La
luce di mezzogiorno macchiava la penombra rilassante della stanza. Fuori dalla
porta i rumori venivano filtrati dalle pareti, giungendo ovattati.
La
sagoma forte di T'Challa era immobile, i lineamenti fieri sciupati dalla
mancanza di sonno. I suoi occhi continuavano a scorrere sugli schermi a led
incastonati nella parete, le orecchie piene del suono ritmico e ripetitivo del
cardiofrequenzimetro. L’infermeria si trovava nella zona est del palazzo,
lontana dagli hangar e dalle strade, nel cuore più verde e protetto di tutto il
perimetro.
Anisa
era stata ricoverata lì quella notte. Sottoposta a cure immediate era stato
concesso perfino al sovrano di poterla incontrare solo quella mattina.
T'Challa
guardò la donna; respirava piano, ma con regolarità, le lenzuola di cotone a
coprirne il corpo fino al petto, i capelli castani morbidamente sparsi sul
cuscino.
Il
sovrano tornò a osservare il suo volto, chiuse gli occhi, inspirò e si fece
forza. Per la seconda volta aveva sottovalutato Klaw e per la seconda volta
qualcuno ne aveva pagato le conseguenze. Non c’erano state altre vittime, ma
ciò non gli permise comunque di darsi pace. Una delle persone più care e fidate
che aveva era stata gravemente ferita e se non fosse stato per James Barnes,
probabilmente, l’avrebbe persa per sempre.
Una
volta ritornati a palazzo i medici avevano immediatamente curato Anisa; le
avevano fatto una trasfusione di sangue, suturato la ferita e si erano presi
cura di lei alla perfezione. Benché – a detta loro – la donna si sarebbe
perfettamente ripresa, quello che le era accaduto e il fatto che lui non era
stato in grado di impedirlo continuavano a fare sentire frustrato il sovrano.
Sussurrando,
gli occhi ancora chiusi, T'Challa recitò una preghiera a Bast nella speranza
che aiutasse quella che, più di tante altre, per lui era una sorella.
Sentì
aprirsi la porta della stanza. Aprì gli occhi, zittendosi e vide entrare Kenan Wambua, il medico più
fidato e capace che avesse a disposizione. L’uomo fece un rapido inchino
salutando il sovrano e si richiuse la porta alle spalle. I due rimasero in
silenzio a lungo, un silenzio solenne, gli sguardi di entrambi fissi sul volto
di Anisa.
«Come
sta?» chiese infine T'Challa, prendendo forza. La risposta lo spaventava e
agitava al contempo. Anisa non era in pericolo di vita; l’aveva sotto agli
occhi e lui stesso poteva appurarlo. Tuttavia solo sentirselo dire da chi era
perfettamente a conoscenza della situazione avrebbe potuto tranquillizzarlo.
«È
stabile» rispose Kenan che poté notare il sovrano
rilassare le spalle. «Si riprenderà completamente.»
«Com’è
potuto accadere?»
T'Challa
non si dava pace per quello. Aveva trascorso la notte tormentandosi letteralmente
chiedendosi di continuo come fosse stato
possibile, per qualcuno riuscire, a scalfire – fino a penetrare – la tuta di
fibre miste della donna. Anche se non era composta esclusivamente da vibranio,
i test che vi avevano apportato avevano dimostrato che l’indumento era in grado
di resistere alla perfezione ad armi da fuoco e coltelli.
Il
medico scosse debolmente la testa. «Le hanno sparato.»
«Questo
lo so» replicò prontamente il sovrano, leggermente infastidito. «Ma nella sua
tuta c’era del vibranio, come hanno fatto a ferirla?»
Kenan non rispose subito. Girò
intorno al letto dove Anisa dormiva ancora, raggiungendo il sovrano. Giunto al
computer digitò rapidamente qualcosa e sugli schermi – al posto dei parametri
vitali della donna – comparvero delle immagini. T'Challa si voltò a guardarle,
intuendo immediatamente di cosa si trattasse. Era la ferita di Anisa. Un
profondo squarcio che, in quelle immagini ingrandite, sembrava più simile a una
voragine. Il sovrano continuò a osservare il sangue rosso cupo che rivestiva le
pareti di quella lesione come catturato.
«Ci
siamo interrogati molto su ciò che può essere accaduto, altezza» esordì il
medico, indicando poi su uno degli
schermi l’immagine più ravvicinata della parte lesa di Anisa. «Nessuna delle
nostre supposizioni, però, ha trovato un riscontro fondato. La pelle della
signorina è stata troncata di netto, non vi sono i segni tipici delle
lacerazioni provocate dalle armi da fuoco. Voi avete visto la sua tuta?»
T'Challa
si voltò, in attesa che venisse dato un senso alla domanda.
«In
prossimità della ferita, come appare il tessuto?»
«Perfettamente
tagliato» fu la risposta del sovrano. Ripensò a quel cerchio perfetto in
corrispondenza dell’ingresso del colpo nel corpo di Anisa, così come perfetto
era il corrispettivo foro di uscita.
Quelle
parole parvero bastare a Kenan. «Chirurgico.»
T'Challa
ascoltò quell’unica parola, sentì il riverbero che lasciò nella stanza
silenziosa.
«Lo
abbiamo definito così» riprese il medico. «Mio signore, non vi sono tracce di
polvere da sparo che lascino pensare che qualcuno abbia sparato alla signorina
da una distanza molto ravvicinata. Il diametro della ferita non supera di molto
i 9mm. E, come avete potuto notare, sia la tuta che la pelle sono state
lacerate alla perfezione, in modo… chirurgico. Io… una normale pistola calibro
9 non può riuscire a fare tanto.»
Il
tono di voce di Kenan lasciava intuire che la sua
mancanza di conferme lo avviliva. Quell’impeccabile medico, che mai aveva avuto
dubbi, si trovava ad affrontare qualcosa a lui sconosciuto.
«Lei
crede che possa essere stata un’arma di tipo sperimentale a ferire così Anisa?»
chiese infine T'Challa, dopo aver pensato per un breve momento a quella
possibilità.
«Non
glielo posso garantire, sire. Ma è un tipo di ferita con cui non abbiamo mai
avuto a che fare.»
Tornò
a rivolgere lo sguardo agli schermi, indicando altre immagini. «È viva per
miracolo. Il proiettile – o qualunque cosa l’abbia colpita – ha passato il suo
corpo da parte a parte, evitando fortuitamente organi vitali. Se il diametro
fosse stato maggiore non ce l’avrebbe fatta, nonostante la prontezza con cui
l’avete portata qui.»
Kenan sospirò. «Sono affranto dal
fatto di non potervi dare informazioni attendibili.»
T'Challa
lisciò il tessuto dell’abito, sovrappensiero. Stando a quanto gli aveva riferito
Barnes, Anisa era stata colpita da Sule, uno dei due complici di Klaw.
Quell’informazione, unita a ciò che aveva appena scoperto parlando con Kenan, permisero al sovrano di trarre una prima – forse
evidente – conclusione: non avevano a che fare con persone normali. I due
uomini di cui Klaw disponeva – oltre a se stesso – erano uomini addestrati e,
con tutta probabilità, muniti di particolari armi all’avanguardia. Solo i
risultati delle analisi che lui aveva fatto svolgere sull’accendino di cui si era
impossessato la notte precedente gli avrebbero permesso di fare maggiore
chiarezza in quel groviglio di incertezze.
«Ha
fatto quello che era in suo potere. Ha salvato Anisa.»
T'Challa
rivolse un leggere inchino in direzione del medico, pronunciando quelle parole.
L’altro rispose con lo stesso gesto ma prima che potesse replicare venne
interrotto. Qualcuno bussò alla porta e T'Challa diede il permesso di entrare.
Oltre la soglia comparve Mandisa, composta e ordinata
come sempre. Teneva una cartelletta stretta al petto e, entrando, salutò i
presenti, lanciando infine una veloce occhiata in direzione del letto.
«Buongiorno
Mandisa» l’accolse il sovrano.
«Altezza.
Mi scuso per il disturbo, ma il Presidente keniota chiede di voi. La chiamata è
in attesa nel suo ufficio.»
L’uomo
si irrigidì appena, chiuse gli occhi e inspirò a fondo. Era difficile che
fossero venuti a conoscenza dell’introduzione da parte di Pantera Nera entro i
confini del Kenya, ma nulla era da escludere. Se era accaduto ciò, per T'Challa
sarebbe stato necessario dare sfoggio delle sue migliori abilità diplomatiche
per tentare di giustificare come mai, il difensore del Wakanda, avesse
oltrepassato i suoi confini.
Si
avviò da Mandisa, voltandosi prima verso il medico. «La
ringrazio per il suo lavoro» disse.
Lanciò
un’ultima occhiata al viso di Anisa, infine seguì la donna, che si avviò
immediatamente verso l’uscita dell’infermeria. Appena fu fuori dalla porta,
però, la robusta sagoma di un uomo attirò la sua attenzione.
James
Barnes si fermò di colpo, fissando T'Challa e Mandisa
a pochi metri da lui. Indossava vestiti wakandiani, leggeri, il braccio
metallico scintillante sotto la luce del sole che entrava dalle grandi finestre
del corridoio.
T'Challa
gli sorrise. «James. Vedo che cominci a orientarti all’interno del palazzo.»
Fece
un cenno in direzione della porta della camera di Anisa. «Sei qui per fare
visita ad Anisa?»
La
domanda rimase in sospeso a lungo. T'Challa era ormai abituato alla scarsa loquacità
del Soldato d’Inverno e non si scompose. «Dentro c’è ancora Kenan,
il mio medico di fiducia. Ho lasciato detto che tu possa vederla.»
Non
attesa una risposta; riprese a camminare e si allontanò, seguendo la sua
assistente lungo il corridoio diretto al suo ufficio. Bucky rimase a guardare
le due figure che si allontanavano, finché il rimbombo dei tacchi di Mandisa non venne assorbito completamente dalla distanza.
Poco più avanti vide la maniglia abbassarsi e un uomo uscire dalla stanza che
T'Challa gli aveva appena indicato. Dedusse che si poteva trattare solo di Kenan.
Quest’ultimo
guardò il Soldato per un breve momento, infine gli sorrise, mantenendo la porta
aperta.
«Sta
riposando.»
Bucky
non replicò. Fece un debole cenno di assenso al medico avvicinandosi a lui,
dopodiché entrò nella stanza, richiudendo dietro di sé la porta.
*
Le
sembrava di essere avvolta da ovatta. La luce delicata non le diede fastidio
appena aprì gli occhi, che si adattarono subito alla penombra del tramonto
imminente. I suoni erano spenti, lontani, si percepivano a stento ed erano
confusi. Anisa sbatté gli occhi un paio di volte, mettendo a fuoco il soffitto
sopra di sé, il corpo immobile, il respiro ancora lento. Non riusciva quasi a
sentire il proprio corpo, ma era rilassata.
Quel
soffitto le era famigliare e le sue profonde convinzioni su cosa l’aspettava
oltre la morte, esulavano completamente
da una camera bianca e un letto in cui si sprofondava come nello zucchero
filato.
Si
guardò intorno, in attesa di riavere il controllo completo del proprio corpo.
Voltò appena il volto verso destra e lo vide subito. Sembrava addormentato, le
braccia incrociate al petto, gli occhi chiusi. Anisa lo guardò un momento e si trovò
piacevolmente sorpresa di trovare nella sua stanza il Soldato d’Inverno. Rimase
a osservare i tratti del suo volto e la mente la catapultò inevitabilmente
indietro, alla notte precedente.
Era
stato lui a salvarla, su questo non aveva dubbi. Ricordava alla perfezione il
viso di Bucky quando l’aveva raggiunta nel corridoio in cui lei temeva sarebbe
morta, del modo in cui l’aveva medicata, di come l’aveva raccolta da terra per
portarla via. Ricordava la risolutezza nei suoi gesti, in quegli occhi tanto chiari,
le ciocche di capelli scure che ricadevano scomposte sul suo volto. Fra le sue
braccia si era sentita al sicuro e le ultime parole che lui le aveva mormorato
le avevano dato speranza.
Forse
era per quello che, appena risvegliata, era piuttosto certa di essere ancora
viva e in un posto sicuro. Nel modo in cui Bucky si era preso cura di lei,
Anisa aveva sentito che sarebbe andato tutto bene.
La
donna sorrise leggermente fra sé, sentendo finalmente tornare un po’ di
sensibilità fin nelle punte del proprio corpo. Era sicura che Bucky fosse
cosciente e vigile, anche se si sarebbe detto il contrario.
«Ciao»
disse infine, la voce roca e il tono più basso di quanto avesse pensato.
Non
si era sbagliata. Il Soldato aprì subito gli occhi, puntandoli su di lei.
Appoggiò i gomiti ai braccioli della sedia in cui si trovava senza dire nulla.
La
donna gli sorrise, senza replicare. I silenzi di Bucky erano quasi snervanti,
ma lei era certa di capire a cosa fossero dovuti. All’uomo servivano tempo,
sicurezza e nuova speranza per riuscire a trasformare quei silenzi in parole e
tutto ciò richiedeva tempo. Anche lei ci era passata anni prima e fu strano
rendersi conto di non aver tenuto nei confronti di una persona in quella
situazione, il comportamento che lei, in quegli anni, aveva desiderato che le
venisse riservato.
Anisa
tornò a rivolgere gli occhi al soffitto. «Grazie. Devo a te la mia presenza
qui.»
«Come
puoi esserne certa?» domandò Bucky, lentamente.
La
donna si lasciò sfuggire una leggera risata, uno sbuffo fra le labbra. «Sei
l’ultima cosa che ho visto prima di perdere i sensi. Direi che è proprio te che
devo ringraziare.»
«Dovevo
farlo» si limitò a replicare l’uomo, distogliendo lo sguardo proprio mentre
Anisa tornava a posare il suo su di lui. Rimasero in silenzio ancora un po’,
finché la donna non prese nuovamente parola: «Perché hai deciso di aiutarci? È
solo per via della cura che ha trovato T'Challa?»
Aveva
posto la domanda a bruciapelo e ne era consapevole. Tuttavia, dopo quello che
aveva scoperto durante la riabilitazione di Bucky e dopo che lui aveva
accettato di aiutare T'Challa nella sua personale lotta contro Klaw, quella
domanda aveva cominciato a perseguitarla. Sapeva che non avrebbe ottenuto una
risposta, a meno di chiedere al diretto interessato.
Il
Soldato fissò a lungo Anisa, che non cedette per un solo attimo. Lui guardò
attentamente i suoi occhi nocciola, lucidi per il troppo riposo, sentendola
vicino a sé. Aveva capito di potersi fidare di lei e di T'Challa, di avere
trovato qualcun altro, dopo Steve, con cui poter evitare di guardarsi
perennemente le spalle. Per pochi istanti aveva dubitato delle sue ultime
scelte, ma il breve e sincero ringraziamento che poco prima Anisa gli aveva
rivolto era stato sufficiente per confermargli che la sua decisione era giusta.
Respirò
a fondo, in cerca delle parole che, da quando James Buchanan Barnes era stato
inghiottito dal gelo settant’anni prima, faticava sempre a trovare.
«Dopo
che mi avete aiutato a guarire non potevo farmi congelare di nuovo. Farlo, dopo
essere stato liberato dal controllo dell’HYDRA, sarebbe stato come scappare.»
Fece
una pausa. «Ho pensato a quello che avrei potuto fare e mi sono tornate alla
mente tutte le cose che mi aveva raccontato Steve. Ho capito che per la prima
volta potevo mettere le mie capacità al servizio degli altri, che potevo usare
le mie doti per fare finalmente del bene. È per questo che ho accettato. Volevo
cominciare subito e T'Challa mi è sembrato avesse bisogno di aiuto. Ora so che
ho fatto la scelta giusta.»
Anisa
sorrise dolcemente, ripensando alle parole appena pronunciate dall’uomo. Ciò
contro cui stavano combattendo era qualcosa – o meglio, qualcuno – contro cui
le sole forze wakandiane non avrebbero potuto nulla.
Dopo due scontri frontali con Klaw anche lei, a malincuore, aveva ammesso a se
stessa quella sconsolante realtà. Era chiaro che l’aiuto che il Soldato aveva
deciso di dar loro era stato provvidenziale.
Tuttavia
bisognava ricominciare da capo ancora una volta. Era necessario trovare il
nuovo nascondiglio di Klaw, prepararsi al meglio per affrontare lui e i suoi
uomini, sempre che fossero sopravvissuti la notte precedente.
Fu
in quel momento che si accorse di non avere informazioni sull’esito
dell’attacco di quella notte – a parte il suo ferimento – e, testarda com’era,
decise di andare da T'Challa a chiederglielo di persona.
Lanciò
un’occhiata all’asta portaflebo immobile accanto al
letto, la sacca in plastica vuota, mollemente abbandonata. Probabilmente si
trattava di antidolorifici, somministrati per permetterle di riposare dopo
essere stata medicata.
«Cosa
c’era lì dentro?» chiese conferma a Bucky, fissando ancora la flebo esaurita.
Il
Soldato non parve sorpreso per la domanda. «Analgesico.»
«Dubito
ci sia scritto proprio così» replicò la donna, sarcastica.
Nuovamente
Bucky non si scompose. «Trometamina» precisò.
«D’accordo.»
Detto
ciò Anisa si puntellò con i gomiti sul letto, facendo scivolare le lenzuola
all’altezza dell’addome. Non sentì dolore in corrispondenza della sua ferita,
ma, probabilmente a causa dell’antidolorifico e del troppo riposo, il corpo non
era abbastanza reattivo. Faceva fatica a mettersi seduta, la banale operazione le
richiese dello sforzo anche per fallire totalmente.
Bucky
la guardò, leggermente incuriosito, sforzandosi di capire perché quella donna
non avesse voglia di fare l’unica cosa che, nel suo stato, avrebbe dovuto fare:
stare ferma e riposarsi. Tuttavia Anisa provo a sedersi sul letto ancora una
volta. Lui reagì istintivamente e si sporse avanti per aiutarla, ma si fermò
subito. La donna notò il suo gesto.
«Oh,
non preoccuparti, ce la faccio» disse.
Bucky
si ricompose.
«Il
sarcasmo non fa per te, vero?» aggiunse poi lei, ricadendo nuovamente sul
cuscino.
L’uomo
capì, si alzò dalla sedia, mormorando una rapida scusa, dopo di che aiutò
Anisa. La sollevò leggermente, aiutandola a sedersi per bene, i cuscini
disposti dietro la schiena. Quando si fu sistemata, lei gli sorrise,
ringraziandolo. Bucky indietreggiò di un passo e rimase a guardare la donna
che, come se fosse stata sola, sollevò la maglia dell’abito ospedaliero che
indossava fino al punto in cui era stata colpita. C’era una garza con cerotto che
la donna non esitò a sollevare, mostrando la pelle sotto di essa. Anche il
Soldato rimase a guardare quei centimetri di pelle dorata, gonfia e arrossata
per via di un segno verticale marcato, interrotto da quattro punti di sutura
equidistanti fra loro. Anisa fece scorrere su quei punti il proprio indice,
percependo il dislivello fra la carne sana e quella medicata.
«Non
dovresti toccarla» la informò Bucky, ancora intento a osservarla.
Lei
parve non ascoltare la sua affermazione. «Ne hai molte di queste?» gli chiese,
senza guardarlo.
«Qualcuna»
rispose lui, contandole mentalmente.
La
donna tornò a sistemare sulla ferita la garza, facendo aderire il cerotto
meglio che poté, infine abbassò la maglia. Si sporse sul bordo del letto,
faticando un po’, gli occhi fissi sulle scarpe di Bucky, ancora in piedi
accanto a lei.
Si
sentiva strana; ancora non le sembrava vero che le avessero sparato. Eppure
quella sua ferita era reale, l’aveva appena toccata e non poteva certo fingere
che non fosse vera. Se quei pensieri potevano attraversare la sua mente in quel
momento lo doveva solo al Soldato d’Inverno che, ora, le pareva strano
chiamarlo ancora così. Quell’uomo le aveva salvato la vita e, quel gesto, non
poteva che significare tutto per lei.
«Come
va il braccio?» domandò poi, senza apparente motivo.
Bucky
la fissò incuriosito, senza capire il perché di quel quesito. Guardò
rapidamente il braccio in vibranio, muovendo istintivamente le dita, dopodiché
Anisa riprese a parlare: «Non sono stata molto gentile con te finora. Avrei
dovuto comportarmi decisamente meglio e mi dispiace. Eppure tu non hai esitato
a salvarmi la vita.»
«Dovevo
farlo» replicò lui, senza cambiare di una sola virgola l’identica risposta che
aveva dato alla donna la prima volta in cui aveva tirato in ballo l’argomento.
Si
guardarono per un lungo momento. C’era una forte intensità negli occhi
grigio-azzurri del Soldato, un insieme di sentimenti vari, ammassati,
contrastanti, che Anisa non riuscì decifrare. Si limitò a sorridere, sforzando
poi il suo corpo ad alzarsi in piedi.
Bucky
intuì subito quello che la donna era in procinto di fare e volle impedirglielo.
Posò il braccio sinistro sulla spalla di lei, con ferma delicatezza.
Anisa
si bloccò. Puntò prima lo sguardo sulla mano di Bucky, facendolo scorrere lungo
tutta la superficie metallica del braccio, infine tornò a incrociare i suoi
occhi. In quel brevissimo attimo il suo cuore ebbe un fremito e lei si arrestò
completamente.
«Non
puoi andare da T'Challa, ora. Hai bisogno di riposare ancora» le disse lui, il
tono risoluto non ammetteva repliche. Anisa, infatti, non fu in grado di
replicare. Ancora catturata dai suoi occhi chiari annuì con la testa e,
ubbidiente, tornò a sdraiarsi sul letto, sotto lo sguardo vigile del Soldato.
*
La
porta dell’ufficio di T'Challa non le era mai mancata così tanto. Anisa sfiorò
leggermente il legno laccato di nero, prima di posare la mano sulla maniglia.
Era
uscita dalla sua stanza in infermeria quella mattina, dopo due interi giorni
trascorsi là dentro. Dopo il suo risveglio Bucky non si era più fatto vedere,
ma T'Challa l’aveva visitata spesso, esprimendole il desiderio di essere
raggiunto nel suo ufficio non appena fosse stata dimessa. Non le aveva
raccontato nulla di tutto ciò che era seguito al loro allontanamento dal
deposito interrato – dopo il suo ferimento – se non che, con tutta probabilità,
Sule era morto.
Bussò
alla porta, rimanendo in attesa. Sentì subito T'Challa che invitava a entrare
e, lentamente, superò la soglia.
Il
sovrano non era solo. Seduto alla scrivania, di fronte a lui, Bucky si voltò
appena per vedere chi avesse fatto il suo ingresso. Come T'Challa vide Anisa si
alzò in piedi, andandole incontro. L’abbracciò, stringendola a sé mentre
sussurrava un veloce saluto wakandiano, parole di
gioia e di ringraziamento. La donna si distese in quell’abbraccio, inspirando a
fondo il profumo dell’uomo, un misto di pulito, caffè e vaniglia. Quando si
separarono Anisa si sistemò istintivamente il lungo abito tipico di quelle
terre, di stoffa naturale, leggera e non aderente, così che non andasse a
tirare in corrispondenza dei punti di sutura non più coperti dalla garza.
Il
sovrano invitò la donna a sedersi, ma lei preferì rimanere in piedi.
«Come
ti senti?» le chiese T'Challa, tornando al suo posto.
«Decisamente
meglio.»
L’uomo
annuì, sorridendo. «Stavo parlando con James riguardo alle ultime supposizioni
che ho formulato sugli uomini di Klaw» riprese poi, serio. «Vorrei rendertene
partecipe.»
«Sono
qui anche per questo.»
«Non
so dove sia fuggito Klaw, ma ho già avviato delle ricerche. Un paio di giorni
fa il Presidente del Kenya mi ha contattato per dirmi che, nella sua terra,
sono accadute alcune cose strane, delle aggressioni.»
Sfogliò
un paio di pagine con fare distratto, tornando a puntare lo sguardo su Anisa.
«Sai già cosa sospetto, ma finché non ottengo qualche riscontro non c’è molto
che possa fare.»
«Lo
capisco.»
«Per
quanto riguarda i due uomini di Klaw, quello che ti ha sparato dovrebbe essere
morto, ma l’altro…»
Lasciò
cadere la frase, estraendo da uno dei cassetti della sua scrivania un
accendino. Anisa lo guardò, senza capire, sentendo su di sé gli occhi di
entrambi gli uomini.
«Ho
preso questo accendino quella notte, dall’altro complice, dopo che lo avevo
atterrato. James mi aveva raggiunto dopo che ti avevano ferita e ti abbiamo
subito portata qui. Sapevo che quell’uomo si sarebbe ripreso, prima o poi, ma
speravo che sottrargli questo accendino potesse bastare a renderlo meno
pericoloso. Credevo fosse questo l’origine del suo potere, di quelle fiamme
irreali che sa produrre. Pensavo si trattasse di un’arma sperimentale,
esattamente come la pistola con cui Sule ti ha colpito.»
Nel
tono di voce di T'Challa c’era una sfumatura, piuttosto evidente, in grado di
far capire alla donna che le cose non erano andate per il verso giusto.
«E
invece?» lo incalzò, curiosa.
T'Challa
abbassò lo sguardo sull’oggetto di quelle attenzioni. «È un comune accendino,
come ce ne sono tanti. Due giorni di analisi per capire che questo non è altro
che un normalissimo accendino.»
La
sua voce si era caricata di irritazione sul finire della frase, mentre Anisa
era semplicemente incredula. Non riusciva a spiegarsi come fosse possibile una
cosa del genere. Lei l’aveva visto quell’uomo; fiammate simili non potevano
essere provocate da un accendino normale.
«Non
ha senso» disse infine.
T'Challa
annuì leggermente. «Con James siamo arrivati alla conclusione che si possa
trattare di uomini dalle capacità superiori, non sarebbe la prima volta.»
La
donna non ebbe il tempo di stupirsi o trovarsi d’accordo con quelle parole.
Improvvisamente, con calcolato automatismo, le veneziane delle grandi finestre
si chiusero, facendo sprofondare nell’ombra l’ufficio di T'Challa.
Il
sovrano, che come la donna conosceva quella procedura, si alzò dalla sua sedia,
gli occhi improvvisamente brillanti. Bucky non capì cosa stava accadendo, ma
puntò lo sguardo sulla parete alla sua destra, esattamente il punto in cui gli
altri due stavano osservando. Con sua sorpresa, lì, l’ologramma di un uomo
comparve fra due fasci di luci incrociati, lo sguardo astuto perfettamente decifrabile.
L’ologramma
di Edet parlò con voce chiara, comunicando il
messaggio che aveva registrato tempo prima: «Mio signore, sono riuscito a
rintracciare Captain America. Stiamo rientrando in Wakanda.»