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Autore: frown    12/07/2017    1 recensioni
Elle ha solo diciannove anni ma si divide tra amici dalle personalità estrose, serate alcoliche da sobria e una sorella maggiore petulante che non ha la minima idea di cosa siano la privacy o lo spazio personale e sembra ottenere comunque tutto ciò che lei ha sempre voluto.
In tutto questo capitano casualmente Andreas e Lysander.
Tra pensieri incoerenti di un cervello esausto, Elle capirà che ciò che ha sempre desiderato l'ha sempre avuto di fronte e, nonostante tutto e tutti, lei può ancora prenderselo quando vuole.
"Ho diciannove anni, pochi spiccioli per le sigarette, gli occhi stanchi, le labbra screpolate, qualche sogno irrealizzabile, ma non ho te"
"Non te ne rendi proprio conto? Sai quanto fanno male le tue parole? E i condizionali passati? Ma non lo senti il dolore fragile in 'Saremmo stati'?"
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Cocoa butter kisses 
(7).

Still the wrong time.


 






Avevo sempre adorato spazzolare per ore i miei lunghi, scuri e ondulati capelli: mi ricordava quel piccolo momento di felicità che mia madre mi dedicava ogni mattina, da bambina.
Negli ultimi tempi, però, avevo dovuto ridurre drasticamente quel rituale così gradevole poiché Giselle, con la quale dividevo il bagno, si metteva a battere i piedi, strillando che quella era anche casa sua e che io non avevo il diritto di farmi i miei comodi, dato che il diritto di precedenza nell’uso del bagno apparteneva a lei, la regina della casa.
Quella mattina, perciò, per non sentire le urla dell’altra, avevo ben pensato di pettinarmi in quella che era stata adibita a studio, ma che in passato era stata una stireria: una stanzetta piccola e angusta che avevo cercato di rendere il più vivibile e accogliente possibile con i pochi soldi che avanzavano dalle spese mensili.
L’unico lusso che vantava era un paravento in seta persiana, decorato con motivi floreali, appartenuto a chissà chi ed acquistato per una sciocchezza da Jim Borrow, un camionista che guidava furgoni da trasloco che si poteva tenere tutto ciò che i proprietari non desideravano trasferire.
Fatto sta, che dietro al paravento, c’era un vecchio specchio e una vecchia poltrona trascinata dal soggiorno.
Lì avrei riniziato la mia routine e riflettuto sulla piega che stava prendendo la mia vita.
Non buona, pensai banalmente, riflettendo su Andreas. Ogni notte riaccompagnava a casa Giselle, poi sul pianerottolo le dava il bacio della buonanotte e mi sentivo rodere tutti gli organi interni, osservandoli dallo spionicino.



Andreas, un paio di settimane dopo il nostro ombroso litigio, si appostò sotto casa mia, senza alcun avvertimento.
Quando lo incrociai davanti al portone, con il mio giornale in mano e un sorriso incerto sul volto, capii immediatamente che non cercava Giselle. Cercava me.
“Che vuoi?” partii subito in medias res, per evitare giri di parole.
Andreas balbettò qualcosa in una lingua a me incomprensibile.
“Che stai dicendo?” gracidai, non intenzionata a perdere altro tempo.
Andreas, intrappolato in una felpa sportiva senza cappuccio, tese una mano verso il mio viso, intenzionato a sfiorarmi la guancia destra. Mi scostai prima che mi toccasse e con un gesto rude scacciai via la sua mano con la mia.
Andreas la ritirò via scottato. “Sei la mia migliore amica” tentò, pallido e sconvolto. Non si aspettava una presa di posizione come quella.
Lo guardai in volto, rattristita e depressa. Ero così innamorata di lui che mi doleva ogni muscolo o osso solo a guardarlo.
Mi stava difronte in piedi e io mi domandavo come facesse. Non sentiva le gambe tremare e le mani prudere? Gli occhi pungere e la testa girare?
No, lui era lì, in piedi e a suo agio come se non avesse alcun grillo per la testa e anziché baciarlo, desideravo solo schiaffeggiarlo forte.
“Lo so” replicai senza battere ciglio e feci per andarmene, non calcolando il suo piede. Inciampai.
“Stai attenta” m’avvisò un attimo prima di prendermi la vita con entrambe le mani e spostarla di peso per quasi mezzo metro, salvandomi dallo scontro con il vialetto.
Quella presa improvvisa, forte e determinata sui fianchi, fu l’equivalente di una scossa elettrica presa da una presa quando si è a piedi nudi e con i capelli bagnati. M’aggrappai immediatamente ai suoi avambracci sperando che Andreas continuasse a sorreggermi almeno finché le mie facoltà mentali non avrebbero ripreso il corretto funzionamento.
“Grazie” riuscii a dire timidamente e tremolante.
Il fatto che continuasse a gravitarmi attorno come un pianeta attorno al Sole, non faceva altro se non rendermi più frustrata.
Nella mia mente si divaricavano due strade; una mi faceva sperare che tenesse a me in modo intenso e profondo, l'altra mi avvisava che lo faceva solo per mia sorella.
E ciò mi rendeva sempre più miserabile.
Andreas sospirò sorridendo. “Sei proprio maldestra” grugnì.
Arrossii violentemente, prima di schiarirmi la voce e staccarmi lentamente da lui. Pensai al nostro primo abbraccio e alle nostre prime carezze, con i movimenti scoordinati al nostro respiro pesante nel garage polveroso e buio, abbastanza buio da non vederci arrossire e tremare.
“Mi piacerebbe pensare a cosa stai pensando” disse. Il tono ironico mi diede un capogiro.
“N-Nulla” farfugliai.
Andreas mi mise una mano sulla schiena e mi guidò via, percorrendo il marciapiede con un passo leggero tipicamente suo.
“Rilassati. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto” e detto ciò, Andreas sfilò dalla tracolla beige che portava alla spalla un foulard che riconobbi come mio. Prima che potessi fiatare me lo legò intorno al capo, comprendomi gli occhi e privandomi di un senso fondamentale: la vista.
“Fidati di me e lasciati guidare” mormorò. Mi prese per mano ed iniziò a correre.
Quella situazione era così ridicola che iniziai a ridere sommessamente e a seguirlo nella sua corsa cieca. Più cieca anche della mia.
Le gambe si muovevano fluide in un percorso che non conoscevano, ma anziché essere titubanti, erano più eletrizzate e temerarie di quanto mi aspettassi.
Corremmo finché Andreas non mi fermò ed iniziò a scendere delle scale che riconobbi come quelle della metropolitana. Mi fece scavalcare il tornello della metro tra le risate e gli insulti biascicati dalla mia bocca impastata e ansante.
Andreas non la finiva più di ridere. Quando salimmo in metro, mi sentii sballottata un po’ ovunque, nonostante il mio accompagnatore incline all’ilarità avesse poggiato la mano su una superficie d’appoggio. Sentii un violinista iniziare a suonare il suo strumento interpretando una canzone di Taylor Swift di cui non ricordavo né il testo né il titolo.
Quando la metro partii, rischiai di cadere all’indietro, tuttavia anziché incontrare il suolo, finii addosso a una persona. Una donna giovane a giudicare dall’odore, dalla presa e dalle risatine. Mugugnai qualcosa prima di percepii Andreas allungare le braccia muscolose verso di me fino ad acchiapparmi e a strapparmi dalle braccia della donna, accompagnando il movimento da un ringraziamento con tono di scuse.
Mi avvolse con entrambe le braccia e mi tastò quando sentii le mie ossa tendersi sotto alla pelle. Andreas, forte di un istinto protettivo nei miei confronti, mi strinse ancor di più contro il proprio petto, prima di poggiare il mento sulla mia testa.
Mi agitai tra le sue braccia finché non mi accorsi che fosse inutile e troppo esausta per la corsa folle, finii per raggomitolarmi meglio contro il suo petto ed aspirare a piene narici l’odore del suo corpo che mi era tanto mancato. Chiusi gli occhi sotto il foulard, cullata dal suo respiro cadenzato e riscaldata dalle sue braccia.
Bastò quello a farmi sentire al sicuro.
Cullata dal suo abbraccio amorevole non mi accorsi della frenata della metropolitana e del movimento percettibile del corpo di Andreas che si staccava dolorosamente dal mio, per poi guidarmi fuori dal vagone.
“Andreas” rantolai, mentre salivamo le scale per riemergere dalla stazione sotterranea. “Andreas” ripetei stremata.
Quando dieci minuti dopo, mi sentii trascinare in una casa, iniziai a far quadrare i conti. Andreas maneggiò con le chiavi per un po', prima di spingermi qua e là per un ambiente un po' più caldo.
Finalmente arrivammo a sederci su una superficie bassa, che ricordava un materasso vecchio.
Quando finalmente sentii le mani calde, in silenzio, tirarmi un poco i capelli, cercando maldestramente di estrarmi il foulard che mi bendava gli occhi, compresi che Andreas mi stava liberando il quinto senso che iniziava a mancarmi dannatamente.
“An-Andreas” sbuffai quando finalmente compresi di essere nel garage umido di casa sua. Una villetta a schiera simile a tante altre in cui si ritirava quando si stufava della vita in compagnia di amici rumorosi e Lysander. La condivideva con una cugina di trentanni circa, che spuntava fuori ogni tanto – seccandolo oltre modo. Tuttavia, avendo passato l'adolescenza a guardare film di fantascienza in quel sudicio garage che odorava di benzina e spray per ambiente alla menta, quel posto lo faceva sentire bene e al sicuro. Il suo angolo.
Dopo aver impostato su una radio dell'anteguerra una canzonetta jazz, tornò a sedersi accanto a me, inginocchiandosi e poggiando le mani sul materasso che affondò un poco sotto al peso. “Elena” snocciolò in una cantilena che aveva un che di erotico.
Non mi girai nemmeno a guardarlo, turbata dalla vicinanza ed arrossendo come una ragazzina.
“Elena, Elena, Elena” canticchiò finché non mi girai. “Sei l'unica persona che ho portato nel mio bunker. Io... Io ti voglio bene da morire e non voglio che tu sia arrabbiata con me” sputò fuori con un'audacia che non gli apparteneva, socchiudendo gli occhi quando si sentiva pronunciare frasi che si era sicuramente preparato mille volte davanti allo specchio del bagno, conoscendolo.
“Andreas, smettila di fare l'idiota. Non sono arrabbiata con te, sono solo ferita” confessai senza imbarazzo, gettando l'occhio sulla radio che funzionava ancora per miracolo.
Il garage puzzava di muffa e ogni oggetto lì presente sembrava urlare “stantio!” a mo' di accusa.
Il materasso consunto era sempre umidiccio, perciò di solito c'era coricato sopra un buffo piumone dei Pokémon.
Andreas scosse la testa quasi con stizza. “No, tu ti senti trascurata” spiegò, puntando uno sguardo maligno nei miei occhi confusi.
Quasi risi per la situazione ridicola. “Sei patetico” puntualizzai, stizzita e disturbata da quelle considerazioni gratuite.
“Puoi ferirmi se vuoi, non devi temere il freddo che ti si staglia dentro” mi accarezzò con la voce e con lo sguardo con una tenerezza quasi paterna, non curandosi di come quelle parole mi facessero stare.
“E' solo l'inverno” cercai di minimizzare, fissandomi le unghie prive di smalto e poi la punta delle scarpe.
“Non è l'inverno, Elle” sbottò. “Io posso amare sia te che Giselle in egual modo” disse senza esitazione.
Strizzai gli occhi incredula per la confessione sciocca. “Che paraculo!” starnazzai scoppiando a ridere istericamente.
“Io ti amo a metà, l'altra metà va a Giselle” continuò in tono polemico.
“Taci” lo zittii. “Non so cosa significhi amare la gente a metà, non è nella mia natura. Il mio affetto è sempre eccessivo ed ingombrante, quasi soffocante! Tu non ne hai bisogno, Andreas. Tu hai Giselle” esclamai indignata.
Cos’era quella storia? Mi offriva delle briciole?
Non mi sarei accontentata ancora, non quella volta.
Lo guardai, dritto negli occhi: è finita, non posso crederci.
 Neanche il tempo di realizzarlo che Andreas mi si gettò addosso facendomi cadere di schiena sul materasso sottile.
Calore. Fu quella la prima sensazione che riuscii a captare. Calore.
Era un calore insinuante; e le mani bianche di Andreas mi tenevano inchiodata a terra per le braccia, con la frenesia di chi cerca di trattenere qualcosa che potrebbe volar via da un momento all’altro. Il materasso senza rivistimento mi pungeva la guancia, la schiena: era ispido, ma non tanto quanto la barba di Ricci, che le sembrava arrivasse dappertutto. 
Se non fosse stato il ragazzo che conoscevo, avrei pensato mi stesse per baciare e poi picchiare. “Taci tu!” sbraitò con i denti digrignati e la fronte aggrottata. Non si preoccupò di schiacciarmi con il suo peso o di mettermi in difficoltà, si chinò e mi baciò il collo dove un neo macchiava la mia pelle chiara. “Sei un insieme di contraddizioni e insicurezze” deglutì, abbassando lo sguardo per un secondo. “Un insieme di contraddizioni e insicurezze che mi piace da morire, quindi taci” e mi baciò di nuovo sullo stesso punto scottante.
Ogni millimetro toccato dalle sue labbra diventava una zona erogena mai scoperta. Quella situazione mi ricordò una trincea della Grande Guerra. Ero in trappola, lo ero sempre stata con lui.
Quando si chinò per la terza volta, sembrava puntare a un altro punto del mio corpo, guardava il mio viso con gli occhi languidi e liquidi – disperato e confuso, dall’aspetto completamente stropicciato, finché la tasca dei suoi jeans non iniziò a vibrare e la sua canzone preferita a suonare.
Si staccò da me, come ripreso da uno stato di trance, e rispose al cellulare senza guardare nemmeno chi fosse il mittente della chiamata. “Pronto?”
Un paio di parole lo fecero arrabbiare e stressare in pochi secondi. “Arrivo” disse infine e riattaccò.
Mi guardò quasi intenerito, mi accarezzò una guancia e mi sorrise per una frazione di secondo. “Dannazione” ruggì un secondo più tardi, quasi ricordandosi di non avere tempo per quelle smancerie. Smancerie tra amici? Gli amici facevano cose così?
Si alzò completamente dal mio corpo e mi tese una mano. “Vieni con me? Non sarà divertente” domandò teso e scalfito.
Risi amaramente. “Cosa lo è?”
 
 
 
 
Capii che qualcosa non andava quando ci ritrovammo sul pianerottolo di casa sua – quella che frequentava per davvero, regolarmente.
Stavamo salendo l'ultima rampa di scale del suo condominio quando Rhett e Jonathan ci urlarono di muoverci con tono poco garbato e con locuzioni poco amichevoli.
Arrivati al pianerottolo, Rhett mi salutò rivolgendomi uno sguardo confuso e un abbraccio intimo e Jonathan con poche cerimonie.
“L'ha fatto di nuovo” iniziò quest'ultimo. Non seguii il discorso, captai le parole che mi bastavano. “Botte”, “Soluzione”, “Deve smetterla”, “Ubriaco”,...
Quando compresi il fattaccio, senza chiedere il permesso entrai in casa. Percorsi il soggiorno disordinatamente cosparso da libri di testo e avanzi di cibo d'asporto, gettai un'occhiata al lavello della cucina carico di stoviglie da pulire e mi avviai per il corridoio dove tre stanze e il bagno si fronteggiavano.
Mi avvicinai alla stanza che mi ispirava di più a livello istintivo, ritenni perciò che quella dovesse essere quella corretta. Difronte alla toilette, la porta socchiusa mi sorrideva maliziosa caricandomi dicuriosità. Raggiunsi la stanza trascinando i piedi sul pavimento come un condannato a morte.
Mi affacciai, inclinandomi per sbirciare all'interno della camera di Lysander.
Lui era lì, sdraiato in una posizione scomoda e che mi permetteva di fissarlo senza che lui se ne accorgesse. Se non l'avessi visto muoversi appena, con i suoi respiri profondi, avrei giurato che fosse morto.
“Sei inquietante” borbottò lui e piegò le labbra in un sorriso quando aprì gli occhi giusto in tempo per vedermi sobbalzare spaventata.
“Hm?” biascicai, con il cuore che scalpitava, le mani che sudavano e le guance infiammate per l'imbarazzo di essere stata colta a spiarlo come una maniaca.
Non ebbi nemmeno il tempo per chiedermi come avesse fatto, che lui sbuffò.
“E' inquietante” ripeté. “Il modo il cui mi hai guardato negli ultimi minuti” si sforzò di aggiungere e specificare.
“Volevo vedere come stavi, tutto qui”
“Da lontano?” ghignò, senza alzare il volto sprofondato per metà nel cuscino.
“Non sapevo di avere il permesso di entrare” risposi, gettando finalmente un'occhiata alla stanza.
“Perché no?” domandò. “Non nascondo nessun cadavere” specificò. “Non qui almeno” concluse e scoppiò a ridere per l'espressione allibita che esibii.
Lo ignorai. “Come stai?”
“Al solito. Non è successo nulla di che, sono sobrio e cosciente delle mie azioni, non mi pento di nulla” snocciolò tranquillamente.
Non trovando una risposta adeguata da dargli, sospirai teatralmente e allungandomi leggermente oltre alla soglia, sbirciai all'interno di quelle quattro mura. Quella era senza ombra di dubbio la stanza più confusionaria nella casa, nonostante non presentasse scatole di riso cinese come il soggiorno. Quest’ultimo, infatti, sembrava essere stato arredato in modo asettico e tutti i cuscini erano ordinati e lisci come se in quel soggiorno nessuno si sedesse sul divano. Quella stanza era vissuta e tutto in lei lo gridava.
Una parete interna ospitava una serie di scaffali di legno che contenevano un ammasso informe di libri, dischi e vinili di musica classica. Sulle altre tre pareti si susseguivano poster e vecchie fotografie, locandine di vecchi film. Notai un posacenere di cristallo pieno di cicche sul davanzale della finestra, il letto in un angolo con sopra un semplice piumone leggero e celeste. E poi matite, pastelli, acquarelli e pennarelli. Delle tempere e una tavolozza erano lasciati sul tappetto colorato che ricordava un quadro di Matisse e poi, una tela appoggiata al muro, disegni sparsi sulle ante dell'armadio, scarpe sotto alla finestra e una scrivania inondata da fotocopie pinzate tra loro e fogli svolazzanti. Le fotografie di polaroid sparse qu e là  mi incuriosivano quanto le locandine dei lungometraggi di Fellini e Quentin Tarantino.
La sua voce mi risvegliò quasi in modo violento, nonostante il tono basso e piatto. “Hai finito la tua ispezione?”
Azzittii i miei pensieri e strinsi i pugni delle mie mani fredde. “I ragazzi sono molto preoccupati per te”
“Non devono” esalò in un fiato, poi si fece forza sui gomiti e si tirò su il busto. “Come stai?”
“Credo bene” risposi. “Andreas oggi mi ha rapita” gli raccontai, sorridendogli come una bambina.
Lysander rise scocciato. “Non è rapimento se sei consenziente” mi rimproverò agitando le mani e sorridendo al soffitto.
“Non lo ero, infatti” confessai, allargando il sorriso e mostrando un sacco di denti. “Non lo sono mai con lui” aggiunsi con un filo di voce.
Lysander mi guardò in tralice, prima di sbuffare. “Non stai bene” e lo disse con un'aggressività che trovai ilare.
Infatti risi. “Grazie!” esordii sarcastica.
“Elena” mi richiamò serio. “Stare bene non è un desiderio, è un'opportunità” mi informò con fare saccente.
Sorrisi al vuoto. “Questa di chi è?”
“Lysander Warhol LaFayette, un brav'uomo” si elogiò.
Scoppiai a ridere e coprii il mio sorriso troppo ampio con il palmo della mano. Mia madre mi diceva di coprire sempre la bocca quando si sorrideva in quel modo, è da arroganti e da sciocchi mostrare la felicità al caso, poi farà di tutto per portarvela via.
Stavo per riaprire bocca quando una mano si poggiò sulla mia schiena e mi superò entrando nella stanza. Quel capolavoro di stanza.
Andreas si piazzò in mezzo a quel capolavoro e guardò il capolavoro sul letto. “Contento ora che anche Elena ti ha fatto una ramanzina?” domandò in tono polemico.
Aveva sentito le risate e ci aveva raggiunti attratto da queste, come una falena.
“Non me l'ha fatta, in realtà” brontolò seccato Lysander ed esibì un falso broncio che mi fece sorridere spontaneamente.
“Non ne vedo la necessità” replicai guardando il ragazzo che amavo alzare gli occhi al cielo con stizza.
Non sembrava affatto felice, anzi.
Andreas si portò le mani ai fianchi come una madre apprensiva. “Vi siete messi d'accordo?” domandò retoricamente.
Non sembrava ironico e infatti ripartì alla carica. “Siete una gran bella coppia” grugnì arrabbiato senza evidente motivo.
Lysander corrugò la fronte. “Già, Thelma e Louise”.
Ridacchiai e Andreas mi fulminò, le sue pupille si restrinsero, suggerendomi che quello che sarebbe successo non mi sarebbe piaciuto affatto. “Tu” e si girò in direzione di Lysander “sei un adulto che crede ancora che fare a botte serva a qualcosa” sussurrò adirato. Poi si rivolse a me. “E tu” mugugnò indicandomi. “Tu, Elena, tu. Ti credi perfetta, per caso? Non lo sei, carina. Anzi no, sei carina. Molto carina fisicamente, bella. Ma come puoi essere una bella persona se non aiuti tua sorella nel momento del bisogno? E hai anche la presunzione di crederti comunque tanto migliore di lei” terminò con la rabbia tenue che ferisce più delle urla.
Lo guardai attonita, che razza di discorso era quello?
Avrei preferito mi avesse colpita. Avrei avuto – almeno – una parte lesa da stringere, ma quelle parole avevano solo il sapore del sangue, sangue che schizzava fuori a spruzzi, dal mio cuore calpestato, a brandelli. Boccheggiai senza emettere alcun suono. Annaspai. Ancora e ancora.
Lysander si tirò a sedere con uno scatto felino e con lo sguardo che ricordava quello di un lupo, si rivolse all’amico. “Grazie Andreas delle tue futili opinioni, ora puoi lasciare la mia stanza” gli ordinò con sufficienza, scacciandolo con un gesto seccato della mano.
Mi guardai attorno, non sapendo dove poggiare lo sguardo e mi strinsi nelle spalle. “Forse dovrei andar-”
Andreas mi interruppe, si allungò afferrandomi per la manica del cappotto e mi tirò al centro della stanza. Quasi inciampai, sotto lo sguardo sottile e attento di Lysander.
“Non mi interessa dei tuoi comportamenti auto-distruttivi, Lysander. Qui si parla di Elena e della mia fidanzata” sbottò il mio aguzzino. “Io la amo e non voglio che si rovini la vita per colpa sua” continuò, il tono inspiegabilmente amaro. Dove era finito l'amore diviso a metà?
“Ma quando ti ricapita di stare zitto e smetterla di prendere opinioni in affitto?” gli chiese Lysander fissandolo negli occhi senza alcun bisogno di urlare.
Andreas alzava sempre la voce quando era arrabbiato, ti faceva rabbrividire. Lysander sussurrava come una vipera e questo ti faceva tremare. Tanto.
Ma quella volta nel suo tono, lo sdegno non era rivolto a me, ma ad Andreas. Lysander mi stava difendendo.
La sua voce era come il tepore di una coperta o un fuoco caldo e una tazza di latte dolce: tutto insieme.
Andreas ruggì invece. “Cosa stai dicendo?!”
“Sto dicendo che farti lobotomizzare da una lobotomizzata è il colmo” insinuò Lysander con stizza, la sua voce era piena di un qualcosa tra il disprezzo e lo sbalordiment.
“Giselle... Giselle non mi ha lobotomizzato” deglutì Andreas stancamente.
Lysander si alzò in piedi. Indossava i pantaloni di una tuta grigia e una t-shirt bianca che aveva sicuramente visto tempi migliori.
Si diresse verso l’amico e non si fermò finché non gli fu a tre spanne di distanza. “E' carino che tu non metta in dubbio invece che lei lo si sia” fece poi, per nulla risentito.
Andreas lo guardò sbalordito. “Lysander... Non voglio litigare con te e-” gesticolò convulsamente.
“Allora, lasciaci in pace” ruggì infine il giovane Warhol LaFayette, spingendo lentamente Andreas fuori dalla stanza. Quest’ultimo non ebbe nemmeno il tempo di reagire, che Lysander gli sbatté la porta in faccia.
 
 
 
 
Sentii il cuore danzarmi in gola eseguendo un giro mortifero di tiptap. Alla fine, esalai : “Lui… è geloso”.
Lysander s’avvicinò e mi ravviò una ciocca dietro la conchiglia bianca di un orecchio, spingendomi con garbo a guardarlo. Compresi immediatamente  che quella spiegazione era insufficiente, e che lui comprendeva perfettamente come non fosse semplice gelosia della mia persona quello che mi aveva turbata così tanto. Quindi, ripresi. “Stava… Stava per baciarmi oggi, Lysander” tentai di spiegare, non sfuggendo al suo sguardo circospetto.
“So che potrò sembrarti matta, ma io credo di piacergli” esalai indicando il punto in cui qualche ora fa mi aveva baciato.
Lysander guardò il punto del collo che stavo indicando senza capire.
“Mi ha baciata qui” spiegai con un filo di voce. “Io gli piaccio…”
Un silenzio denso e col tanfo di parole inespresse ci abbracciò, inglobandoci nel suo tepore denso di sicurezza.
Parlai io per prima.  “Se gli piaccio, perché deve sempre spezzarmi?” scoppiai a piangere.
Mi misi seduta, abbracciandomi le ginocchia e appoggiandovi la testa. Chiusi gli occhi, sentendo lo sfinimento emotivo colpirmi all’improvviso, inchiodandomi le membra al suolo. 
Il peso della mano di Lysander sulla spalla era discreto, e consolante: all’improvviso, mi resi conto di non aver raccontato a nessuno – nemmeno a Lola – quello che stava accadendo tra me ed Andreas. Avevo un degenerato bisogno di sfogarmi. Ma non con Lysander. Non nella sua stanza. Non adesso.
Emisi un suono simile a un singulto, cercando una parola che non arrivò. 
“Non voglio farti la morale, Elena. Spero solo che tu sappia che ricambiare quel bacio non sarebbe stato giusto” domandò, ma la sua voce aveva un accenno amaro.
Sorrisi stanca. “Cos’è giusto in questa faccenda?” chiesi retoricamente. “Niente. E’ tutto sbagliato, vorrei solo togliermelo dalla testa” soffiai.
Lysander si alzò improvvisamente, di scatto, e si diresse alla scrivania. Lo osservai allontanarsi, chiedendomi se l’avessi offeso, e in che modo: poi mi accorsi che cercava qualcosa in un cassetto della scrivania. Ne emerse una fiaschetta d’argento. “Non credo tu voglia davvero dimenticarlo, ci tieni troppo” disse cupo.
Lo vide riempire due tazze scompagnate con qualche dito di liquore e portargliene una, prima di risiedersi nuovamente al proprio posto, accanto a lei.
“Ti ricordi che io non posso…” inziai, indicando con lo sguardo il bicchiere che stavo stringendo.
Lysander bevve un generoso sorso del suo bicchiere, terminandone il contenuto. “Infatti, è per me anche quello” brontolò e me lo sgraffignò dalle mani, per fargli fare la stessa fine del precedente.
 
 
   
 
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