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Autore: Halley Silver Comet    25/07/2017    2 recensioni
Sullo sfondo degli eclettici Anni ’80 si intrecciano fiaba e realtà, traffici illeciti e misteri, pregiudizi e desideri di libertà, mettendo alla prova i quattro protagonisti.
Ci sarà ancora tempo per il tanto sospirato lieto fine?
Il ragazzo buttò fuori l’aria tutta insieme, mandando al diavolo i suoi buoni propositi di seguire i consigli della meditazione orientale o qualsiasi cosa fosse.
«Buongiorno a te, Vittoria».
Stropicciandosi gli occhi, la nuova arrivata si avvicinò al tavolo e si sedette di fronte a lui.
«Ti ho disturbato?» domandò, reprimendo faticosamente uno sbadiglio.
«No, figurati. Dubito che possa sentirmi più infastidito di così» sbottò il giovane, sarcastico: non ce l’aveva con l’amica, ma davvero cominciava a trovare insopportabile tutta quella scabrosa situazione.
A tale risposta, la sua interlocutrice lo fissò sorpresa, ma non aggiunse nulla, probabilmente intuendo l’inquietudine che lo logorava da dentro; ciononostante, Marcello un secondo più tardi si pentì di essersi rivolto a lei in quel modo poco gentile. In fondo, non era certo colpa di Vittoria se quello schifoso di Navarra aveva deciso di sequestrare Beatrice
.”
Genere: Commedia, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Vento dell'Ovest - Capitolo 26



- Capitolo Ventiseiesimo -
Addio del Vento 




U
no degli insegnamenti più importanti che Molinari ricordava dalla frequentazione della Scuola Superiore di Polizia era una citazione di Agatha Christie molto cara al Funzionario d’Ufficio che si era occupato del suo addestramento: “Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova”.
E, dopo aver provato la tisana al miele e camomilla, l’infuso di rabarbaro e zenzero e perfino il decotto alle bacche di sambuco, poté confermare che non aveva bisogno di un quarto tentativo per avere la prova che il caffè era insostituibile.
Così, rassegnato all’idea che avrebbe deluso le aspettative di sua moglie, tradendo anche i suoi buoni propositi per il 1988 appena iniziato, il commissario chiuse la scatola di legno che quella gli aveva regalato per Natale con un’infinità di bustine aromatizzate e la mise nell’ultimo cassetto della sua scrivania, pensando a chi potesse rifilarla. D’altra parte, nonostante avesse capito che le tisane non facevano per lui, gli sarebbe dispiaciuto gettare via un dono di Angela.
Stava proprio per uscire in corridoio con l’intenzione di andare al bar a prendersi un bel caffè macchiato,
interrompendo un’astinenza durata oltre una settimana, quando, nell’aprire la porta, inaspettatamente, si ritrovò davanti il questore Saltarini.
«Buonasera, dottore» lo salutò, riprendendosi subito dalla sorpresa. «Non aspettavo una sua visita, è successo qualcosa di grave, per caso?» aggiunse, perplesso.
«Buonasera a lei, Molinari» rispose quello con un sorriso rassicurante, ricambiando il saluto. «Non si preoccupi, è stata una decisione... improvvisa. Stava uscendo?»
«No, avevo solo voglia di fare quattro passi e di prendere un caffè al bar. Mi fa compagnia?»
«Molto volentieri, ma, prima, se non le dispiace, vorrei discutere con lei di questioni piuttosto... urgenti» replicò l’altro, con una breve scrollata di spalle.
Insospettito da tutte quelle reticenze e dall’atteggiamento alquanto strano del suo superiore, il poliziotto lo guardò aggrottando appena la fronte, senza ulteriori commenti; anzi, lo invitò ad accomodarsi e quello, dal canto suo, non se lo fece ripetere, prendendo posto su una delle poltroncine antistanti la scrivania.
Allora, Molinari fece subito per imitarlo, quando venne interrotto dallo squillo del telefono. 
«Risponda pure» lo invitò Saltarini, indicando l’apparecchio con la mano aperta, sempre con il solito sorriso che, sotto la luce della lampada da tavolo, unica fonte di illuminazione accesa in quel momento, assunse un’aria inquietante.
Non riuscendo a capire se fosse solo frutto della sua immaginazione o se davvero il suo interlocutore si stesse prendendo gioco di lui, l’uomo alzò molto lentamente il ricevitore e, senza staccare gli occhi dal questore, lo avvicinò all’orecchio.
«Qui Molinari».
Ciò che udì subito dopo da un agitatissimo Tonelli gli fece immediatamente accapponare la pelle, facendogli arrivare a dubitare che fosse accaduto sul serio.
«Ma... non è possibile!» esclamò, sgomento. «Il direttore del carcere mi aveva assicurato che era una sistemazione sicura!»
Mentre Molinari si affannava al telefono, sforzandosi di mantenere la lucidità, notò con la coda dell’occhio che Saltarini lo stava fissando molto attentamente, accavallando poi una gamba sull’altra con le mani giunte sotto al mento, come se lo stesse studiando.
Quando il suo agente gli ebbe comunicato tutti i dettagli, con la gola riarsa, il commissario bofonchiò qualcosa in risposta e chiuse la chiamata, senza staccare gli occhi dal questore.
Per qualche secondo i due si guardarono in tralice, poi il poliziotto si schiarì la voce e fece per parlare, ma venne bruscamente interrotto.
«So già cosa le hanno detto e, se mi permette, le consiglierei di... lasciar correre» commentò l’altro, tranquillo, rimettendo entrambi i piedi a terra ed alzandosi dalla sedia.
Infastidito dall’ennesima pausa del suo superiore, Molinari assottigliò lo sguardo, ormai convinto che l’altro fosse fin troppo coinvolto nella faccenda. Senza timore delle conseguenze, perciò, appoggiò le mani sul ripiano della scrivania ed alzò fieramente la testa.
«Lei sa che questo è un caso che non può essere semplicemente archiviato» cominciò, molto lentamente. «Perché mi sta chiedendo di ignorare la necessità di aprire un’indagine?»
In risposta, Saltarini rimase in silenzio per qualche minuto, al termine dei quali, lasciando basito il suo interlocutore, scoppiò in una risata sinistra.
Davanti ad una simile reazione, il commissario rimase congelato, f
aticando a riconoscere la stessa persona con cui aveva collaborato in tanti anni. Man mano che prendeva consapevolezza della situazione, nella sua mente cominciò a vorticare un insieme confuso di pensieri, nessuno dei quali, però, in grado di aiutarlo a decidere come comportarsi in quel momento, soprattutto perché non riusciva a capire fino in fondo quanto il questore fosse complice in quella losca faccenda.
Poi, improvvisamente come aveva iniziato, Saltarini smise di ridere e riservò all’altro uno sguardo quasi benevolo.
«Molinari, che ne dice di andare a prendere quel famoso caffè?» gli propose, estremamente calmo. «Ovviamente, offro io, quindi sarebbe davvero scortese rifiutare, non crede?»

La luce delle poche decorazioni del Natale appena trascorso connotava l’atmosfera con quella malinconia tipica di gennaio, mese in cui riprendevano le attività lavorative nel rigore dell’inverno, senza che, però, ci fosse più la prospettiva dell’allegria delle festività a mitigarlo.
Seduto nell’angolo più nascosto di un piccolo e cupo bar di via Capo d’Africa, Molinari scrutava oltre il vetro leggermente appannato il buio della strada, appena rischiarato dalle sporadiche luminarie, chiedendosi se sarebbe sopravvissuto a quell’incontro, poiché aveva capito da un bel pezzo che il questore non l’aveva certo invitato lì per cortesia.
«Ha fatto un ottimo lavoro all’Elba, ero sicuro che non mi avrebbe deluso» esordì all’improvviso quello, prendendo il suo succo d’arancia ed inclinandolo verso di lui prima di berlo, come se volesse brindare alla sua salute.
Richiamato, il commissario si voltò molto lentamente, riservandogli uno sguardo scettico.
«Catturare Navarra era nell’interesse di tutti».
«Sì, ha perfettamente ragione» replicò Saltarini con un sorriso ambiguo, appoggiando il bicchiere sul tavolo. «Per questo mi sono assicurato che lei fosse sul posto, quando sarebbe scattata l’operazione che avrebbe portato all’arresto dello spagnolo».
«Mi sta forse dicendo che, quando mi ha parlato dell’Isola d’Elba come il posto perfetto dove portare mia moglie in vacanza, non era solo un consiglio?» ribatté aspramente il poliziotto.
«Temo di no».
Irritato da quella rivelazione, che lo fece sentire come una marionetta priva di qualsiasi forma di volontà, Molinari aggrottò la fronte e spinse via da sé la tazzina di caffè ancora mezza piena.
Notando quel gesto, il suo superiore cambiò espressione e sembrò quasi addolcirsi; poi, si sporse verso di lui e, a bassa voce, gli confidò: «Vede, Molinari, credo di sapere come si sta sentendo: una pedina in un’immensa scacchiera senza sapere chi sia a fare le mosse. E, detto fra noi, è un bene che lei non lo sappia».
A parere del commissario, quella similitudine calzava ancor più della sua, tuttavia ciò che lo colpì maggiormente fu l’ammissione spontanea del questore che, dietro il suo atteggiamento ed il suo operato c’era, in realtà, qualcuno di ancora più importante ed influente.
«Dietro l’arresto di Navarra c’è molto più di quello che mi ha detto, non è vero?» domandò, allora, intenzionato a scoprire una volta per tutte quale fosse la verità.
«È corretto» gli concesse l’altro, scrollando appena le spalle.
«Quindi, ora potrebbe spiegarmi anche perché la soffiata e le prove che incastravano Navarra come responsabile dei traffici d’armi verso l’Unione Sovietica sono spuntate in concomitanza con il rapimento di Beatrice Tolomei» lo incalzò Molinari, assottigliando lo sguardo. Si sentiva lacerato tra la rabbia di essere stato usato a piacimento da altri e il profondo desiderio di ottenere delle risposte a tutte le domande che gli affollavano la mente. «Gli stavamo addosso da mesi senza aver ottenuto nemmeno un riscontro, poi arriva lei, dottore, tirandole fuori dal cilindro come se niente fosse...
perché non le ha condivise prima?» rincarò, incrociando le braccia sul petto ed inclinando la testa da una parte.
«La verità ha un prezzo, Molinari» affermò, in risposta, Saltarini, assumendo all’istante un’espressione rammaricata. «Lei lo sa, vero?»
«Anche fin troppo bene» ribatté il poliziotto, risoluto a non cambiare atteggiamento, poiché non riusciva a sopportare di essere vissuto nella menzogna così a lungo.
A quel punto, ci fu una lunga pausa, durante la quale si udì in lontananza il brusio dei baristi che, approfittando della scarsa clientela, stavano fumando una sigaretta sulla porta del locale. L’odore del tabacco si mescolò a quello del caffè rimasto nella tazzina, creando uno sgradevole connubio che nauseò Molinari, già teso per la situazione.
«L’ho portata fuori dal commissariato proprio per poterle spiegare alcune cose, ma, per la sua stessa sicurezza, la prego di non chiedere ulteriori informazioni rispetto a quelle che le darò. Le è chiaro?» 
Ancora troppo concentrato sul suo malessere, l’uomo impiegò qualche secondo per realizzare che il suo interlocutore aveva parlato, tant’è che, in un primo momento, rimase a fissarlo sbattendo le palpebre, per poi riscuotersi e annuire. Con quel cenno, Saltarini capì che il commissario era in ascolto e, dopo aver sospirato brevemente, riprese:
«Navarra è rimasto solo un sospettato finché non ha pestato la coda di qualcuno molto in alto. Quando lo spagnolo è diventato un intralcio, è diventato necessario eliminarlo».
«E cosa c’entra questo con il rapimento della signora Tolomei?» domandò Molinari, perplesso, dato che ancora faticava a far combaciare tutti i pezzi di quel confuso mosaico, pur avendo sospettato fin da subito che dietro alla soffiata su Navarra ci fosse un regolamento di conti.
«Be’, si sa che i malviventi, messi sotto pressione, tendono a fare qualcosa di stupido... che, però, può diventare una buona occasione per arrestarli» gli spiegò il questore, a bassa voce, come se temesse che qualcuno che non avrebbe dovuto sentirli fosse nelle vicinanze. «Si ricorda quando ho insistito per far andare via quella ragazza, anche se non aveva finito di deporre? Non volevo semplicemente coinvolgerla ulteriormente in qualcosa che sarebbe potuto diventare pericoloso».
«Capisco...» mormorò l’ufficiale, adattandosi inconsciamente a quel tono di conversazione insolitamente basso.
«Sa, mi ha ricordato mia figlia Annalisa, così giovane, con ancora tutta una vita davanti...» proseguì l’altro, mentre gli occhi gli diventavano improvvisamente lucidi e fu proprio in quell’istante che, finalmente, Molinari capì l’effettivo coinvolgimento del suo superiore: molto probabilmente non aveva agito per suo tornaconto personale, bensì perché ricattato dal giocatore di scacchi che doveva aver minacciato di far del male alla ragazza.
Alla luce di quest’ultima rivelazione, tutta la rabbia che aveva provato nei confronti dell’altro si attenuò e, anzi, si ritrovò improvvisamente a giustificarlo. Infatti, nonostante non avesse figli e fosse fiero della sua integrità morale, non era del tutto certo che, al posto del questore, si sarebbe comportato diversamente.
«Che cosa vuole che faccia, allora? Non posso ignorare la telefonata ricevuta poco fa» gli chiese, aggrottando la fronte.
«Indaghi, però senza scrostare troppo la superficie, faccia ciò che non farebbe in altri casi, si accontenti delle apparenze... e metta la parola fine a questa catena di sangue» lo supplicò Saltarini, giungendo le mani come in preghiera.
«Lei sa benissimo che il medico legale smentirà l’ipotesi di suicidio».
«Il medico legale scriverà sul referto autoptico quello che io gli dirò» replicò quello, indurendo lo sguardo. «Mi creda, Molinari, chiudere la questione senza farsi domande è l’unico modo per uscirne tutti vivi».
In quell’istante, il commissario si rese conto di avere le mani pressoché congelate e si domandò tra sé se fosse a causa del riscaldamento mantenuto troppo basso per risparmiare, oppure se fosse ciò che aveva appena udito ad avergli arrestato la circolazione.
«Mi tolga un’ultima curiosità...» avanzò, incerto su come porre la domanda, mentre si sfregava le nocche contro la stoffa dei pantaloni, per riscaldarle un po’ «come faceva a sapere che Navarra era a Marciana Marina? I collegamenti con Beatrice Tolomei e Marcello Tornatore erano palesi, certo, ma...»
«Navarra aveva qualcuno di molto vicino che ha fatto a lungo il doppio gioco, informandomi su tutti gli spostamenti»
rispose subito l’altro, senza nemmeno fargli finire la domanda. «La stessa persona che ha fatto la soffiata e che oggi ha ottenuto una cella in isolamento».
Sconcertato, il commissario si paralizzò, spalancando gli occhi per la sorpresa.
«Pablo Cabrera!»
Sorridendo malinconico, Saltarini si curvò sul tavolino, avvicinandosi a lui.
«Mio caro commissario, lei è sempre stato molto acuto».
***

Man mano che saliva le scale buie verso il secondo piano del Caffè del Borgo, Saltarini sentiva le gambe farsi sempre più pesanti ed un nodo stringergli la gola. Ogni volta che aveva un appuntamento con quell’uomo, veniva puntualmente assalito dall’angosciante dubbio di non riuscire a rimanere vivo fino alla fine dell’incontro con la speranza di arrivare al successivo.
Sapeva che, in quanto funzionario dello Stato, non avrebbe dovuto cedere alle minacce di quei malviventi che, all’apparenza, sembravano cittadini per bene, tuttavia era anche cosciente del rischio che correva sua figlia, troppo piena di gioia di vivere per morire brutalmente nel fiore della sua adolescenza.
Arrivato alla fine del corridoio, perciò, bussò alla porta e, senza attendere una risposta, l’aprì, trovandosi davanti due uomini seduti su eleganti poltroncine a discutere affabilmente, mentre sorseggiavano un bicchiere di prosecco davanti al camino scoppiettante.
«Buonasera, questore» lo salutò John Miller, con una smorfia beffarda, facendo oscillare il vino nel calice. «Quali notizie ci porta? Io ed il signor Colonna ci stavamo proprio chiedendo quando sarebbe arrivato».
«Ho dovuto sistemare ciò che mi ha chiesto» rispose in un sussurro Saltarini, la fronte imperlata di sudore e non certo a causa del poco calore diffuso nella stanza.
A quel punto, Miller fece segno al socio di andare a chiudere la porta e quello ubbidì prontamente, per poi prendere il questore per un braccio e trascinarlo verso una terza poltrona disposta davanti alle altre due.
«Prego, si sieda» gli intimò il britannico, con un tono tutt’altro che amichevole. A quel punto, le ginocchia dell’altro cedettero e quello si lasciò cadere sul duro cuscino di pelle bordeaux.
«Come è andato il suo colloquio?» lo incalzò Colonna, riprendendo posto senza togliergli occhi di dosso.
«H-Ho...» cominciò l’uomo, tentennante. Poi, rendendosi conto di avere la voce impastata, si fermò un attimo e se la schiarì, prima di proseguire: «Ho parlato con il commissario Molinari, convincendolo a chiudere le indagini quanto prima».
«E non si è insospettito?» domandò Ascanio, fissandolo con fare dubbioso.
«Molinari ha fiducia in me e non contravverrà agli ordini» ribatté il questore, cercando di essere il più sicuro possibile. «Ma vigilerò comunque sul suo operato, intervenendo subito se dovessi notare qualcosa che non va».
«Sa cosa l’aspetta, se così non dovesse essere» intervenne, allora, Miller con un sottile ghigno. «Che cosa ci dice, invece, sulla guardia carceraria che ha collaborato con i miei sicari?»
Intuendo che il suo interlocutore aveva fretta di avvicinarsi al vero motivo di quella convocazione, Saltarini si prese il suo tempo per capire come dovesse esporre i fatti evitando altre vittime.
«Non appena sarà finita l’indagine, lascerà Roma. Mi ha assicurato che, con il lauto compenso che lei gli ha offerto, sarà ben contento di fuggire alle Seychelles».
«Molto bene» affermò in risposta il britannico, alzandosi dalla sedia e avvicinandosi al tavolino posto sul fondo della stanza, dove erano appoggiate alcune bottiglie. «So che si è occupato personalmente anche dei Landi, assicurandosi il loro silenzio, così come ha fatto con Cabrera».
«L’isolamento è la soluzione che preferiscono molti detenuti, per la loro stessa tutela, perciò il mio collega di Livorno non ha battuto ciglio quando gliel’ho proposto» gli riferì il questore, mentre quello si versava dell’altro vino, con un sorriso sadico che gli fece accapponare la pelle.
«A questo punto, direi che il problema è più che risolto» intervenne Ascanio, accavallando una gamba sull’altra, spostando lo sguardo sul suo socio. «Navarra era l’unico che, per vendetta, avrebbe potuto rivelare il suo segreto, ma ora non ci darà più problemi».
«Esattamente. Inoltre, ha avuto quello che meritava per aver tentato di prendermi in giro, negando di aver venduto le sue armi giocattolo ai sovietici per sabotare la costruzione del mio oleodotto in Medio Oriente» considerò il magnate, ripercorrendo i suoi passi e tornando a sedersi sulla poltrona. «Credeva di essere molto furbo, invece è stato il peggiore idiota che abbia mai conosciuto... Chi spera di raggirarmi, o peggio, di non ubbidirmi, paga con la vita!» concluse, finendo in un unico sorso tutto il prosecco che era rimasto nel bicchiere.
«Come quel povero diavolo che le faceva da copertura!» aggiunse Colonna, ridendo malvagiamente. «Devo ammettere che, quando ho capito come stavano realmente le cose, Lord Carter, ho trovato il suo piano per depistare i nemici semplicemente geniale».
Compiaciuto da quel commento, l’industriale piegò le labbra in una smorfia soddisfatta.
«Io non faccio sconti a chi si mette contro di me e Miller si era calato eccessivamente nella parte».
Desiderando solo allontanarsi il prima possibile da quell’essere mostruoso che lo teneva in pugno, Saltarini si alzò e, dopo aver deglutito a vuoto, si fece coraggio e gli chiese: «Lord Carter, con me ha finito?»
In risposta, quello gli puntò contro i suoi occhi plumbei e malvagi che sembravano avere la capacità di leggergli nel più profondo dell’animo e nutrirsi del terrore che ispiravano.
«
Sì, per ora, sì. Verrà informato a tempo debito sul prossimo lavoretto che dovrà svolgere per me» gli rispose stancamente, congedandolo con un pigro gesto della mano. «Continui ad eseguire tutti i miei ordini e continueremo ad andare d’accordo... non vorrei mai che alla piccola Annalisa succedesse qualcosa di tremendamente spiacevole».
A quelle parole, il questore sentì il proprio cuore arrestarsi, tuttavia, avendo ormai imparato a dissimulare le sue reazioni per la sua stessa sopravvivenza, atteggiò la sua espressione ad una maschera di indifferenza. Quindi, omaggiò i due uomini con un inchino piuttosto rigido e contenuto e lasciò la stanza.

***

Avvolti nei loro caldi cappotti di panno blu scuro, Marcello e Gerardo stavano percorrendo una Via della Conciliazione pressoché deserta, entrambi desiderosi di rientrare a casa prima di diventare due ghiaccioli, lasciandosi alle spalle
la cupa sagoma del grande abete natalizio che aveva decorato la piazza, ormai spoglio e in attesa di essere rimosso, in contrasto con la cupola di San Pietro, rifulgente nell’oscurità della sera.
«Sembra che il vento stia cambiando» osservò il biondo, alzando gli occhi verso il cielo e aggiustandosi la sciarpa grigia di cachemire per proteggersi dagli spifferi freddi. «D’altra parte, l’inverno è cominciato già da un pezzo».
L’altro, però, non diede segno d’aver sentito, anzi, continuò a camminare con lo sguardo rivolto a terra, immerso in chissà quali pensieri; dal canto suo, Marcello non insistette, giacché aveva notato che il suo amico era piuttosto assente da parecchio tempo e, sapendo che sarebbe stato inutile forzarlo a parlare, stava aspettando che fosse lui a farlo spontaneamente.
E quel momento doveva essere finalmente arrivato perché quello
si arrestò di colpo proprio accanto al basamento in marmo di uno degli imponenti lampioni che illuminavano il marciapiede, dando finalmente voce ai propri tormenti interiori.
«Mia madre è disperata, dice che se continuerò così arriverò al giorno del matrimonio senza il vestito!» sbottò.
Sorpreso, l’amico si voltò verso di lui, inarcando appena un sopracciglio.
«Ecco svelato il motivo per cui sei intrattabile da giorni!» commentò, vagamente ironico.
In risposta, Gerardo gesticolò nervosamente ed ammise, frustrato: «Non riesco a trovare il tempo per organizzarmi...»
«Be’, hai ancora un po’ di tempo, dato che mancano ancora quattro mesi» gli fece, però, notare, pacatamente, Marcello, cercando di calmarlo, poiché sapeva bene che l’amico, quando era sotto pressione, tendeva a perdere molto facilmente la lucidità. «Inoltre, da domani, potrai prenderti quanti giorni di ferie vorrai, visto che, finalmente, abbiamo concluso la trattativa con i clienti svizzeri» aggiunse.
Non del tutto convinto, l’altro sospirò e, abbastanza preoccupato, confessò: «A dire il vero, Vittoria ed io abbiamo ancora diverse cose da scegliere, a cominciare dalle bomboniere. Per colpa dei miei impegni, infatti, stiamo andando a rilento».
Di fronte a tanto scoraggiamento, sentendosi in dovere di spendere qualche parola di conforto per risollevare il suo migliore amico, il biondo gli si avvicinò e gli diede una pacca affettuosa sul braccio.
«Non pensare che ci voglia chissà quanto per comprare un abito da cerimonia. Io ho preso il primo che ho provato!» commentò, con una scrollata di spalle.
«Be’, grazie tante, è stata Vittoria a selezionarlo tra tutti i modelli!» sbuffò, inaspettatamente, Gerardo, mostrandosi piuttosto risentito. «E poi, sai bene che non è la stessa cosa, visto che addosso a te starebbe bene anche un sacco della spazzatura».
In un primo momento, spiazzato da una reazione simile, Marcello fissò l’altro con un misto di incredulità e sorpresa; tuttavia, si riebbe piuttosto rapidamente e, scoccandogli un’occhiata inquisitoria, lo apostrofò: «Perdona la schiettezza, ma devo proprio dirtelo: sembri una ragazzina isterica!»
Colpito da quelle parole, l’altro rimase a bocca aperta e rimase a guardarlo con espressione stralunata.
«Questi continui paragoni tra te e me sono perfettamente inutili, perché servono solo ad alimentare le tue insicurezze» proseguì il biondo, sempre con tono di rimprovero, cercando al tempo stesso di non essere troppo severo. Infatti, concluse dicendo: «Concentrati, invece, sui tuoi lati positivi... per esempio che sei la persona più buona e leale che conosco e tra le uniche tre che reputo degne di completa fiducia».
«Le altre due sarebbero Vittoria e Beatrice, per caso?» domandò Gerardo, sbattendo le palpebre.
«Secondo te?»
Per qualche secondo, tacquero entrambi. Poi, dopo un’attenta riflessione, quello strinse le spalle e, un po’ imbarazzato, ammise: «Scusami, mi sono lasciato prendere dall’agitazione... purtroppo, la verità è che ho paura di far sfigurare Vittoria».
«Vi conosco entrambi da una vita e tu sei l’unico uomo che la merita, perciò non credo che potresti mai farle fare brutta figura» replicò immediatamente l’altro, deciso. «Comunque, se pensi che possa aiutarti, per il vestito chiedi consiglio a Beatrice. Io non capisco niente di moda e sartoria, invece lei è bravissima e sarà molto contenta di darti una mano» aggiunse, sperando di essergli stato utile.
A quel punto, quello sembrò illuminarsi e mutò repentinamente espressione, mostrandosi molto sollevato.
«Hai ragione...» mormorò, soprappensiero. «In effetti, mi sento abbastanza stupido a non averci pensato prima da solo».
«Be’, in fondo gli amici servono anche a questo, non trovi?» osservò Marcello, sorridendo e, di riflesso, l’amico fece altrettanto.
Quindi, rasserenati, i due ripresero a camminare, giungendo fino all’incrocio con Via San Pio X.

«Come sta tuo papà?» chiese improvvisamente Gerardo, aspettando che il semaforo diventasse verde, così da poter attraversare Ponte Vittorio Emanuele II e portarsi sull’altra sponda del Tevere, dove avevano parcheggiato le auto.
«A volte meglio, a volte peggio» spiegò il biondo, con una punta di rassegnazione nella voce. «Purtroppo, i cicli di chemioterapia lo spossano parecchio. Tuttavia, il lato positivo della vicenda è che mia madre sta apprezzando le gioie della vita di campagna e questo rende mio padre molto felice».
Non riuscendo a trovare una risposta appropriata, l’amico si limitò ad annuire. Quella domanda, però, aveva risvegliato in Marcello le paure che aveva deciso di tenere confinate per non vivere bloccato nell’angoscia, ma, anzi, per avere verso il genitore un atteggiamento propositivo e speranzoso, come lui stesso aveva chiaramente detto di preferire.
«Ciò che mi spaventa è che i medici non escludono ancora il rischio di una ricaduta...» aggiunse, infatti, il ragazzo in un sussurro, tremando solo a pronunciare quelle parole.
«Cerca di non pensare al peggio, perché sono convinto che essere positivo possa essere d’aiuto sia a lui che a te» lo confortò, allora, con dolcezza l’altro.
Grato di poter sempre contare sulla preziosa amicizia di Gerardo, il biondo scosse la testa e, piegando appena le labbra, commentò: «Sai, credo che tu e Vittoria andrete molto d’accordo: entrambi sapete dare ottimi consigli agli altri, ma, quando si tratta di voi stessi siete un completo disastro».
«Già» ammise l’altro, sciogliendosi in un sorriso sincero, contento di condividere quel particolare con la donna che amava. «A proposito, la prossima volta che tuo papà viene a Roma senza dover andare in ospedale, se per lui non è un problema, a me e Vittoria farebbe piacere venirlo a trovare».
«Sicuramente ne sarà contento, gliene parlerò appena lo chiamerò di nuovo» affermò Marcello, lieto che i suoi amici non perdessero mai occasione per manifestare il proprio affetto nei confronti di suo padre.

Avevano appena messo piede sul marciapiede del Lungotevere dei Fiorentini, quando un’elegante berlina nera li superò, svoltando in Piazza Pasquale Paoli, esattamente dall’altra parte della strada. Nonostante le ruote non si fossero ancora completamente fermate, entrambi gli sportelli posteriori
si aprirono e ne uscirono due uomini più o meno della stessa altezza, i quali si avvicinarono e si strinsero la mano, come se si stessero salutando. E fu allora che, sotto la fioca luce dei lampioni, i ragazzi riconobbero due loro vecchie conoscenze.
«Guarda un po’ chi si vede: Colonna e Miller!» esclamò Marcello. «Devono appena aver finito un incontro al Caffè del Borgo».
«A quanto pare, sono diventati inseparabili» notò Gerardo, sospettoso. «Eppure, fino a qualche tempo fa si sopportavano a stento».
Concordando con l’amico, il biondo annuì brevemente e assottigliò lo sguardo, risoluto a non perdersi nemmeno una mossa di quei due. 
«Da quando Carter è morto, Miller sembra molto contento di aver preso il suo posto. Sono sempre più convinto che sia stato lui ad ucciderlo» borbottò.
«Anche se fosse così, non credo che possiamo farci niente» commentò saggiamente l’altro. «Accontentiamoci, invece, di non essere più costretti ad interagire con lui o con Ascanio».
Tuttavia, Marcello, nel vederli confabulare fitto fitto come stavano facendo, non riuscì a zittire la sua curiosità, pertanto, senza indugiare oltre, propose al suo socio: «Approfittiamo del buio e del discreto traffico per avvicinarci a loro senza farci vedere, che ne dici?»
Altrettanto interessato agli intrallazzi del rivale e del suo nuovo partner, quello fu subito d’accordo; così, con molta discrezione, i giovani attraversarono la strada e si appiattirono contro il muro dell’edificio che faceva angolo, ringraziando che i due uomini fossero abbastanza vicini da riuscire a cogliere gli ultimi stralci della loro conversazione.
«È un vero peccato, signor Colonna, che non possa trattenersi fino a cena. Avrei voluto presentarle alcuni collaboratori molto influenti» disse Miller, troppo sussiegoso per sembrare sinceramente rammaricato.
«Conoscerli sarebbe stato molto interessante, ma devo andare da mio figlio, perché la baby-sitter ha quasi finito il suo turno» gli rispose Ascanio, con un tono che confermava la sua fretta.
«Il moccioso non è ancora autosufficiente?» domandò, allora, il britannico, senza celare il proprio disgusto, come se ritenesse che i bambini piccoli fossero qualcosa di immondo.
«Ha appena compiuto cinque mesi!» protestò vivamente Colonna, indignato.
«Non può occuparsene la madre?»
«Quell’alcolizzata non sa badare nemmeno a se stessa e sono stato costretto a rinchiuderla in una clinica per convincerla a disintossicarsi» replicò il ragazzo, con un misto di compassione e disprezzo. «Anche se è buffo pensare che, se non si fosse ubriacata lo scorso Capodanno, a quest’ora non avrei nessun erede».
«Le donne non servono a nulla, ma, almeno, quell’inetta di sua moglie le ha dato un maschio» osservò Miller, concentrando in poche parole tutta la sua misogina e arretratezza mentale. «C’è qualche speranza che, un giorno, potrà essere qualcuno».
«Oh, ma di questo sono certo: mio figlio arriverà anche più in alto di me, perché sarà il primo in tutto!» esclamò l’altro, fomentato. «Per questo l’ho chiamato Massimo».
Nauseato da quanto udito, Marcello si scambiò un’occhiata con l’amico, che non tardò ad esprimere la propria repulsione verso i due, scuotendo schifato la testa.
In quel momento, si udirono brevi saluti e rumori di portiere che venivano chiuse con forza, quindi il rombo di un’auto che partiva. A quel punto, i ragazzi si decisero ad affacciarsi verso la piazza e trovarono solo Ascanio che, dopo aver lanciato uno sguardo fugace verso Castel Sant’Angelo, si incamminava in quella direzione.
«Tu sapevi che Maria Luisa si trova in una clinica?» chiese Gerardo, perplesso, non appena fu certo che il loro antagonista fosse abbastanza lontano. «Credevo fosse a Montecarlo dai suoi parenti».
«Così ha fatto credere Ascanio» rispose l’amico, cupo. «Non pensavo che la situazione fosse così grave».
«Sapere che quel bambino crescerà solo con il padre mi mette i brividi» considerò l’altro, contraendo il viso in una smorfia d’orrore.
«A chi lo dici...» concordò Marcello, con un piccolo sospiro, pensando all’inevitabile destino del piccolo Massimo: diventare uguale ad Ascanio, se non addirittura peggiore.
***

La voce di Beatrice, intenta a ripetere per l’esame imminente, lo accolse non appena imboccò il corridoio che portava in sala da pranzo e, inconsciamente, gli fece incurvare le labbra all’insù.
La trovò, infatti, seduta al tavolo della sala immersa in diversi libroni, sparsi davanti a lei; ce ne erano anche diversi piuttosto consunti, probabilmente presi in prestito dalla Biblioteca Nazionale, dove spesso la ragazza andava a studiare con le nuove amiche che aveva conosciuto all’università. 
«Ciao, Beatrice» la salutò, appoggiando una mano sullo schienale della sedia imbottita e chinandosi su di lei per darle un bacio sulla tempia. «Com’è andata oggi?»
«Bentornato!» lo accolse con un sorriso lei, dopo aver alzato la testa nella sua direzione. «Molto bene. A te, invece?»
«Una giornata tranquilla, come sempre» le rispose, facendo spallucce ed evitando di riferirle ciò che aveva appreso su Maria Luisa, come se fosse un pettegolezzo fresco. Sicuramente, ci sarebbe stata un’occasione più consona per parlarle delle malefatte di Ascanio Colonna.
«Sai, oggi m’ha chiamato la Fiammetta e ha detto che, la settimana prossima, verrà a Roma con il dottor Costa. Vorrebbero passare a trovarci» gli annunciò la ragazza, chiudendo con grazia un tomo ingiallito e dalla copertina semi-cadente. «La Sacra Rota1, infatti, sembra ben intenzionata ad annullare il matrimonio con Giacomo, visto che quella poverina è stata ingannata e costretta a sposarlo» spiegò, mettendosi in piedi davanti al marito.
«Sarebbe anche ora» commentò, in risposta, Marcello, aiutandola ad impilare tutti i volumi e i quaderni, mentre lei si dedicava a rimettere le penne colorate nell’astuccio.
«Con l’Ottavia, invece, abbiam avviato la cena e sarà pronta tra poco» aggiunse poi, spostando i libri su un tavolino più basso.
«Molto bene, così ho tempo di dare un’occhiata al notiziario» affermò lui. Poi, dopo essersi assicurato che la moglie non avesse più bisogno del suo aiuto, si andò a sedere sul divano, accendendo la televisione. Il telegiornale era già iniziato da un pezzo, tuttavia a Marcello non dispiacque aver saltato la rassegna politica e trovarsi già alla sequenza sui fatti di cronaca locale ed estera.
A quel punto, Beatrice lo raggiunse, accomodandosi sulle sue gambe, e il giovane le passò istintivamente un braccio intorno alla vita. Fu in quell’istante che il giornalista introdusse una notizia che li lasciò entrambi esterrefatti: «Questo pomeriggio, il noto trafficante d’armi Conrado de Navarra, arrestato alla fine dell’agosto scorso, è stato trovato impiccato nella sua cella del carcere di Rebibbia. Per ora, l’ipotesi delle autorità è che si tratti di suicidio».
Per qualche istante, i due ragazzi rimasero come pietrificati davanti allo schermo, per poi scambiarsi un’occhiata di puro sgomento, mentre, nella mente di Marcello si materializzava l’inquietante immagine di Navarra penzolante da una corda attaccata al soffitto, totalmente in contrasto con la personalità dello spagnolo. Infatti, per quanto sapesse di non possedere le competenze adatte, non pensava che quello potesse essere incline al suicidio, soprattutto dopo le minacce che gli aveva sentito indirizzare a Molinari. Era molto più probabile, invece, che il famoso lui avesse ordinato la sua morte e, nonostante il giovane odiasse profondamente Navarra per quello che aveva fatto a sua moglie, nel figurarsi un’esecuzione capitale per impiccagione, rabbrividì.
Scuotendo la testa per scrollarsi di dosso quell’orribile sensazione, allora, si voltò verso la ragazza e vide che era impallidita.
«Beatrice, stai bene?» le chiese, preoccupato, accarezzandole teneramente una guancia.
«S-Sì...» balbettò lei, riprendendosi dallo shock. Poi si mise in piedi, anche se con qualche difficoltà. «Vo’ a controllare la cena...» farfugliò poi, muovendo qualche passo incerto, confusa.
Preoccupato, il biondo la seguì con lo sguardo finché non scomparve dal suo campo visivo, poi, tornò a guardare la televisione, ma senza vederla sul serio, ancora troppo scosso da quello che aveva sentito. Diverse, infatti, erano le domande che lo tormentavano, anche se, d’altra parte, una vocina interiore gli suggeriva di dimenticare quanto prima l’intera faccenda, poiché c’era sicuramente dietro qualcosa che sarebbe stato meglio continuare ad ignorare.
Improvvisamente, un tonfo che sembrava provenire dal salotto attiguo alla sala da pranzo lo distrasse bruscamente dai suoi pensieri.
«Che cosa è caduto?» chiese a gran voce, per farsi sentire dalla moglie. Non ottenendo, però, risposta, riprovò, chiamandola per nome: «Beatrice...?»
Insospettito dal persistente silenzio, il giovane, allora, si alzò e si diresse nell’altra stanza, oppresso da un brutto presentimento che, purtroppo, si rivelò fondato quando trovò la ragazza sul tappeto, svenuta.
«Beatrice!»
Immediatamente, Marcello si precipitò da lei e nello sfiorarle la pelle, si rese conto che era fredda. Allora, appigliandosi ai vaghi ricordi che aveva sulle pratiche di primo soccorso, la sollevò da terra, prendendola in braccio, e la portò sul divano, adagiandovela infine con grande delicatezza.
«Tesoro mio, apri gli occhi...» la supplicò, angosciato, stringendole una mano e spostandole i capelli dal volto. Era già pronto a precipitarsi al telefono per chiamare un’ambulanza, quando, finalmente, la giovane riprese i sensi.
«Mmm» mugolò, intontita, guardandosi intorno, spaesata; poi, cercò di mettersi seduta, ma si bloccò subito. «Mi gira la testa...»
«Fai piano, non alzarti di scatto» le sussurrò Marcello, dolcemente, sorreggendole saldamente la schiena con una mano mentre con l’altra sistemava meglio i cuscini, per poi aiutarla a distendersi nuovamente.
«Come son finita sul divano?» chiese lei, frastornata.
«Sei svenuta» le rispose lui, sospirando. «Ora non muoverti, vado a prepararti acqua e zucchero».

Non erano passati nemmeno due minuti, che il ragazzo tornò dalla cucina reggendo in mano un bicchiere colmo quasi fino all’orlo.
«Ecco qui, ora bevilo lentamente» ordinò alla giovane, porgendoglielo. «Scommetto che non hai pranzato oggi, giusto?»
«Sì, ho preso un panino con altre colleghe del corso» rispose quella, cominciando a sorseggiare la mistura, senza trattenere una piccola smorfia per il sapore stucchevole.
«Penso che dovresti mangiare qualcosa di più sostanzioso, sai?» le fece notare il marito, tra il severo ed il preoccupato, sedendosi accanto a lei. «Anche se penso che la notizia di prima ti abbia scossa molto».
Sbattendo le palpebre, Beatrice rimase con il bicchiere a mezz’aria e lo guardò sorpresa.
«Quale?»
«Quella della morte di Navarra» le spiegò lui, perplesso, chiedendosi se fosse possibile che, restando turbata, avesse già rimosso quell’informazione. «Non ti ha suggestionata?»
«Oh, certo che no, non son così impressionabile!» esclamò lei, quasi offesa. «Non posso dire di esser contenta, ma mi sento sollevata che non possa più darci fastidio».
Stupito da quell’irritazione, Marcello si limitò ad annuire e tacque, non sapendo bene cosa dirle per il timore che si infervorasse e che potesse avere un altro mancamento. Anche perché, aveva avuto modo di verificare in prima persona quanto sua moglie, se indispettita, potesse essere infiammabile.
«Non son svenuta per quello» ammise, a quel punto, Beatrice in un sussurro, terminando ciò che restava dell’acqua zuccherata.
Di fronte ad una rivelazione simile, il ragazzo rimase ancor più stupito e, subito, fu assalito dalla tremenda sensazione che la moglie gli stesse nascondendo qualcosa di importante, proprio come aveva già fatto suo padre.
«Allora, sai il motivo...» mormorò, avvertendo una fitta allo stomaco.
«Be’, ecco... sì. Avrei voluto dirtelo stasera a cena...» cominciò lei, incerta. «Stamani sono andata a ritirare le analisi e...»
Alla parola “analisi”, Marcello sentì il buio calare su di lui, poiché, ormai aveva imparato ad associare a quel vocabolo solo angosce e timori.
«Che cos’hai? Perché non mi hai detto niente?» le chiese, allarmato, convinto che la situazione gli fosse già sfuggita di mano.
«Perché non ne ero sicura!» replicò l’altra, senza scomporsi, appoggiando il bicchiere vuoto sul tavolino lì accanto. «A volte, può capitare che...»
«Beatrice, io sono tuo marito ed esigo sapere sia quando stai bene che quando stai male!» la interruppe lui, dando uno stizzito colpo al cuscino su cui era seduto, infastidito per essere stato estromesso da un aspetto importante della vita di sua moglie.
A quel punto, lei lo guardò sbigottita per qualche istante, prima di scoppiare a ridere.
«Ma no, Marcello, non son malata!» esclamò, gioiosa. «Sono solo... incinta!»
Tra i due calò immediatamente il silenzio, che servì al giovane per capire cosa gli avesse effettivamente appena detto sua moglie.
«... incinta?» ripeté, stralunato, come se, ribadendo il concetto, questo potesse acquisire più significato.
Con un timido sorriso, la ragazza annuì e Marcello, rigido come un baccalà, si limitò a fissarla, deglutendo a vuoto: c’era un bambino in arrivo... avrebbe avuto un figlio!
A quel pensiero, si ritrovò ad arrossire per la figuraccia appena fatta con Beatrice, essendosi dimostrato, come suo solito, incline a trarre conclusioni catastrofiche, anche nei momenti meno indicati.
«Perché non dici niente?» gli chiese l’altra che, notando il suo mutismo, s’intristì. «Forse non sei contento?»
Smosso da quel tono ferito, Marcello si voltò verso la consorte e, finalmente, dispiegò le labbra in un gran sorriso.
«Ma certo che lo sono...» le disse, prendendola per i fianchi e avvicinandola a sé. «È la gioia più bella che mi hai dato, dopo aver accettato di sposarmi» le sussurrò poi, prima di darle un bacio alquanto appassionato.
In risposta, Beatrice, rasserenata, lo assecondò con la stessa intensità, sfiorandogli il volto e i ciuffi della frangia con la punta delle dita.
«So che sarà molto impegnativo, con l’università, il lavoro part-time alla merceria e tutto il resto, però...» considerò, tra un bacio e l’altro, pensierosa.
«Però, non sei sola. Ti aiuterò io, visto che è anche mio figlio» gli fece notare il ragazzo, premuroso, distaccandosi da lei quel tanto che bastava per guardarla negli occhi. «Basterà solo organizzarsi».
Sorridendo, felice, la giovane appoggiò la propria fronte contro quella del marito, lasciandosi coccolare dalle sue carezze.
«Sai già quando nascerà?» le chiese poi Marcello, desideroso di saperne di più.
«Oh, no, la dottoressa non ha detto molto, voleva prima accertarsi che fossi davvero incinta» spiegò la moglie, concitata, torturandosi una ciocca di capelli per sfogare l’agitazione del momento. «Inoltre, mi piacerebbe che andassimo insieme alla visita, soprattutto alla prima ecografia...»
«Ma certo che andremo insieme, anche io voglio vedere il nostro bambino! O bambina, ovviamente» la rassicurò lui, prendendole la mano libera e baciandole il dorso. Sapeva bene che, essendo solo l’inizio della gravidanza, si sarebbe visto ben poco, però era certo che sarebbe stato comunque emozionante.
«La Vittoria ha detto che ci siam fatti un regalo di Natale molto originale» commentò, inaspettatamente, l’altra, non riuscendo a nascondere un sorriso divertito. Marcello, però, non appena udì quel nome, non fu dello stesso avviso.
«Vittoria?» le domandò, infatti, augurandosi di aver capito male, pur sapendo quanto, purtroppo, fosse poco probabile. «Che cosa c’entra lei, esattamente?»
«L’ho incontrata fuori dal laboratorio analisi, oggi l’era il suo turno in ospedale» gli raccontò Beatrice, alzando le spalle con fare innocente.
«Quindi, l’ha saputo prima di me» osservò il giovane, infastidito, domandandosi come facesse la sua amica a trovarsi sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato, anche se, forse, lei avrebbe detto l’esatto contrario.
«Sì. Però, m’ha promesso che non lo dirà a nessuno, nemmeno a Gerardo, perché preferisce che siamo noi a dargli la notizia».
«Eh, certo!» borbottò Marcello, ironico, inarcando un sopracciglio. «L’importante è che lo sappia lei, mentre quel poveraccio è l’unico a non esserne al corrente!»
«M’ha fatto anche capire che le piacerebbe molto essere la madrina» aggiunse la ragazza, infine, sembrando perfino gradire l’idea.
A quel punto, il giovane decise di prendersi un paio di secondi per calmarsi ed evitare che l’invadenza senza speranza di Vittoria gli rovinasse quel bel momento.
«D’accordo, d’accordo» sospirò, sforzandosi di non inveire contro l’amica. «Allora, vorrà dire che inviteremo sia lei che Gerardo domani sera a cena, così avremo modo di dirlo anche a lui e chiedergli di fare da padrino al nascituro».
A Beatrice piacque molto la proposta e fu subito d’accordo, tuttavia, trovandosi in argomento, il ragazzo pensò bene di aggiungere: «Per quanto riguarda gli altri, a cominciare da mia madre, penso, invece, che possiamo anche aspettare qualche mese prima di dare l’annuncio».
«E tuo papà?» chiese istintivamente la ragazza, aggrottando appena la fronte. «Marcello, sai bene che è in una situazione... precaria. Son certa che saprà mantenere il segreto».
Messo di fronte a quell’obiezione, il giovane dovette riconoscere che sua moglie aveva assolutamente ragione, poiché, nonostante il signor Giancarlo non sembrasse in imminente pericolo, i medici non avevano certo taciuto i loro dubbi in merito. Una parte di Marcello, quella più razionale, infatti, era consapevole del fatto che il destino di suo padre fosse in bilico e fu la stessa che in quell’istante si ricordò di quello che gli aveva detto Gerardo poche ore prima.
«Anche perché credo che non avremmo potuto farlo più contento
, visto che desidera molto un altro nipotino o nipotina» considerò il giovane, meditabondo, augurandosi che, sapere che sarebbe stato presto di nuovo nonno, avrebbe aiutato l’uomo ad avere una ragione in più per farsi forza.
Regalandogli una carezza di conforto, Beatrice, a quel punto, richiamò la sua attenzione: «A proposito, si deve scegliere il nome!»
«Di già?» chiese il ragazzo, stupito. «Non è presto?»
Ma la moglie scosse la testa.
«Be’, possiam cominciare a farci un’idea. Anche se, a dirla tutta, questa è l’unica cosa che vorrei tener segreta fino all’ultimo».
Pensando che potesse essere un buon compromesso, il giovane annuì e, sistemandola meglio tra le proprie braccia, si preparò ad ascoltare quali opzioni aveva in mente.
«Se dovesse essere una bambina» esordì, «ti piacerebbe se la chiamassimo Elena, come mia madre?»
«È un bel nome» confermò l’altro. «D’altra parte, non la chiamerei Claudia nemmeno se non ci fosse già l’altra nipote».
Soddisfatta per la risposta ottenuta e per la sintonia che c’era con il consorte, Beatrice sorrise e proseguì: «Invece, se sarà un bambino, che ne dici di...»
Si fermò per un istante, concedendosi un sorriso, e poi si avvicinò di più a lui, sussurrandogli qualcosa all’orecchio.
«Ne sei sicura?» chiese Marcello, piacevolmente colpito.
«Non potrebbe esserci scelta migliore» decretò lei, serena.
All’improvviso, la finestra sulla parete in fondo si spalancò e una lieve brezza si insinuò nella stanza, giocando con le tende, gonfiandole, e solleticando i cristalli del lampadario, facendoli tintinnare. Accarezzò anche i due giovani, scompigliando con dolcezza i loro capelli.
«Eppure, l’ero convita di averla chiusa!» esclamò la ragazza, incredula, non riuscendo a capire come l’anta potesse essersi aperta, soprattutto con un venticello debole come quello.
«Tranquilla, ci penso io» affermò il giovane, aiutandola a rimettersi in piedi prima di alzarsi a sua volta.
Una volta che la finestra venne richiusa, il Vento dell’Ovest seppe che per lui era arrivato il
momento di congedarsi da Marcello e Beatrice e ricominciare il suo viaggio. Come ultimo saluto al parco di Villa Aurelia, che lo aveva accolto in quella lontana giornata autunnale, lo percorse in lungo e in largo, facendo vibrare ogni ramo e vorticare le foglie cadute in terra. Quindi, si librò in aria, sempre più in alto, fino alle nuvole, portandole con sé verso altri luoghi da esplorare, altre persone da conoscere e nuove storie da raccontare.



***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto per seguirmi sempre.
***
[N.d.A]
1. Sacra Rota: nome popolare per il Tribunale della Rota Romana, tribunale ordinario della Santa Sede. Tra le varie attività, si occupa anche di valutare i casi di richiesta di annullamento dei matrimoni celebrati secondo il rito cattolico.
***

Devo ammettere che, nell’arco di questi cinque anni, ci sono stati dei momenti in cui ho temuto che non sarei mai arrivata a questo punto.
Ho deciso di lasciare questo finale un po’ incompiuto, soprattutto per la parte poliziesca, perché tra gli anni ‘60 e ‘80 ci sono state moltissime vicende di cronaca - anche politica - irrisolte e volevo essere coerente con i tempi.
Come già ho anticipato, questa storia non avrà sequel canonici, tuttavia è vero che Marcello e Beatrice hanno un piccolo ruolo in un’altra mia storia, scritta qualche anno fa, e avranno un cameo nel racconto che ho in cantiere, dove compariranno anche Gerardo e Vittoria. 
Come ultimo “promemoria”, vi avviso che nelle prossime settimane revisionerò massicciamente i primi due capitoli di questa storia (le ragioni saranno spiegate a revisione ultimata).
Ringrazio di cuore chiunque mi abbia sostenuta: chi ha letto tutta la storia, anche silenziosamente; chi l’ha messa tra le preferite/ricordate/seguite; chi, in passato, mi ha fatto sapere la sua; chi mi ha lasciato una recensione allo scorso capitolo (Aven, StormyPhoenix).
Per seguire gli aggiornamenti sui miei prossimi lavori, vi lascio il solito link alla mia pagina facebook. Se, invece, volete avere una panoramica di tutte le trame connesse a questa, troverete sul blog una sorta di indice.
Grazie mille per essere rimasti fino alla fine e per aver atteso, pazientato, creduto di poterci arrivare.
Halley S.C.

P.S. Come bonus-premio per tutti voi temerari, ho cominciato a lavorare su alcuni disegni. Gerardo e Vittoria sono solo da colorare, Marcello e Beatrice sono in realizzazione. Appena finiti, saranno resi pubblici sulla mia pagina DeviantArt.
  
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