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Autore: Signorina Granger    22/07/2017    7 recensioni
INTERATTIVA || Conclusa
Vienna: la Città dei Sogni.
La capitale austriaca è però anche l'emblema mondiale della musica classica, e per questo è qui che ha luogo, ogni tre anni, un concorso per i più promettenti giovani musicisti europei, da poco diplomati ad Hogwarts, Durmstrang o Beauxbatons.
Un concorso che avrà termine con il Concerto d'Inverno al Teatro dell'Opera e che segnerà la vittoria di tre tra questi aspiranti musicisti...
Vienna è la Città dei Sogni, ma solo alcuni vedranno il loro realizzarsi.
- Questa storia, con il permesso dell'autrice, prende ispirazione da 'House of Memories' di Slytherin2806 -
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Maghi fanfiction interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Epilogo

 

 

Londra

 

“Mi hanno detto che di recente mangi e parli di più… mi fa piacere sentire che stai meglio. Sei più uscita fuori? Credo che ti farebbe bene.” 

Eleanor sorrise leggermente, sfiorando con le dita le foglie della piantina sistemata sul davanzale della finestra davanti alla quale, come sempre, sua madre si era seduta. 

La donna non rispose ma almeno annuì con un lieve cenno del capo, continuando a tenere gli occhi puntati sul vetro della finestra, osservando la grande metropoli. 

 

“Se vuoi posso portarti a fare una passeggiata, credo che non ci sarebbero problemi. Può venire anche la zia, è proprio qui fuori.” 

 

Eleanor continuò a guardare la madre, osservandola attentamente per cercare una sua qualunque reazione: aveva passato molto tempo a parlare con lei senza ottenere il minimo feedback, ma almeno di recente aveva cominciato a dare segni di sentire quello che diceva. 

 

Sua madre guardava sempre fuori dalla finestra quando andava a trovarla, quasi come se fosse consapevole della vita che scorreva davanti a lei nella frenetica Londra, vita che lei si stava perdendo chiusa in quella stanza, seduta su quella sedia. 

Era la prima volta in cui andava a trovarla da quando era tornata in Inghilterra, aveva rimandato quel momento per alcuni giorni forse anche per paura, non sapendo che cosa sarebbe successo quando si sarebbero incontrate nuovamente: sua madre avrebbe continuato a non dare segni di accorgersi della sua presenza o finalmente si sarebbe ricordata di avere una figlia? 

 

Non ottenendo alcuna risposta l’ex Tassorosso sospirò e fece per allontanarsi dalla finestra e dalla madre, ma si bloccò quando sentì finalmente la sua voce:

 

“Sono felice di vederti. Sei stata via a lungo.” 

 

Le labbra di Eleanor si inclinarono in un sorriso sentendo la voce della donna, che si voltò anche verso di lei per guardarla finalmente in faccia. Era da molto tempo che non le si rivolgeva direttamente se non con qualche monosillabo appena borbottato. 

 

“Io… si, sono stata in Austria. Per suonare. È stato bello, ma sono felice di essere tornata. Vuoi che ti racconti com’è andata?” 

 

Quando la madre annuì la ragazza non se lo fece ripetere due volte, affrettandosi a sedersi di fronte a lei senza smettere di sorridere, trattenendosi dall’abbracciarla. 

Non ricordava nemmeno quando aveva avuto un vera conversazione con sua madre per l’ultima volta… forse stare via per qualche settimana era davvero servito ad entrambe. 

 

*
 

Lipsia

 

 

“A me piacciono i gigli bianchi… magari potrei farli inserire nel bouquet insieme alle rose. Tu che ne pensi?” 

 

Alla domanda di Veronika Pawel si limitò a roteare gli occhi, continuando a giocherellare con il tovagliolo mentre la fidanzata continuava a spostare l’attenzione da lui alla piccola agenda che teneva in mano:

“Sappiamo che in ogni caso alla fine sarai tu a decidere. Il bouquet è tuo, decidi tu.” 

“D’accordo, dopotutto abbiamo concordato che io scelgo i fiori e tu le bomboniere… ma visto che il matrimonio sarà tutto sul bianco e sul rosso non scegliere niente che abbia a che fare con altri colori, mi raccomando.” 

“Vee, mi stai davvero dicendo queste cose? Sono la persona più pignola del pianeta, faccio attenzione a queste cose… ma già che ci siamo, avrei qualcosa da ridire sulle partecipazioni.” 

 

“Ma le abbiamo scelte insieme giovedì,  cosa c’è che non va?”  La ragazza sospirò, guardandolo quasi con esasperazione mentre il polacco si stringeva nelle spalle: 

 

“Ci hai fatto aggiungere tutti quei fiorellini, e ghirigori… sembra l’invito al Ballo delle Debuttanti.” 

“Esagerato… ma va bene, vorrà dire che farò in modo che siano un po’ più “semplici”.” 

 

Veronika annuì e Pawel sorrise, quasi stupito di averla avuta vinta così facilmente… o almeno finché la fidanzata non parlò di nuovo, abbozzando un sorrisetto:

“Ma visto che siamo in tema di “veti”, potremmo sempre parlare dei centrotavola che hai scelto tu…” 

“Forse pensare di sposarsi è stata una pessima idea.” 

“Che dici, è stata l’idea migliore che tu abbia avuto da quando stiamo insieme, a parte forse quando mi hai chiesto di venire a vivere con te. Infondo me lo hai chiesto tu Pash e ora mi spiace deluderti, non ti puoi tirare indietro.  Guarda, che ne pensi di questa piccola modifica?” 

 

Veronika si alzò dalla sua sedia senza smettere di sorridere, facendo il giro del tavolo per sedersi sulle sue ginocchia. 

“Hai anche fatto il disegno? Fammi capire, ti sei già scritta quello che devi convincermi a cambiare?” 

“Circa… tanto alla fine l’ho sempre vinta io, no?” 

 

Veronika rise mentre lasciava il quadernetto sul tavolo per prendergli il viso tra le mani, guardandolo sbuffare leggermente e roteare gli occhi.

 

“Disgraziatamente…” 

 

“Oh, andiamo, non fare la vittima, non ho da ridire su tutto quello che piace a te… ad esempio la torta che hai scelto mi piace moltissimo. E anche il tuo vestito.” 

“Il mio vestito? Quando accidenti lo avresti visto, il mio vestito?” 

 

“Beh, ho dato una sbirciatina per assicurarmi che stesse bene accanto al mio.” 

 

Veronika sfoggiò un piccolo sorriso angelico per poi scoppiare a ridere di fronte alla faccia del fidanzato, dandogli una bacio a stampo sulle labbra:

 

“Non fare quella faccia… dopotutto tutto questo è soltanto la cornice, l’unica cosa davvero importante quel giorno saremo esclusivamente noi due.” 

 

*

 

San Pietroburgo 

 

“Mi dispiace che tu sia stato solo quella sera… avresti potuto scrivere a Dimitri.” 

“Non essere ridicola, sai che non l’avrei mai fatto. Non credo nemmeno che avrebbe accettato.” 

 

Ivan sbuffò leggermente alle parole della madre, che però non battè ciglio e non smise di sorridergli mentre, seduti uno di fronte all’altra, parlavano praticamente per la prima volta da quando il ragazzo era tornato in Russia. 

 

“Un vero peccato, mi sarebbe piaciuto venire ad ascoltarti… ma sono davvero orgogliosa di te.” 

“Sarebbe piaciuto anche a me, ma converrai che non sarebbe stato il caso di farti venire fino a Vienna.” 

“Il solito esagerato.” 

“Non sono esagerato mamma. E comunque non ero da solo, c’era Cal, Pawel e anche Irina.”

 

“Spero che stiano bene… Ma quando mi farai conoscere questa famosa ragazza?” 

“Presto. Ma non oggi.” 

 

La madre gli rivolse un’occjiata torva ma il figlio non battè ciglio, continuando a far dondolare leggermente una gamba mentre la madre beveva un altro sorso di thè. 

“Cambiando argomento… hai più sentito tuo nonno?” 

“No.” 

“Sono la tua famiglia, Ivan…” 

“Sono la tua famiglia mamma, non la mia.” 

 

La risposta pacata, quasi sbrigativa del figlio minore fece sorridere la donna, che appoggiò nuovamente la tazza sul piattono prima di parlare:

 

“Fa differenza? Forse sei troppo duro con loro, sei sempre stato molto testardo e poco incline a cambiare giudizio, tesoro. Infondo non sono così terribili, lo dice chi ci è crescita insieme. Del resto, anche tuo padre li detestava, tuo nonno non gli è mai piaciuto.” 

“Al nonno papà piaceva, però… credo, almeno.” 

“Gli piaceva solo perché per me era conveniente sposarlo. Penso solo che visto che tu e Dimitri non vi parlate, tuo padre non c’è più e io ho praticamente un piede nella tomba dovresti cercare di tenerti stretta la famiglia che ti resta.” 

 

“Mamma, non stai morendo.”   

“Fa differenza?”    La donna abbozzò un sorriso e il ragazzo sospirò, guardandola quasi con leggera esasperazione:

 

“Non cominciare, per favore. Sono settimane che non parliamo, non mi va di sentirti fare questi discorsi.” 

“Come preferisci… sono felice di averti visto. Ora scusa, ma tutti quei farmaci mi fanno stancare parecchio, credo che sia ora di andare a riposare per me.” 

 

Ivan annuì e si alzò per abbracciare la madre, che gli diede un bacio su una guancia prima di sorridergli.  

 

Il figlio si sforzò di ricambiare prima di lanciare un’occhiata all’orologio, non tanto per controllare che ore fossero ma per fare il conto di quanti minuti fosse durata la “lucidità” di sua madre. Era andato da lei per ben quattro volte da quando era tornato, ma ogni volta lei non era riuscita a riconoscerlo, prima di quel pomeriggio. 

 

Quindici minuti, sarebbe potuta andare peggio. 

Quando uscì dalla stanza della madre e tornò nell’atrio sorrise nel vedere una familiare figura dai capelli rossi seduta su una poltroncina, impegnata a leggere una rivista. 

 

“Ciao… grazie per avermi aspettato. Leggi?”  Ivan si fermò accanto a lei e le rivolse un lieve sorriso, guardandola dall’alto in basso e allungando una mano per sfiorarle i capelli: 

 

“Si, mantengo il mio russo in allenamento. Come sta?” 

“Bene. Almeno oggi era lucida. Mi dispiace non avertela ancora fatta conoscere, ma oggi volevo parlare un po’ con lei.” 

“Non preoccuparti, la prossima volta, magari.”  Irina sorrise prima di alzarsi, infilarsi il pesante cappotto e prenderlo sottobraccio:

 

“Ti proporrei di andare a fare una passeggiata ma siamo a Gennaio e fuori si gela, quindi ad andarmene in giro non ci penso nemmeno anche se vorrei visitare la città.” 

“Che deboluccia.” 

“Finiscila, magari prima o poi mi ci abituerò sul serio. Ora, prima di volare a casa mia e presentarti la mia meravigliosa famiglia che muore dalla voglia di conoscere la causa della rottura del loro contratto c’è qualcosa che vorresti fare? Come andare a scrivere il testamento, per esempio.” 

 

“No, grazie, andiamo subito, così mi tolgo anche questo dente. Sono sicuro che la tua famiglia non è molto peggio rispetto a quella di mia madre. A proposito, hai fatto come ti ho detto?” 

 

“Sì, ho detto che tua madre si chiama “Hendrik” di cognome… mio padre ha subito smesso di urlare e ha quasi cominciato a fare le fusa. In effetti aveva un suono familiare, ma non sapevo che foste così importanti da queste parti.” 

“Per una volta forse essere nipote di mio nonno avrà i suoi vantaggi, chissà.” 

 

*

 

Kaunas 

 

Era ferma, in piedi davanti a quella porta da quasi dieci minuti, eppure non aveva ancora trovato il coraggio di suonare un maledetto campanello. 

Cal sbuffò leggermente, continuando a tentennare mentre accanto a lei Alaska non faceva altro che girarle intorno e cercare di avvicinarsi alla porta. Probabilmente moriva dalla voglia di trattarla ma la padrona continuava a tirare il guinzaglio:

 

 “Alaska, smettila! Non so nemmeno se voglio entrare o meno, stai ferma.” 

Il cane le rivolse un’occhiata torva prima di accucciarsi obbedientemente sul pianerottolo, muovendo la coda nera con impazienza. 

 

La ragazza riportò gli occhi sulla porta, chiedendosi quanto fosse passato dall’ultima vola in cui aveva suonato quel campanello. Non sapeva nemmeno per certo se volesse effettivamente vederla, era uscita per fare una passeggiata con Alaska e si era ritornata dentro quell’edificio quasi senza rendersene conto. 

 

 

Fece per voltarsi e andarsene ma poi le parole di Ivan le tornarono in mente ancora una volta, ripensando a come l’amico le avesse consigliato di non tagliare sua madre completamente fuori dalla sua vita. Helena in effetti non si era mai curata particolarmente della figlia, crescendola da sola e alla meno peggio tra uno spettacolo e l’altro, senza mai parlarle accuratamente di suo padre… Cal sapeva solo che era inglese, probabilmente Purosangue, che si erano conosciuti proprio in Lituania, si erano sposati molto presto e lui se n’era andato dopo pochi mesi, quando la figlia nemmeno era nata. 

 

Non era colpa della madre, lo sapeva, ma non era mai riuscita a non pensare che avrebbe potuto comunque cercare di fare di meglio, di non lasciarla così spesso da sola, magari di bere anche meno. 

 

Cal sollevò una mano per suonare finalmente il campanello, ma sua madre sembrò prevederla e la porta si aprì. 

La pianista bloccò il braccio a mezz’aria mentre sua madre, che stava uscendo di casa, si bloccò sulla soglia nel trovarsi davanti la figlia, guardandola con evidente stupire:

 

“Cal? Cosa ci fai qui?” 

“Io… ciao. Volevo salutarti, ma se stai uscendo non fa niente, passo un’altra volta.” 

 

Cal abbassò la mano, sforzandosi di rivolgere alla donna un lieve sorriso mentre faceva un passo indietro. Fece per girare sui tacchi e andarsene ma la voce della madre la costrinse a fermarsi, chiamandola:

 

“Non importa, non è così urgente… vieni, entra pure. È tanto che non ci vediamo.” 

 

Cal si voltò, stupita, e Helena le suggerì con un cenno del capo di entrare in casa. Se la figlia indugiò per un attimo Alaska non se lo fece ripetere due volte, approfittando della distrazione della padrona per precipitarsi dentro l’appartamento. 

 

“Alaska!” 

 

La pianista sospirò prima di seguire il cane dentro casa, udendo la risata della madre prima che le chiudesse la porta alle spalle:

 

“Dimmi, com’è andata a Vienna? So soltanto che sei arrivata seconda.” 

 

In effetti Cal si chiedeva da quando era tornata se non avrebbe dovuto condividere con al madre i soldi della vincita, ma probabilmente lei avrebbe comunque rifiutato. 

 

“Bene. E… scusa se ci ho messo tanto a venire.” 

 

*

 

Copenaghen 

 

 

Si avvicinò alla porta color crema decorata con degli intagli floreali sperando che l’indirizzo fosse giusto e di non essersi sbagliata: non parlava nemmeno mezza parola di danese e chiedere indicazioni sarebbe stato vagamente problematico. 

 

Aprì la porta, facendo suonare la campanella, e si guardò intorno nella speranza di trovare Emil. Non ci mise poi molto ad individuarlo, in effetti era molto difficile non notarlo mentre svettava su tutti i presenti seduti sui tavolini rotondi, in piedi accanto ad un tavolo e impegnato a sorridere ad un paio di clienti. 

 

In effetti il dettaglio che più la colpì, e che quasi la costrinse ad uscire da lì alla velocità della luce per evitare di scoppiare a ridere davanti a tutti, fu il grembiule che il ragazzo si era allacciato in vita, con dei ricami floreali bianchi, lavanda e rosa antico. 

 

Rebecca, tuttavia, non ebbe il tempo di uscire per sfogare il suo attacco di ilarità perché una voce decisamente familiare la chiamò a gran voce, spezzando la piacevole quiete di quel posto che profumava di fiori, dolci e thè caldo. 

 

“Becky! Eccoti, finalmente!” 

Prima di darle il tempo di correre fuori dalla sala da thè Emil le corse incontro, praticamente scavalcando chiunque gli fosse d’intralcio per raggiungerla e stringerla in un abbraccio. 

“Sono felice di vederti… come stai?” 

“Bene… ora, scusa ma devo proprio chiedertelo Emil. Perché indossi un grembiule a fiori che su di te sembra quello di una bambola?” 

 

“Quando posso mi piace venire qui a dare una mano a mia madre, Becky. E non ridere del mio grembiule, mi dovrò pur calare nella parte, no?” 

 

Di fronte alla risatina della ragazza Dmil sbuffò, mettendosi le mani sui fianchi e facendola così ridere ulteriormente:

 

“Ora sembri mia madre quando è arrabbiata con me… non hai una macchina fotografica a portata di mano?” 

“No, so che vorresti immortalare la mia bellezza per poterla contemplare in ogni momento, ma ora non è quello per fare foto. Ti ho fatta venire qui per presentarti per bene mia madre, non per ridere di me.” 

 

Emil le mise una mano sulla schiena per spingerla verso un tavolo, facendola sorridere leggermente:

 

“Ok, va bene, non rido più. Bello, comunque, questo posto.” 

“Ti pareva se una piccola britannica non apprezza le sale da thè… anche se qui mia madre in realtà vende anche fiori.” 

 

Rebecca non si era ancora seduta quando qualcosa attirò la sua attenzione, costringendola a voltarsi verso l’enorme cane bianco che, accucciato in un angolo, teneva gli occhi fissi su di loro e la lingua penzolante. 

 

“Presumo che quello sia Broncio.” 

“Sì, è Bro… bello, vieni a salutare Becky. Ti avverto, ha la tendenza di saltare addosso alla gente pari alla mia.” 

 

In realtà Emil non aveva finito la frase quando Rebecca lo superò quasi di corsa per raggiungere l’enorme Cane da Montagna dei Pirenei, che si spanciò sul pavimento per farsi coccolare dalla ragazza. 

 

“Ma è bellissimo! Vieni tesoro, fatti abbracciare!” 

“EHY! Perché corri da lui a coccolarlo con gli occhi a cuoricino e io per ricevere un abbraccio ci ho messo settimane?” 

 

Emil sbuffo leggermente mentre guardava la ragazza inginocchiarsi sul pavimento e grattare le orecchie del cane, che aveva già iniziato a cercare di leccarle la faccia. 

 

“Non essere geloso Emil, hai visto quanto è adorabile?”    Rebecca sorrise, voltandosi nuovamente verso di lui mentre il ragazzo annuì, avvicinandosi ai due:

 

“Certo, è il mio cane. Ma ora vieni a sederti, così oltre ad innamorarti di Bro conosci anche mia madre, vado a dirle che sei qui. Bro, cuccia, non iniziare a cercare di rubarmi la ragazza con i tuoi occhioni dolci!” 

 

*

 

Amsterdam

 

Quando scese dal treno la prima cosa che fece fu guardarsi intorno nella stazione affollata, cercando tracce della sua migliore amica. 

Quando finalmente individuò una familiare e sorridente ragazza dai lunghi capelli rossi Gae sorrise, avvicinandolesi con la valigia stretta in mano:

 

“Ciao! Posso chiederti perché hai preso il treno invece di Smaterializzarti?” 

“Mi piace moltissimo il treno Elin, ne abbiamo parlato almeno cento volte… ma è bello vederti.” 

 

La belga sorrise all’amica prima di lasciare la valigia per terra e concederle uno dei suoi piuttosto rari abbracci, mentre Gabriel era in piedi accanto ad Helene, sorridendo a sua volta all’amica:

 

“Ho provato a spiegarle molte volte che i mezzi Babbani hanno il loro fascino, io adoro l’aereo, ma Helene è testarda come un mulo.” 

“Sta zitto Undersee.”   Al brontolio della rossa Gae sorrise, sciogliendo l’abbraccio per darne uno anche a Gabriel, prima che Helene parlasse nuovamente:

 

“Anzi, facciamo così… visto che qui non possiamo usare la magia direi che puoi renderti utile e prendere tu le cose di Gae, visto che starà da me per un po’.” 

“Cominci già a sfruttarmi come facchino? Buono a sapersi.” 

“Non lamentarti, è bello essere finalmente di nuovo tutto e tre insieme… portiamo le cose di Gae a casa e poi vi faccio vedere la città.” 

 

“Non ci trascinerai a vedere tutti i musei d’arte, vero?”   Gabriel prese la valigia di Gae con un’espressione vagamente preoccupata, mentre la rossa si strinse leggermente nelle spalle:

“Beh, c’è il Van Gogh Museum, e la casa di Rembrandt…” 

 

“Ho capito, sarà una giornata molto lunga…”   Gabriel sospirò, sistemandosi distrattamente il suo immancabile berretto bordeaux mentre Gae sorrideva, prendendolo sottobraccio mentre Helene continuava ad elencare gallerie e musei:

 

“Probabile. Ma le vogliamo bene comunque, no?” 









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Angolo Autrice:


Un ringraziamento speciale lo voglio rivolgere a Slytherin2806, grazie Erika per avermi permesso di scrivere questa storia. 
In secondo luogo ovviamente grazie a tutte voi per aver partecipato e seguito la storia:  Kyem13_7_3, Phebe Junivers, blackwhite_swan, Nene_92, Coco, DarkDemon e ovviamente a te, Mary.
Infine, ancora una volta grazie a Shiori Lily Chiara per aver seguito la storia anche se non vi ha preso parte, non so dove tu trovi la pazienza ma grazie davvero.

Spero che questo Epilogo vi sia piaciuto, così come tutta la storia in sè... e visto che praticamente tutte partecipate ad altre mie storie immagino che ci sentiremo presto. 
Signorina Granger 


 
   
 
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