro suor Teudigia, che la rimproverava di non saper nemmeno fare il nodo al filo, mettendola in ridicolo davanti le altre bambine. Quella volta non riuscì nemmeno a prendere fiato. Si sentì debolissima.
Ma ora .. ora aveva scoperto il luogo perfetto per lanciare i malefici. Ogni volta che qualcuno l'avesse offesa, Elena giurò che sarebbe salita sulla torre campanaria e avrebbe urlato insieme alla potenza della tromba delle scale.
 
Quello sfogo di odio le aveva donato una placidità che Elena stessa non si aspettava.
Decise che il ritardo alla lezione di cucito era ormai troppo e che fosse ora di scendere da quel luogo magico.
Facendo attenzione ad ogni passo, dato che le unghie dei diavoli tiravano la sua pelle graffiata, scese le scale arricciolate. Le parvero lunghissime.
Durante il tragitto faticoso pensò a quello che avrebbe detto a suor Teudigia. Di certo non si sarebbe sorbita la verità, perché le persone cattive – ma che sembrano buone a tutti – non accettano mai la vera versione dei fatti. Il prete si era appena arrabbiato perché Elena aveva avuto paura di Gesù … di certo anche la suora avrebbe reagito allo stesso modo.
Pregando il Signore con tutto il cuore, Elena sperò di non dover subire altre frustate nelle gambe … quelle non le avrebbe potute sopportare.
Allora che dire? Facilissimo: solo quello che la suora voleva sentire; quella parte di verità che a Elena sembrava così marginale, ma che alla suora sarebbe piaciuta come un biscotto al miele.
E infatti fece così: arrivata alla porta dell'oratorio, oltre cui le sue compagne avevano già frequentato un'ora di lezione di cucito, Elena disse che il suo ritardo era dovuto alle vergate che il prete le aveva dato. E come mai, voleva sapere suor Teudigia, già pregustando il piacere della ragione? Perché non aveva detto le lodi, come le era stato imposto e non aveva pulito la chiesa, ma anzi, si era andata a rifugiare nella torre campanaria a farsi i fatti suoi.
 
« Che insubordinazione!» esclamò la suora, gonfiandosi tutta.
Elena si compiacque amaramente con la propria perspicacia.
« Che debbo fare con te, disgraziata? Ti metto in punizione perché sei una testa dura e non riesci ad inserire il filo nell'ago per ricucirti i vestiti, e tu che fai? Te ne infischi. Sento che potrei anche condannarti a morte, ma ho l'impressione che il diavolo farebbe diventare l'ascia un cumulo di piume, per te!»
Le altre ragazze scoppiarono a ridere, mentre Elena alzò un sopracciglio: se il diavolo poteva fare queste cose, perché mai dovrebbe essere considerato cattivo?
« Vai al tuo posto e vedi di stare seduta composta! Non mi interessa se ti dolgono le gambe per le vergate. Te le sei meritate tutte, dalla prima all'ultima».
Suor Teudigia aveva ragione: la sedia fu una tortura ben peggiore della discesa delle scale.
Le cosce frizzavano da morire e oltretutto Elena non voleva farsi vedere a disagio dalle sue compagne. Erano tutte spocchiose, odiose e sapientine, certo; non le importava un fico secco di loro. Però la sua dignità era già stata strapazzata abbastanza, per quella mattina.
 
*
 
« MalElena?» sussurrò Orsola, che le era accanto.
Elena la ignorò, concentrandosi sulla camicia che stava cucendo – rovinando – per Nanni.
« Elenaccia?»
continuò Orsola.
Elena si concentrò sul viaggio che il suo piccolo ago compiva al di sopra e al di sotto della stoffa della camicia.
« Elenaccia stregaccia?» ridacchiò Orsola mentre per la terza volta si rivolgeva alla ragazzina al suo fianco.
« Cuciti la bocca» rispose finalmente quella dai capelli rossi e arricciati. Dentro di sé pensava già a tornare sulla torre e gridare che Orsola poteva benissimo morire subito e malamente.
« E te cuci quella camicia, perché la stai distruggendo» rise la persona cui molte maledizioni stavano già venendo lanciate in silenzio.
Orsola veniva considerata da suor Teudigia molto bella e molto raffinata per quel buco di paese che era Travale. La lodava spesso dinnanzi alle altre e mostrava l'infinita bellezza, predicendole un matrimonio con un principe o un re.
Elena aveva capito subito che non poteva trattarsi di un pensiero autentico, poiché Orsola di straordinariamente bello aveva ben poco: certo, i capelli erano di un castano chiaro, con qualche riflesso biondo . Eccetto quelle trecce dorate, che parevano di grano, non aveva nessun'altra particolarità estetica.
Un viso lungo, da faina, con un naso secco a forma di becco di pettirosso; occhi marroni, banali, come quelli di quasi tutte le altre persone che Elena conoscesse.
L'unico vantaggio di Orsola, Elena aveva capito, era quello d'esser figlia di qualcuno che elargiva donazioni all'oratorio. Probabilmente proprio quei i corsi di cucito li finanziava il babbo di Orsola.
« Lo sai che c'hai tutto il vestito macchiato? Sul culo! Sono le frustate o sei nel periodo della vergogna?»
continuò a ridere Orsola dai capelli di grano.
Ecco, pensò Elena; di nuovo quell'espressione.
Da un po' di tempo aveva cominciato a sentire le sue compagne parlare di “vergogna”, “periodo della vergogna”, di “cose segrete”.
Non aveva la minima idea di che cosa potesse essere ma, dato che le altre parevano capire perfettamente, lei non aveva mai chiesto.
« Vergognosa sarai te. T'avrei voluto vedere, a prendere le frustate, se ti rimaneva il culo pulito!»
rispose Elena con voce graffiante. Sentiva che aveva bisogno del suo luogo delle maledizioni molto alla svelta.
« Sei una pezzente!» si indignò Orsola.
Il destino, nemico infausto, volle che suor Teudigia ricevesse una chiamata urgente dal parroco, che l'abbisognava per non si sa che affare impellente. Entrò, salutando le bambine e lanciando un nuovo avvertimento ad Elena. Chiese alla suora se Elena avesse raccontato l'accaduto e si compiacque di sentirsi ripetere le sue gesta da suor Teudigia.
Le ragazze furono quindi congedate con un po' di anticipo, prima del pranzo, per poi essere nuovamente aspettate ai lavori pomeridiani.
Per questo il destino fu crudele: Orsola avrebbe gettato via la sua voglia di punzecchiare Elena, dinnanzi alla libertà di tornare a casa. Peccato che il prete avesse risvegliato nella classe l'interesse verso quel fatto delle vergate avvenuto in mattinata.
Erano già quasi tutte nel cortile, quando Orsola disse a voce alta:
« guardate tutte il culo di Elena, che è sporco di sangue! È una svergognata!»
Le altre compagne si misero ad osservarla e a ridere. Elena si portò le mani sul sedere e gridò:
« Perché non vi fate i fattacci vostri?»
« Stai zitta, indiavolata!»
« Ti dovevano bruciare appena nata, a te!»
« Non ti vergogni con quel vestito tutto bucato?»
« Zitte un po'» disse a un certo punto una delle ragazze più grandi, Luchina, che aveva sedici anni e fra poco si sarebbe sposata: « magari le è arrivato il periodo della luna» sussurrò.
« Elena, sono le frustate o è … quella cosa?».
Elena arrossì e guardò con occhi sbiechi Luchina, che le si era avvicinata.
Questa della luna non l'aveva mai sentita. Aveva un nome più carino di quello della vergogna; forse era una cosa diversa.
« E che cos'è?» chiese dunque, con coraggio.
Lo scoppio di risate che ne seguì fu irritante come non mai. Le ragazzine si sbellicavano e anche Luchina le rise in faccia con incredulità.
« Elena, non sai niente
« Si! Si ! So tutto!!» sbraitò lei: « Lo so cos'è quella cosa della vergogna! Lo so! Smettetela!»
« Ma almeno come nascono i bimbi lo sai?» chiese Orsola, che aveva le lacrime agli occhi.
Elena fu spiazzata. Non se l'era mai domandato. Che c'entravano adesso i bambini? Oddio, in effetti, come nascono i bambini? Come entrano nella pancia delle donne incinte?
Gli occhioni verdi sgranati furono una risposta eloquente per le giovani ragazze della scuola di cucito. Era un divertimento inaspettato, troppo impensabile per essere vero: possibile che quella Elena, quel demonio della natura con quei capelli rossi arricciolati e selvatici, non sapesse nulla delle vergogne?
Che ghiotta occasione per ridere di lei! Ormai era un gioco consolidato e noioso, prenderla in giro per il colore dei capelli, per i suoi modi strani o per l'incapacità nel cucire.
 
« Luchina spiegaglielo te, che stai per sposarti!»
« Elena, cosa credi che farà Luchina la notte dopo che si sarà sposata?»
Elena non ne aveva la benché minima idea e tutto il discorso le parve senza senso. Tutto stava prendendo una piega stranissima.
« Che dici? Glielo fai a Luchina un talismano per farglielo piacere, quello che deve fare?»
« Un talismano per cosa?!» gridò Elena, rossa in volto come i capelli, odiando ogni minuto che quella conversazione andava avanti.
Risate, risate e ancora risate.
« Fattelo spiegare da Nanni» disse una bambina coi capelli neri e le sopracciglia folte: «o non è il tu padrone? Vedrai che te lo spiega!»
Giudicando effettivamente una buona idea il fatto di ritornare a casa, Elena fuggì dal cortile dell'oratorio.
Liberò per la seconda, maledetta volta, tante di quelle lacrime che pensò di diventare appassita come l'uva schiacciata.

*
 
Erano passati alcuni anni da che Elena e Nanni erano riusciti a trovare una sistemazione: una casetta piccina, vicino a un campo molto grande. Elena aveva capito che il patto consisteva in questo: Nanni doveva lavorare la terra e dare i ricavati più belli al parroco.
A lei piaceva molto quella casa, nonostante le quattro mura fossero più che altro simili ad una prigionia. Però c'era quel campo meraviglioso. La parte che Nanni lasciava incolta si riempiva di tantissimi fiorellini, di insetti e serpenti. Elena adorava rotolarsi nell'erba alta e scovare tesori: raccoglieva i fiori, li faceva essiccare e li metteva in boccettine per farci i filtri. Una volta aveva trovato una vipera morta; che gioia! Un regalo inaspettato. Aveva benedetto il corpo in putrefazione dell'animale e con cautela ne aveva esaminato la bocca, prelevandone un liquido che sperò tanto fosse il famigerato veleno.
Si era sentita così ricca, quando aveva posseduto quel veleno!
Adesso però non ce l'aveva più: visto che con l'estate si andava asciugando, Elena l'aveva versato sul muro della finestra e aveva constatato con piacere che le zanzare non erano più entrate. O meglio, erano entrate, ma un po' meno.
 
Sbattendo la porta di legno, Elena vide Nanni con la zappa in spalla, evidentemente appena rientrato dal campo.
« Bada la piccola Lena. Sei tornata prima eh?»
« Si» rispose lei secca.
« O brava. Vammi a preparare il mangiare, che ho fame»
Esclamò il padrone, poggiando la zappa dietro lo stipite della porta e sedendosi sul pancale di legno dell'ingresso.
Appena Elena lo sorpassò per andare a preparare il pranzo, Nanni emise una specie di rantolo di sorpresa:
« Bimba, o che hai fatto? È arrivata l'ora, finalmente?»
Elena si voltò, timorosa:
« L'ora di che?»
Nanni aveva di nuovo quell'espressione che lei odiava: uno sguardo incomprensibile, sempre lo stesso, e una propensione a fare domande strane (come quella appena fatta, appunto).
« Eh … Elenina. L'ora di diventare donna. Sarebbe anche l'ora … quanti anni hai, te?»
« Quattodici, mi sa. Perché?» chiese, sempre più nervosa. Poi aggiunse, in cerca di consolazione: « Nanni, è stato il prete! Stamani avevo paura del buio e non ho pulito la chiesa. Lui si è arrabbiato! E mi ha vergato con la scopa!».
Si voltò e tirò su la gonna, mostrando le cosce ferite al suo padrone.
« Guarda! Guarda cosa mi ha fatto!»
Nanni non perse la sua stranissima inclinazione. Perché fa così proprio adesso? Pensò Elena, che aveva solo bisogno di essere consolata.
Nanni parlò con una strana voce strascicata: « Elenina, Elenina. Guarda che sei grande per far vedere il culetto a un prete»
Elena si trovò d'accordo.
« Lo so!! Mi ha alzato la gonnella e poi m'ha vergato!»
« Lena, bella bimba, bada lì. Ti sei fatta quasi donna, eh? Sapessi quant'è che l'aspettavo»
Elena rimase interdetta.
Perché tutti quei discorsi strani, quel giorno?
« Perché l'aspettavi?» chiese.
« Lena bella, c'ho i mi pensieri»
Sempre più stordita e vagamente imbarazzata, Elena si tirò giù la gonna e andò a prendere un secchio per lavare il vestito. Nanni avrebbe pranzato fra un pochino; dopotutto era tornata a casa prima e poteva permettersi di farlo aspettare.
Da quando il suo seno era cominciato a gonfiare, non lavava più il vestitino nuda. Gliel'aveva fatto capire Nanni, che era una cosa che non si doveva fare. Non avendo un ricambio, Elena si metteva la consunta camicia da notte.
« Quando ti uscirà il sangue , ma non per le vergate, Elenina, dimmelo. Perché sarà l'ora che si faccia un cambiamento» le disse dall'ingresso.
Elena armeggiò con il secchio e pensò molto a quella frase, senza capirne una parola.
  
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