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Autore: Jawn Dorian    04/07/2017    1 recensioni
«Krista dice che stai cercando di diventare mio amico.»
Elliot Alderson ha un cuore gentile sepolto sotto un mare di incubi e John Watson è notoriamente l'amico di chi non ha amici.
John Watson brama ancora la guerra con ogni fibra di sè e Elliot Alderson ha una guerra dentro la testa.
L'ironia di due vite che si intrecciano quando non si sarebbero mai dovute intrecciare.
{ Sherlock (BBC) + Mr.Robot }
La cosa più strana che abbiate mai letto.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Sherlock Holmes
Note: Cross-over, Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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3. Ed è così che cominciò l’amicizia del soldato e del burattino.

 
Molly Hooper e John Watson avevano molte cose in comune. Il loro affetto per Sherlock Holmes nonostante il suo comportamento antiumano era la più evidente, ma c’erano anche la pazienza, la perseveranza, il tirocinio svolto nello stesso ospedale, l’ilarità provocata da video di gatti che facevano cose buffe e – la meno nota ma la più importante di tutte – l’amore per le crostate. Per questo, quel giorno, dopo l’ennesima visita settimanale al Bart’s alla povera Molly per avere copie varie di documenti di un’autopsia, John decise di invitarla a prendersi un caffè insieme e una fetta di crostata. E Molly accettò. Quando quei due finivano al tavolo di un bar a chiacchierare di qualunque cosa solitamente tutto alla fine conduceva a Sherlock: Sherlock ha fatto questo, Sherlock ha fatto quello, giuro che non lo sopporto più, però è stato grande nell’ultimo caso. Quella volta, invece, John si concesse una piccola variazione: «Se tu scoprissi che…che una persona ha cercato informazioni su di te senza il tuo consenso, cosa faresti?» Molly sgranò gli occhi con aria incredula: «Oh, cielo. Sherlock non avrà mica—»
«Non è stato Sherlock. Anche se non si può dire che non sarebbe da lui.»
La patologa prese un sorso dalla propria tazza e si strinse nella spalle con aria indecisa. «Di che genere di informazioni stiamo parlando?» chiese, inclinando leggermente la testa.
«Cose estremamente private.»
«Andrei dalla polizia..?» tentò Molly, poco sicura.
«No, beh…vorrei…preferirei non dover arrivare a quel punto.»
«E’ perché questa persona è un tuo amico?»
John ci pensò su per un momento. Da quando Sherlock era nella sua vita faceva molta meno fatica ad ammettere di avere una simpatia per qualcuno. Forse perché aveva imparato che perdersi in chiacchiere serviva a poco, o perché la sua fiducia nel prossimo era incrementata. Ma d’altra parte, per lui il titolo di ‘amico’ era una cosa da prendere seriamente, e che avrebbe affidato sempre con la massima convinzione. «Sì…» disse alla fine.
«Ti scegli sempre amici molto strani, John» commentò la dottoressa dopo un attimo di contemplazione «oh- scusa! V-volevo dire—»
«No, Molly…hai ragione» sospirò John con un sorriso un po’ amareggiato «sono una vera calamita per pazzi.»
Molly strinse le labbra e poi ridacchiò appena: «Oh, ma chi sono io, per giudicare? Uno dei miei appuntamenti ha tentato di farti saltare in aria…»
Quella cosa li metteva sempre un po’ in imbarazzo: Molly era uscita con l’unico consulente criminale del mondo – uno psicopatico che aveva attentato alle loro vite – e a quanto pareva avevano fatto una maratona di Glee insieme. John faceva veramente fatica a pensarci, ma in quel momento il ricordo di quell’episodio tragicomico sembrò consolarlo.
Un bip dalla sua tasca lo distrasse. Watson tirò fuori il cellulare e aprì un messaggio rigorosamente firmato ‘SH’ e si rabbuiò con immediatezza, tanto che Molly si sporse in avanti, chiedendo: «Qualcosa non va?»
«Scusami Molly, devo correre a Baker Street.»
La ragazza gli sorrise accomodante. «Sherlock ha bisogno di te?»
«Non Sherlock.»
 
Elliot è qui. Dice che non si muove finchè non torni. SH

 
***
 
John non si stupì nel vedere Sherlock darsela a gambe nell’appartamento della signora Hudson proprio mentre lui saliva le scale per raggiungerlo. Con ogni probabilità doveva aver dedotto che c’era qualcosa di sentimentale – e quindi ‘noioso’ – in atto, e aveva ben deciso di togliersi di torno e di non assistere. L’unica cosa che gli sentì borbottare fu un: «Vedi di farlo ragionare, lo voglio fuori dal mio appartamento!» mentre scendeva di sotto con andatura regale e un poco offesa dalla presenza di una persona infantile quanto lui al piano di sopra. John sospirò – l’ennesimo sospiro solo quella giornata – e si fece strada dentro casa, dove trovò Elliot piantato in mezzo al soggiorno con lo sguardo più spaventato e allucinato che mai. Sembrava non capire come fosse finito lì, eppure a portarcelo erano state proprio le sue gambe. John chiuse la porta d’ingresso senza una parola, poi incrociò le braccia. «Cosa c’è?» domandò con tono seccato, e si concesse di apparire un po’ scontroso, anche se fece davvero molta fatica di fronte a quel visetto spaurito. Ci fu una pausa di qualche attimo, poi Elliot respirò profondamente prima di parlare: «Il mio nome completo è Elliot Alaric Alderson.»
Si fermò per un altro paio di secondi, come per dare a John la possibilità di assimilare quell’informazione e di avere una qualunque reazione, che infatti non tardò ad arrivare: alzò le sopracciglia, genuinamente esterrefatto, ma questo non impedì ad Elliot di continuare. «Avevo una ragazza. Non ho mai avuto una vera ragazza, ma lei sì, era davvero la mia ragazza, le avevo chiesto se voleva esserlo. Si chiamava Shayla. Era la mia pusher. E c’era quest’uomo…»
«…Elliot, non devi—»
«La molestava. Insomma, il suboxone non si recupera così facilmente, e— questo era il genere di merda da reggere, ecco. E allora per farlo smettere l’ho fatto arrestare. Le avevo promesso di non farlo, ma l’ho fatto lo stesso. Ma lui—»
Aveva metabolizzato da tempo quella storia. Si era abituato al fatto che Shayla non ci fosse più, forse era già quasi solo un ricordo. E allora per quale motivo la sua voce si stava spezzando in quel modo? Perché ogni parola usciva strozzata dalla sua gola e sentiva che respirare era quasi impossibile? «Si è vendicato, immagino. Non che ne avesse davvero bisogno, perché ormai lo avevo tirato fuori di prigione— ma non lo so, forse ci sono persone che sentono il continuo bisogno di mostrare la propria fottuta ed inutile supremazia e—»
John non si era mosso. Aveva solo lasciato scivolare le braccia lungo i fianchi e stringeva i pugni.
«Me l’ha ammazzata. E’ morta. Per colpa mia.»
Prese fiato, dopo aver finito, come fosse appena stato in apnea. Dirlo ad alta voce era diverso che pensarlo. Dirlo ad alta voce ad un’altra persona che non era Krista, era John, John Watson, rendeva tutto così reale da essere allarmante. Cercò di calmarsi guardando finalmente John dritto negli occhi, ma invece che la calma che sperava di trovare, c’era uno sguardo furente. «Mi stai dicendo questo perché pensi che così  saremo pari, non è vero?»
«Sì» disse fulmineo Elliot senza pensarci, ma poi si rese conto che sebbene gli fosse costato una fatica immensa, non era come se John all’improvviso sapesse tutto quello che c’era da sapere di lui. «No» si corresse quindi, mortificato. E non sapeva che altro dire. Aveva agito di getto e senza pensare neanche un secondo a cosa sarebbe successo dopo. Lo sguardo di John si ammorbidì all’improvviso, così come la sua postura. Si avvicinò, e poteva essere solo per tirargli un pugno o abbracciarlo, e tutte e due le possibilità terrorizzavano Elliot oltremodo. Ma John non fece niente, se non guardarlo, intensamente, e mormorare: «Mi dispiace tantissimo. Davvero.»
E sembrava dispiacergli sul serio. Come fosse successo anche a lui. Un’ombra negli occhi di John sembrava riflettere esattamente il paralizzante dolore che aveva provato anche lui. Quel dolore lancinante che frammentava ogni pensiero o azione e che mozzava il fiato.
 «Scusami» sussurrò Elliot, perché sapeva che era quello che si faceva in quei casi. Per lui era una cosa naturale, oramai: l’hacking era come un’estensione dei suoi sensi, e non sapeva fino a che punto era davvero pentito di averlo fatto, e quanto poteva promettere di non farlo più. Ma sapeva di aver ferito John e che John non se lo meritava. Per la seconda volta chiese ‘scusa’ a John Watson sentitamente, e John accettò le sue scuse.
 
***
Una delle cose che Elliot detestava con ogni molecola di sé, ma contemporaneamente adorava con ogni fibra del suo essere di John era la sua anima da vecchietto. Nonostante avesse un blog, il dottor Watson sembrava quasi del tutto estraneo al mondo di internet e a quello dei social network: non aveva mai sentito parlare di Instagram, a malapena sapeva cosa fosse twitter, quando Elliot gli nominò tumblr la prima volta John gli rispose ‘salute’, e aveva un profilo Facebook ma l’aveva lasciato a prendere polvere. Non pubblicava nulla, non aveva che pochi amici – compagni di studio di vecchia data – e la stessa immagine del profilo da un secolo. Per lo più John scriveva email, e quasi tutte come fossero state delle lettere. Era un tipo all’antica, insomma, che non era interessato particolarmente a quel genere di socializzazione. Non il tipo che sperava che al mondo fregasse qualche cosa della sua grigliata nel weekend o della sua macchina nuova. Il suo blog e l’email erano la fonte delle sue comunicazione telematiche, e gli bastavano pienamente. La cosa piaceva da morire ad Elliot: John non si era costruito alcuna finta intimità, nessuna bolla, nessuna facciata. John era John. Ma, purtroppo per Elliot, John non ne capiva un accidenti di informatica e quando qualcosa con il suo computer andava a storto, lui veniva inevitabilmente chiamato in causa. Come in quel momento, ad esempio. «Ma che diavolo—»
Elliot dovette trattenere una risata malamente, mentre John vedeva l’ennesima finestra Fatal Error comparirgli davanti. «Elliot..?»
«Te l’ho già spiegato, non puoi risolverlo con un antispyware!»
«Un…un antiche?»
Erano gli unici momenti in cui era John lo sperduto dei due, ed Elliot correva a salvarlo.
«Dammi qua» agguantò il pc del medico senza troppi complimenti e si mise all’opera per risolvere il problema «queste cose le sanno anche i bambini delle medie.»
«Forse i bambini delle medie della tua generazione!» protestò John.
«Fatto» proclamò Elliot, e gli restituì l’apparecchio senza neppure guardarlo in faccia.
«Grazie…»
John ringraziava cortesemente, e ad Elliot quei momenti sembravano sempre avere un che di surreale e paradossale: l’uomo che lo riempiva di premure ogni qualvolta ne aveva la minima possibilità, che lo ringraziava per simili scempiaggini. John voleva proteggerlo. E non perché era il suo lavoro, ma perché sentiva il bisogno di farlo, a quanto pareva. E non poteva proteggerlo, questo Elliot lo sapeva. Ma apprezzava lo sforzo. Lo apprezzava davvero moltissimo.
 
***
«Ma…esci così?»
Elliot guardò John. Poi gettò uno sguardo sulla sua felpa – la solita felpa, sempre uguale, sempre la stessa – e poi tornò a guardare il dottore, corrucciato come non mai. «Sì..?»
«Elliot, tu sei pazzo!»
Doveva ammettere che non era la prima volta che veniva accusato di una cosa simile, ma in quell’occasione non seppe spiegarsi su quale elemento si basasse quell’affermazione tirata fuori con tanta enfasi, così scrutò John di nuovo, sempre più confuso. «Fuori fa freddo! Si congela! Non puoi uscire con questo gelo solo con quella felpa!» sbottò l’altro all’improvviso, e senza neanche dargli il tempo di replicare si era precipitato su per le scale verso la sua camera. Tornò dopo neanche dieci secondi carico come un Re Magio e ancora una volta Elliot non ebbe neppure il tempo di avere la benché minima reazione. John gli legò una sciarpa al collo e gli poggiò una giacca sulle spalle, intimandolo con un «Infilala!» autoritario. Elliot eseguì l’ordine nonostante non si sentisse affatto a suo agio. Ringraziò di tutto cuore ogni dio in cui non credeva, perché almeno John non gli aveva portato un cappello: odiava i cappelli. «Ora sì che si ragiona. Volevi prenderti una broncopolmonite?»
Elliot voleva solo strapparsi tutto di dosso, ma non lo fece. Qualcosa glielo impedì. Nonostante odiasse la sciarpa stretta al collo e l’imbottitura di quella stupida giacca. Non lo fece. Niente con John aveva senso. Niente di niente.

 
***
 Così, con un po’ di sforzi da parte di entrambi, Elliot Alderson e John Watson erano diventati ancora più legati di prima. Da fuori appariva strano. Sherlock continuava ad imputare la colpa alla paternità sopita di John, e non mancava di prenderlo in giro ogni volta che poteva. Ma a John non importava. Non gli importava, e quando ne aveva la possibilità prendeva cibo e coperte e portava tutto a casa di Elliot – quel benedetto ragazzo che aveva il riscaldamento perpetuamente rotto e il frigo costantemente vuoto - e parlavano a lungo. Per lo più era John ad attaccare bottone, naturalmente. Elliot aveva perso l’abitudine di ringraziare, ma John decise saggiamente di non prenderlo come un segno di ingratitudine, ma più come una dimostrazione del fatto che quel ragazzo si stava abituando in fretta alla sua presenza. A volte uscivano. Camminavano senza meta e finivano in posti isolati dove si sedevano, e alternavano lunghi silenzi a conversazioni insensate e perditempo, a cui però nessuno dei due riusciva in alcun modo a rinunciare.
«Ripetilo, se ne hai il coraggio…»
Elliot Alderson sapeva trasformarsi in un bambino di otto anni, quando voleva. E quella ne era la prova: lo fissava con gli occhioni strabuzzanti di un ragazzino pronto a prenderti in giro. John, suo malgrado, a volte non riusciva proprio a dirgli di no, e quindi ripeté: «Mia sorella mi diceva sempre che sembravo un riccio
Elliot si spostò in avanti, e giusto per non rischiare di prendere poco sul serio l’esaminazione in atto tolse le mani dalle tasche della felpa e si sfilò anche il cappuccio con un gesto rapido. Si avvicinò drasticamente al dottore per osservarlo con maggiore attenzione e concluse: «Oh, sì. Proprio un riccio.»
«Beh» replicò John un pochino piccato «tu…sembri un ranocchio!»
Elliot si girò sorpreso, alzando le sopracciglia: somigli ad un ranocchio, una cosa di cui nessuno lo aveva mai accusato prima. «Non sembro un ranocchio…» protestò con poca energia, talmente poca che John non accennò a piantarla con quelle accuse: «Un ranocchietto» puntualizzò.
Gli occhi di Elliot diventarono due pozzi ricolmi della più spiccata confusione, prima che il ragazzo diventasse di un color porpora che John poteva giurare di non aver mai visto prima su nessun essere umano. «Sarebbe un bel soprannome» continuò a provocarlo Watson. «Per niente» sbuffò l’altro, che tornò a mettersi le mani in tasca, imbarazzatissimo. «Perché no? Ranocchietto
«John!»
Elliot aveva imparato a sopportare tutti i lati negativi di John molto prima di quanto avesse mai fatto con chiunque. John aveva imparato a sopportarlo dal primo momento in cui si erano incontrati perché, dopotutto, era abituato a Sherlock. C’era una sorta di armonia. Era strano.
Contrariamente a molti, John sembrava adorare prendersi cura di lui. Come se avesse già dovuto prendersi cura di qualcuno tutta la vita, come una mamma già abituata e rassegnata al trambusto che i suoi piccoli sanno provocare, ma che lo accetta a braccia aperte pur di averli con sé. John sembrava proprio questo: sembrava una persona con una vocazione paterna, già nata per prendersi cura di qualcuno, già abituata a farlo. Era così strano che non avesse figli, ad Elliot sembrava impossibile. John – in sua compagnia, per lo meno – si muoveva come un papà, si prendeva cura di lui come un papà, respirava come un papà. Cominciò a domandarsi se per caso non l’avesse hackerato bene come credeva, e qualche informazione gli fosse sfuggita. Magari un divorzio nascosto, qualche figlio o nipote segreto, un passato nascosto altrove, lontano da lì, lontano dai riflettori di internet, lontano dalle sue email e dal suo blog. Ma era impossibile. Tutto rimane, tutto si registra, tutto si scopre. Forse, semplicemente, come si era sempre ripetuto, con John le cose non avevano senso.
 
***
 
«Ti sta dando alla testa.»
Mr.Robot sapeva incutere un certo timore, quando ne aveva voglia. Elliot si fermò, zaino in spalla e sguardo vigile da sotto il cappuccio. Mr.Robot non era seduto. Era in piedi, ben piantato vicino all’ingresso, per far sì che non lo potesse evitare. «Di che stai parlando?»
«Questa storia del dottor Watson.»
«A te cosa importa?» così dicendo passò oltre, senza guardarlo in faccia, e si sistemò alla scrivania, togliendosi lo zaino dalla spalla e poggiandolo. Mr.Robot sospirò sconsolato e incrociò le braccia, guardandolo con apprensione come un genitore preoccupato. Preoccupato e rompiscatole. «Senti, ragazzino…so che ora per te deve essere molto appagante regredire ai dieci anni e farti comprare zucchero filato e orsi di peluche, ma ti stai dimenticando quel è il tuo obiettivo!» allargò le braccia, come a voler indicare l’arcade «Devi dare priorità a questo, al tuo mondo! Non puoi continuare a gingillarti con quel dottore!»
«Gingillarmi..?» ripeté Elliot «…non sto facendo niente di sbagliato! Ho solo…un amico, adesso.»
«Un amico? Tu?»
Faceva fatica a crederci anche lui, ma era così. Avere qualcuno con cui discutere di cose di poco conto e dilungarsi in silenzi benefici era...bello. Nuovo. Entusiasmante, quasi. Era difficile farne a meno una volta che si era entrati nel meccanismo. Elliot si chiedeva continuamente come aveva fatto a finirci e soprattutto perché proprio con John, però finiva per dirsi che era una cosa bella, ma marginale ed innocente, che non avrebbe cambiato nulla del suo modo di vivere e di essere, nulla di ciò che sapeva di dover fare. Quindi ignorò Mr.Robot e, messe le mani sulla tastiera, si mise al lavoro. Ma l’uomo, imperterrito, gli rivolse un ultimo monito: «Farai meglio a tornare indietro sui tuoi passi, ragazzo, davvero.»
Elliot non ebbe la forza d’animo né la volontà sufficienti per continuare quella conversazione.
 
***
A parecchie fermate di metropolitana da lì, al 221b di Baker Street, la situazione non si poteva dire altrettanto tranquilla. Il marasma conflittuale in atto tra i due coinquilini in quella casa non era una novità per nessuno, ma questa volta sembrava particolarmente più estenuante.
«Ma insomma, si può sapere cosa vuoi da me, Sherlock?»
John si muoveva in cucina, nervosamente, mentre Sherlock, dalla sua poltrona, esibì una smorfia infantile troppo poco celata. «Ti ho mandato tre messaggi. Ci hai messo quaranta minuti ad arrivare. Quarantatré, per la precisione.»
John sapeva, sapeva benissimo che unirsi a Sherlock Holmes non era troppo diverso che unirsi all’esercito, che il consulente detective contava su di lui più di quanto volesse far credere e che – tra le altre cose – poteva trasformarsi in un bambino capriccioso se non si faceva ogni cosa come lui richiedeva. E sì, era arrivato in ritardo sulla scena del crimine e sì, accidenti, era riuscito a far preoccupare Sherlock Holmes, cosa che era sembrata risultare impossibile per chiunque.
«Ti ho già detto che mi dispiace almeno dieci volte!»
«Solo nove» lo corresse Sherlock  in tono acido e arricciando il naso – e poi si alzò di slancio, riabbottonandosi la giacca con gesto fluido, impeccabile come al solito. «Credevo che il nostro lavoro avesse un significato, per te.»
«Lo ha!» si difese John, sull’orlo dell’esasperazione «ti assicuro che lo ha! Ma ero dall’altra parte della città con Elliot!»
«E perché, di grazia?»
«Perché-» esitò, guardando in basso. Non era esattamente una giustificazione inappuntabile, ma non aveva altro «…perché gli ho offerto dei pancakes.»
Sherlock non ebbe nemmeno bisogno di alzare gli occhi al cielo o commentare quella frase, bastò una singola occhiata affilata e un «Oh mio Dio» affinché John capisse in che guaio si era infilato.«John» continuò Holmes senza nemmeno lasciargli il tempo di aggiungere altro «ricordati solo una cosa: Elliot non è tuo figlio.»  
«Lo so» lo interruppe il medico chiudendo gli occhi per un momento, come se avesse dovuto acquisire quella consapevolezza dolorosamente «lo so, ho solo…cercato di aiutare.»
Sherlock continuò a guardarlo, stoico nella sua posizione, occhi penetranti e come al solito lo leggeva e lo comprendeva. «Farai meglio a tornare indietro al più presto» concluse.
 
***
 
C’erano giorni che Elliot e John passavano come fossero gli ultimi che avrebbero passato insieme. In silenzio, su una panchina, uno distante dall’altro. Elliot faceva domande complicate a cui John forniva risposte fin troppo semplici, così semplici che non le capiva minimamente. «Se questo fosse il tuo ultimo giorno» cominciò Elliot quel pomeriggio soleggiato su quella panchina al parco «se potessi vivere solo oggi, cosa faresti? Cosa ne faresti del tempo che ti rimane?» John arricciò le labbra. Si sentiva sempre messo alla prova da quel ragazzo, ma non aveva paura. Elliot gli lasciava tutto il tempo che voleva per rispondere, che fossero cinque minuti o un’ora, in un silenzio confortante che cullava i suoi pensieri fino a raggiungere una risposta che gli sembrava la verità. Non infarciva mai i discorsi con Elliot, non li arricchiva o rendeva più complicati. Sparava la completa verità per quanto sciocca e banale potesse essere: «Lo passerei con le persone che amo.»
Non si guardarono, non ce n’era bisogno. Elliot lo sapeva fin troppo bene, anche senza girarsi: John aveva uno sguardo sincero e limpido che era sempre lì, non l’aveva mai deluso.
«Così semplice?»
«Credo mangerei il mio piatto preferito e poi un bel dolce. E poi mi farei una corsa. L’ultima corsa per Londra con Sherlock…» confessò poi il dottore lasciando vagare lo sguardo.
«Molto semplice…»  Elliot si strinse nelle spalle ma sorrise perché, davvero, non capiva quell’uomo, non lo capiva neanche un po’. Ma era un ‘non capire’ diverso dalla confusione e dal sentirsi perduti che infestavano sistematicamente il suo cervello, erano incomprensioni che lo rendevano più fiducioso e comprensivo nei confronti del mondo che in quelle occasioni gli sembrava un po’ meno fottuto. John era genuino, nonostante vivesse nell’illusione di essere normale, non voleva fingere…non voleva sedarsi. John era avido di verità. Non voleva non farsi male, non voleva evitare il dolore: voleva vedere tutto, tutto. Nella sua immensa bontà e limpidezza ogni ruga di lui, ogni sguardo buono, sembrava gridare di voler vedere tutto il male del mondo per capirlo e fare qualcosa a riguardo. Guerra, sofferenza. Se qualcosa doveva distruggerlo, allora non lo evitava, si metteva esattamente sulla traiettoria della batosta. Si piegava, John Watson, ma non si spezzava, non si spezzava di fronte a niente, e nel farlo riusciva anche a cercare di aiutare tutti quelli che incrociava sul suo cammino. Non sempre la cosa era un successo, ma John ci provava, ci provava sul serio, e con tutte le sue forze. E Elliot non capiva come e neppure perché. Ma gli piaceva.  «E tu?» John lo fece ridestare «come spenderesti l’ultimo giorno della tua vita?»
Il ragazzo ci pensò un po’ su, ma John era molto più impaziente di lui, e presto si girò a guardarlo con quel blu dolce nello sguardo, carico di aspettativa. Elliot non lo sapeva, così alla fine improvvisò con la prima cosa che gli venne in mente: «Credo mi piacerebbe rimanere qua seduto.»




 

 



 

Note della povera pazza. Quindi, abbiamo un capitolo di intramezzo. Uno di quelli in cui effettivamente non succede una cippa, e capisco che visto che ci sto mettendo una vita ad aggiornare non sia il massimo inserirlo, ma a noi il fluff piace, giusto? Comunque, dal prossimo capitolo la trama comincia a farsi un po' più seria e ad infittirsi. Arrivano le sorprese, chiamiamole così. Ringrazio come al solito Martina per le ruolate che mi danno un milione di spunti, e sopratutto chiunque abbia deciso di seguirmi alla volta di questa follia. Scusate se ci sto mettendo parecchio, ma purtroppo i dannati esami bussano alla mia porta. E niente, sentitevi liberi di chiedere come e perché e sarò felice di rispondervi! Grazie infinite a chi ha letto fin qui! Riposo.

  
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