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Autore: milla4    17/08/2017    3 recensioni
* in Revisione *
Un gioco perverso.
Un mostro che spegne luci e due anime perse nella loro solitudine.
Un gioco con solo un vinitore, che detta regole senza vita.
Questa storia partecipa al contest “Award for best one-shot - II Edizione” indetto da Nirvana_04 sul forum di Efp.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Solo un gioco
 
 
 
 
 
 
Tesa  la mano verso il buio,  forte il rumore del gocciolare instancabile del liquido incolore, acre il fetore dei corpi mutilati gettati nell’angolo della stanza.
 
 

Ingrid entrò con circospezione, le unghie laccate di rosso rubavano la luce dell’unica lampada poggiata malamente per terra: il paralume era coperto di sangue raggrumato; sentì le schegge dello specchio frantumato  solleticarle la pianta del piede destro. Il latrato di un cane lontano la fece girare di scatto: la fretta è una  cattiva consigliera e lei quella sera non doveva sbagliare, errare di un passo.
Si avvicinò con passo svelto a quella che poteva essere orgogliosamente definita scena del crimine, i due corpi erano appoggiati l’uno sull’altro, come l’ abbraccio funereo della morte.
Lui,  vecchio con la bocca spalancata spezzato mentre regalava ai posteri un urlo muto, la faccia gonfia di liquidi, il viso sformato, gonfio di viscido liquido, la nudità del ventre prominente non corrotta dal pudore,  era accasciato contro il seno avvizzito di quella che per trentatré anni era stata la sua compagna di vita, sua moglie.
 
Non era stato facile ucciderli entrambi, contemporaneamente,  ma era la loro ora.
 
Estrasse il coltello dalla cintura pitonata e con quello  infilzò la pancia gonfia del vecchio che subito scoppiò riversando nella stanza l’interno di quell’uomo, come una bomba ad aria compressa;  di quello che una volta era stato un rispettabile ingegnere nautico  era rimasta una conca svuotata, un fetore che non avrebbe mai abbandonato quella stanza.
Un polmone era rimasto quasi integro nascosto sotto la gabbia toracica, lo estrasse.
Lasciò intatta la donna, mentre con il coltello incise il suo marchio sulla gamba destra dell’uomo; lì in basso, vicino alla caviglia, un piccolo neo che sarebbe passato inosservato a quegli idioti della polizia, ma il suo significato trascendeva il tempo, la realtà. Era un unicum del suo genere.
 
Ventitré.
 
Prese l’organo e lo gettò nel sacco di tela scurito dal sangue vecchio ormai rappreso;  fuori la porta dell’appartamento l’aspettava una tanica di accelerante, il suo contenuto fu sparso per la casa.
Di quello scempio sarebbe rimasta solo cenere e fumo e lei avrebbe potuto non pensare alla prossima persona che avrebbe perso la vita per permetterle di sopravvivere un altro anno.
 
E un altro ancora.
E ancora, ancora, ancora, ancora…
 
 
 

 
 
 
 
Alice

 
 
Due leoni scolpiti  delle zampe della scrivania in legno pregiato; la fioca luce dell'applique mischiata con il rosso mogano donavano un oscura vitalità a quegli esseri.
Alice Preston si passò distrattamente una mano sul collo, piegando il gomito lentamente: faceva caldo, la menopausa era ormai arrivata da tre anni e si era portata con sè osteoporosi, sterilità e quelle maledette vampate che non l’avevano mai più lasciata.
 
Era inverno  eppure il sudore le stava appannando gli occhiali da vista, impedendole di continuare la compilazione della lista per la tradizionale Festa delle castagne dei Wallis Grant.
Prese la pezzetta e cominciò a produrre movimenti circolari lentamente sulla fronte, senza fretta.
Madame Le Roy avrebbe dovuto aspettare il suo posto in fila come le altre trenta persone ancora in attesa di una sedia a quel circo ambulante che era l’alta società.
 
Un rumore le fece smettere immediatamente quel rituale: il campanello aveva suonato tre volte, le solite tre volte. Lasciò andare gli occhiali sul tavolo e si diresse spedita alla porta.
 Lorena non sarebbe andata ad aprire: tre suoni erano per la Signora, roba sua.
Si fermò davanti la porta dell’entrata principale, prese in mano il pomello e lo girò, nessuna emozione in quella mano, nessuna attesa.
Di scattò guardò per terra: il sacco era lì per terra, sul lato destro del porticato, accanto  alla statua in marmo  che tanto amava.
Alzò la testa voltandosi a destra poi a sinistra, era un’abitudine dura a morire anche se sapeva della sua inutilità: nessuno conosceva i piccoli segreti di quella casa... nessuno la conosceva veramente.
Si abbassò per prendere un manico, tirando su per la ventitreesima volta di quell’anno il sacco.
 
 
 
 
 

 
 
 Ingrid
 
 

 
La notte la tormentava in continuazione,  Ingrid sentiva il peso conficcarglisi prima nelle gambe salendo, poi, sino  alle tempie.
Si rigirò nel letto sapendo di non poterlo combatterem, dopotutto  era soltanto al primo giorno, con il passare dei giorni e delle settimane il rumore del sangue, delle viscere squarciate, delle urla sarebbero scemati in fretta, verso la fine sarebbe rimasta solo la conoscenza di aver spento una luce.
 
Luce, ricordava quando Jessy, la tata a cui sua madre l’ aveva affidata, le raccontava di come le persone siano piccole luci che brillano sotto il firmamento.
Lei ogni anno ne spegneva sempre di più.
 
Si passò una mano sulla fronte, il freddo le rendeva i gesti lenti e quel letto senza coperte non le permetteva di scaldarsi abbastanza: non le dava fastidio la paura che rievocavano le grida di terrore. Quello che le rimaneva impresso come un tarlo nel cranio, ogni singolo momento della sua vita, era il sapere,  avere la coscienza di aver spento la luce per qualcuno, che quella luce fosse importante per qualcuno.
 
La sua  era morta da tempo, schiacciata come un mozzicone di sigaretta;  aveva un vita normale per la maggior parte della gente, una giovane donna che non conosceva gli orrori della vita.  Nessuno sapeva che era lei l’orrore della sera, l’uomo nero da cui scappare, cercare riparo.
 
Uno, uno soltanto e sarebbe andata avanti.
 
Si alzò precipitosamente, la treccia color oro sbattè contro la schiena, tornò indietro e un’altra volta le si buttò contro come una liana, selvaggia come i suoi pensieri. Qualcuno c’era che conosceva, qualcuno c’era che poteva far finire tutto.
L’uomo accanto a lei era assopito, il sonno l’aveva vinto dopo una notte di sesso senza fine: niente la scalfiva, l’eccitazione ed il piacere non le entravano dentro, rimanevano all’esterno, sensazioni provate a fior di pelle.
Intense ma superficiali, rimanevano negli organi, nella pelle. Dalla durata di un battito di ciglia.
 
Aveva dodici anni e le sue prime vittime furono alcune compagne di classe, non era lei a scegliere, era istintiva la cosa,  ricordava ancora l’odore acre del sangue stazionarle sulle labbra coperte da un velo di lucidalabbra alla ciliegia; il coltello da macellaio era troppo grande per le sue mani ancora da bambina che poco istanti dopo avrebbero frugato in quei corpi senza vita per estrarne un feticcio, un organo per provare la sua obbedienza.
Furono chiamati i migliori esperti di psicologia criminale: dodici studentesse, dodici piccole donne dal ventre squarciato.
 
A ventiquattro sarebbe finita.
 
 
Si vestì in fretta,  il solito paio di pantaloni,  una maglietta presa dalla sedia: doveva fare piano, non voleva che il tizio conosciuto tre ore prime in un bar di periferia potesse svegliarsi e chiederle chi fosse quella strana ragazza che lo aveva invitato prepotentemente in casa sua, sul suo letto.
 
Non aveva paura che le portassero via nulla che le importasse:  in quel luogo vi erano solo il letto su cui l'uomo stava sbavando, una cucina sgombra di qualsiasi oggetto, né cibo, né pentole e un bagno fornito di water, doccia e lavandino. Punto.
Nessun libro, nessun oggetto di svago, solo candide pareti e una sedia su cui buttare i vestiti; era un rifugio spartano, ma le serviva soltanto per ripararsi dalla pioggia quando era inverno.
 
 
 


 
 
 Un duetto
 
 
 
La casa era vuota, anche l’ultimo invitato, quello più alticcio era stato opportunamente messo su un taxi dal maggiordomo della dimora e rispedito tra le dolci braccia del dopo sbornia.
Alice si gettò sulla poltrona del salotto privato;  il sedere coperto di lussuosa seta sprofondò nell’alcantara della sua vecchia e logora poltrona.
La schiena toccò appena il cuscino rosa che un rumore di vetri in frantumi la fece girare; lei era lì, la guardava come la guardava ogni rara volta che si vedevano, un misto tra disprezzo e noia.
Nessuna emozione forte.
-Hai il ventiquattro?- la voce di Alice era decisa: non era più la sua piccolina, non più da quando l’incidente gliel’aveva portata via e un altro gliel’aveva ridata.
-Non ancora, Alice… forse non ci sarà.-
Alice crollò sulla sua poltrona, era stanca.
 
Sapeva prima che  o poi sarebbe successo, ma aveva sempre sperato che lo spirito di sopravvivenza, di conservazione la potesse dissuadere.
-Hai ancora tempo: se…  se ti metti all’opera- a quella parola un ghigno comparve sul volto della giovane di fronte a lei.
- Entro stanotte potresti aver finito.- sussurrò, la voce scompariva ad ogni respiro.
 
La treccia bionda oscillò mentre  si alzò in piedi di scatto - Finito?  Finito qualcosa per poi cominciare il prossimo anno?-
 
Pausa, un sospiro.
 
-Io ti chiedo di smetterla, di finirla!- Ingrid aveva pronunciato quelle parole mentre scivolava lentamente verso la donna vestita elegantemente che la stava fissando smarrita dietro gli occhiali rifiniti d’oro.
Si inchinò fino ad esserle di fronte, occhi negli occhi, e le prese le spalle, stringendo:
- Lasciami andare-

 
Nausea, un senso di vuoto insieme a quelli che erano dei conati le fecero girare la testa.
Alice la stava perdendo di nuovo e questa volta sarebbe stato per sempre.
Tremò, le mani che le stringevano la schiena mollarono la presa.
 
-Avevi solo dodici anni, amavi avere dodici anni: troppo piccola per smettere di giocare, ma troppo grande per non poter prendere decisioni.- Si asciugò  il volto pieno di lacrime con le mani.
 
-Io ero sempre impegnata dopo che tuo padre ci aveva lasciate e così avevi finito per passare le giornate fuori, in giardino, tra una rosa e l’altra… ti inventavi storie,  la fantasia non ti avrebbe mai lasciata.
Quel giorno il catering per la festa di Maggio stava avendo problemi e così passai l’intero pomeriggio in telefonate con gente odiosa e senza vita.
Poi un rumore di frenata e tu non c’eri più.
Fu atroce, non ho altre parole su questo. E poi lei venne, richiamata dai miei lamenti, urlavo da giorni ormai di prendersi me e non te; che ero pronta, tu no.-
 
Tirò su con il naso –Non ricordo molto di  quel giorno solo che la sentii vicina, mi parlava attraverso i lembi sottili dell’aria, per lei una morte equivale a cento innocenti uccisi. Aveva sentito il mio dolore e mi aveva proposto la soluzione: avrebbe ritirato le sue fauci dal tuo piccolo corpo, l’anima ormai era perduta,  quando era arrivata già era stata presa, ma il corpo, le sue sensazioni tutto sarebbe tornato a vivere.
Ci sarebbe stato un tributo da pagare ogni anno, non è misericordiosa. Ma accettai subito.
Nessuno scotto è troppo grande pur di vivere-
 
 




 
∞Ingrid∞
 
 



Era un no. Lo capiva dai continui sospiri mentre l'altra parlava e a quel punto mise in gioco tutto il rancore accumulato in tanto tempo.
-Scotto? Io sto pagando da dodici fottuti anni, io ho dovuto massacrare persone pari al mio anno di nascita. Ogni anno più uno, ogni anno più sofferenza.
 
 
Sempre più sangue, più dolore, più colpa  su di me.
Ogni anno la mia vita acquista meno senso. Io voglio farla finita, mamma.-
 
 



 

 



 
 
 
Era ferma, in piedi davanti al divano, le mani strette a pugno, l’odio in entrambe
-Sai che non potrei mai farlo senza il tuo consenso. Non potrei mai farti questo!-
Era morta una volta, non avrebbe potuto toglierle nuovamente  una figlia.
 
Si avvicinò nuovamente verso la donna più anziana –la mia vita è nelle tue mani… ti prego- una lacrima le scivolò sul viso mentre una mano cercava la mano di sua madre, che prontamente scansò.
-No, non ti concedo il mio assenso, consenso o cosa diavolo sia. No.-
 
In ginocchio, avvicinò il viso alle gambe della persona che l’aveva messa la mondo, appoggiandovi la fronte.
Alice spostò le gambe, quel contatto per lei era come edera velenosa in una ferita aperta.
-Alic… mamma, ti prego. Sono un mostro, non posso più…- la supplica sprofondò in  un debole sussurro.
 
- Puoi anche ucciderti, ma non potrai mai avere il mio perdono. Ucciditi, buttati dal tetto, tagliati le vene, il collo, ma se devo darti il mio consenso allora è un no.-
Era fredda quella voce, come se il corpo della donna avesse prosciugato la vena di emozioni; Alice sentiva dentro il nulla più vuoto, quella mano, quel tocco della fronte erano stati quasi fastidiosi per lei, la sofferenza che riusciva a percepire la rendeva furiosa perché non poteva ammettere a se stessa che stava uccidendo sua figlia ogni secondo di più e una madre non dovrebbe volere questo. Eppure, per egoismo, lei voleva che quell’involucro le restasse accanto per sempre, anche se con il peso di mille anime, anche se stanca di vivere.
 
Rumore di lama nel petto, la carne si sciolse come burro sotto l’acciaio; una lunga scia di sangue sarebbe caduta sul tappeto da trecento dollari appena dieci secondi dopo; il coltello scese in giù, sul lato destro del corpo, dal cuore all’addome.
Alice si accasciò a terra senza capire nulla se non la vaga felicità di sapere che sua figlia fosse salva.
 
 
 
 
Ingrid aveva dovuto farlo, il suo odio, la sua rabbia l’avevano guidata;  pazza,  nei suoi occhi solo altro tempo senza vita e nel cuore una voragine che la divorava costantemente dall’interno.
 
L’odio la costrinse a prendere il coltello nascosto nella scarpa, la rabbia le fece scagliare i primi fendenti verso sua madre: insieme le avevano fatto guadagnare quell’anno di vita.
Si fermò a guardare il suo operato solo dopo che aveva finito, volevo solo uscire fuori da questo giro perverso di distruzione. Tutto qui, e lei le avrebbe voluto negare  questo.
Incise la sua firma vicino alla caviglia,  poi afferrò una busta gettata sotto la libreria e ci inserì il tributo.
Alla fine era stata una brava figlia, ora doveva solo completare il ciclo e tutto sarebbe ricominciato come ogni anno.
 
Appena finito di sezionare il corpo inanimato si rese conto di non sapere cosa farci di quel pezzo di Alice.
Rovistò sulla scrivania di sua madre, ma non trovò nulla solo appunti per una cena a cui non sarebbe ovviamente mai andata.
Prese quei fogli tra i pugni stringendo sempre più per sentirli nella carne, nel sangue, dentro sé; in quella scrivania c’era la Alice ufficiale, quella che tutti amavano e odiavano: per cercare il  lerciume  doveva controllare dove lo sporco si annidava.
Alzò la testa, consoceva il luogo doe sua madre tenesse i sacchi per la “consegna” ed era sicura che non fosse riuscita a compiere ancora l’ultima. Non aveva ancora capito cosa se ne facesse la morte di organi umani putrefatti, ma era giunta alla conclusione che per lei era solo un gioco.
Lei e sua madre due pedine.
Si diresse verso la cantina a passo spedito, giù per le scale vicino all’entrata di servizio in cucina,  poi, poco prima di arrivare alla porta, si girò verso il muro di destra e diede due piccoli colpetti tra due mattonelle.
Sentì qualcosa spostarsi, tastò intorno ai bordi per scoprire che erano staccate dalla malta; il sacco era ancora lì, il sangue rappreso insieme all’odore di decomposizione avevano reso quel piccolo interstizio tra i mattoni  insopportabile;  Ingrid si tenne alla ringhiera per non svenire: prese il sacco dove dietro scorse delle carte ingiallite dagli anni.
Posò il tutto e si mise a leggere freneticamente: molti erano ritagli di giornali in cui si parlava dei suoi omicidi senza che si nominasse alcun sospettato; tra questi  vi era un un biglietto solitario con solo una scritta: “Saint Rose station 414 Chicago” .
 
Annaspò.
Saint Rose station, il luogo dove sua made diceva di andare a incontrare il suo vecchio amico Stanley ogni volta che lui ritornava in città dopo i suoi lunghi viaggi per il mondo;  non lo aveva mai conosciuto Ingrid, eppure da bambina era sicura che fosse un uomo dolce e gentile, dalle grande guance rosse e che le volesse un gran bene.

 
 
 



 
 




 
La strada i notte era terribilmente silenziosa e rumorosa allo stesso tempo, non rumore di macchine, di bambini, ma di ubriachi, di puttane intente a fare il loro lavoro, e Ingrid inquinò quel frastuono con la sua leggerezza.
La macchina era parcheggiata davanti l’indirizzo, ma non vi era nulla, solo un enorme parco che stonava con l’ambiente circostante.
L’ingesso era accanto ad una lavanderia senza ormai più vetrate e dei senzatetto che dormivano ammassati l’uno sull’altro per proteggersi dal freddo. Dormivano per terra e non sulle panchine di quello strano terreno.
Strinse la mano intorno ai manici; era sola, solo lei poteva vederlo.
 
Vi entrò: strano come posto, gli alberi sembravano quasi come pietrificati,  dalla stessa altezza, alla stessa fragilità, attorcigliati tra loro creavano figure grottesche.
 
Quegli spuntoni di albero sembravano morti, nessun indizio malattia o di scarso nutrimenti erano solo infinti e vivi: il colore della terra umida contrastava con il pallore funereo di quegli esseri.
Un cimitero sterminato di tronchi mai nati, poi un anziano uomo si avvicinò ad uno di essi e, tirata fuori una cesoia, lo tranciò di netto fin dalla radice..
Il moncone perse immediatamente luce, poi lo strano essere dalla camicia a quadri rossi e dalla faccia senza sorriso le si avvicinò.  Non toccò i sacchi né li guardò.
 
Un gioco, era stato solo un gioco.
Non servivano parole, Ingrid  aspettò; non poteva conoscere nulla di quel posto, ma sentiva di appartenergli, che lei fosse più reale in quel luogo di quanto non lo sia stata in quei dodici anni.
 
L’uomo si avvicinò, quasi incurante della sua presenza, prese le cesoie e spuntò un altro ceppo;  le era immensamente vicino, quasi a toccarsi, ma nessuno dei due si mosse verso l’altro.
Ingrid non osava proferir parola e per tutto il tempo che l’anziano signore le si era avvicinato rimase muta, in silenzio, poi vide qualcosa che le inondò di panico,: se ne stava andando.
-Voglio finire- sussurrò con impeto.  Sì, erano le parole esatte ,le uniche che potessero esprimere il desiderio che la consumava dentro.
L’uomo di fermò, poi si chinò subito sulla destra, un fusto informe si stava attorcigliando vicino ad un fratello… era dello stesso colore degli altri, niente lo differenziava dal resto dei suoi compagni; una cesoia lo colpì tagliandolo di netto.
 
 


 
 
 



 
Era una mattina di agosto in Florida, il sole stava sorgendo e presto i primi bar avrebbero aperto per ospitare le colazioni di chi era mattiniero.
Roscoe Bettinson e Brian Dannyson erano intenti a smaltire l’ultima sbornia di un’interminabile settimana, cercando di andarsene a casa, quando una treccia bionda sbucò da sotto la loro auto.
Il ciclo era concluso.
 
La morte aveva vinto al suo stesso gioco.
 
   
 
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