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Autore: Urban BlackWolf    21/08/2017    4 recensioni
Inesorabilmente trascorse settimane da quella giornata di fine giugno, di Haruka e Michiru non si hanno più notizie. Le hanno cercate ovunque, interminabili ore passate tra le sponde di quel corso d'acqua quasi irriconoscibile, ma di loro non c’è più alcuna traccia.
Ma quando la speranza sembra ormai stata vinta dalla rassegnazione, un giovane dalla zazzera dorata e gli occhi verdi come i prati delle montagne ai quali appartiene, comparirà al servizio di una delle famiglie più in vista di Berna deciso a scoprire cosa realmente sia accaduto dopo quella maledetta sera.
-Sequel de: le trincee dei nostri cuori-
Genere: Avventura, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri | Personaggi: Haruka/Heles, Makoto/Morea, Michiru/Milena, Minako/Marta, Setsuna/Sidia | Coppie: Haruka/Michiru
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
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Fino alla fine del mondo

La mia promessa a te

 

Sequel del racconto

le trincee dei nostri cuori

 

I personaggi di Haruka Tenou, Michiru Kaiou, Ami Mizuno, Usagi Tsukino, Rei Hino, Makoto Kino e Minako Aino appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

Avvertenze: salve, generalmente non ne scrivo, ma devo avvertire chi non avesse letto le Trincee dei nostri cuori, soprattutto nei capitoli finali, che potrebbe trovarsi spiazzato nel seguire le varie situazioni che ho descritto. Perciò nell'eventualità non vi andasse di avventurarvi nella storia precedente, date a questa, una possibilità in più. Grazie e buona lettura.

 

 

Cambiamenti

 

 

 

Nydeggasse Strasse, Palazzo della famiglia Kaiou - centro storico di Berna.

Svizzera settentrionale – 15/9/1915

 

Il giovane cameriere bussò con discrezione alla porta entrando poi nello studio al cenno di una voce profonda. Richiudendo l'anta e puntando gli occhi al pavimento fece qualche passo avanti attendendo disposizioni. Una delle cose che più davano fastidio a quel bellissimo ragazzo entrato a servizio di una delle famiglie più in vista di Berna da neanche un mese, era proprio quella di dover mantenere sempre lo sguardo basso ogni qual volta interloquiva con persone non appartenenti alla servitù. Un urto di nervi paragonabile al dover tenere la giacca sempre in perfetto ordine anche quando si ritrovava a svolgere mansioni di fatica o lunghe camminate per qualche commissione. Sospirando sommessamente si permise di alzare il mento di quel niente che gli permettesse di osservare il signore della casa ancora piegato sul piano della sua scrivania intendo nella compilazione di uno scritto. Ancora un telegramma. L'ennesimo viaggio all'ufficio postale.

Alzando ancora un po' di più la testa la volto' verso il quadro che sapeva avrebbe trovato alla sua sinistra. Un piccolo oggetto magnificamente composto che ritraeva l'unica erede di quella famiglia e che era il motivo per il quale quel giovane montanaro era stato spinto ad accettare l'impiego in un ambiente completamente astruso e mal digerito dal suo spirito libero. Stirando le labbra iniziò a bearsi dell'immagine che ritraeva una ragazza affascinante, dai lunghi capelli castano chiari, gli occhi di un blu profondissimo e misterioso, il viso dolce, ma deciso, la postura elegante. Era bellissima. Era ossigeno puro alla disperazione che portava nel cuore da settimane. Era ricordo, passione, sentimento travolgente e sincero. Era reticenza e supplizio. Era comprensione, complicità e scoperta. Era tutta la felicità possibile racchiusa in una notte d'amore. In altre parole, era semplicemente e magnificamente Michiru Kaiou.

Continuando a tenere lo sguardo ormai perso in quelle pennellate, il cameriere non si accorse che l'uomo aveva finito di asciugare l'inchiostro dello scritto racchiudendolo in una piccola busta bianca e gli era ora davanti.

Viktor Claus Kaiou, delegato svizzero per gli affari esteri, uomo coltissimo dal carattere arcigno, ma giusto, sospirò a sua volta perdendosi nell'immagine della sua giovane figlia. Assieme alla moglie Flora aveva educato la sua ragazza con severo amore, aprendo il palazzo di famiglia agli intellettuali, agli artisti ed agli scrittori liberali del loro tempo, nella speranza di donarle una mente aperta ed elastica, cercando di non forzarla mai troppo nelle scelte e lasciandola vivere l’esperienze di crescita anche lontano dalla sua ala protettiva. Negli ultimi tempi di scoramento però, l'uomo era arrivato a chiedersi spesso se avesse sbagliato tutto, se non fosse stato meglio tenere Michiru più legata.

“Portate questo all'ufficio postale ed attendete risposta.” Disse lentamente facendo quasi sobbalzare il ragazzo che immediatamente abbassò la testa prendendo la busta tra le dita guantate.

“Si signore.” Rispose prontamente non aggiungendo altro.

Quel giovanotto alto e magro, pallido e con lo sguardo un po’ triste, avrebbe voluto fare qualcosa per lui, perché il dolore di sapere la sua dolce bambina ancora dispersa lo stava portando ad una consunzione spettrale.

Di Michiru non si sapeva più nulla da quando quel pazzo del suo fidanzato aveva avuto la brillante idea di far saltare parte di una strada che, a suo dire, avrebbe dovuto bloccarne la fuga e ricondurla a casa dalla sua famiglia. Se soltanto quella benedetta ragazza gli avesse confessato di non amare più quell'uomo, lui, un padre adorante pronto a tutto per la felicità del suo stesso sangue, avrebbe sbattuto fuori dalla porta Daniel Kurzh e tutta la sua smania arrivista in men che non si dica. Invece no, testarda ed indipendente si era tenuta tutto dentro covando per tanto tempo smanie di libertà femministe, ed ora non rimaneva ai suoi cari altro che continuare a sperare di ricevere qualche buona notizia.

“Avanti andate.” Ordinò al ragazzo dandogli le spalle.

Lui chinò leggermente la schiena in segno di saluto, lambendo con le iridi un'ultima volta il quadro ed uscendo dallo studio sentendosi il solito macigno premuto sul cuore. Iniziando ad incamminarsi con passo leggermente incerto verso la porta di servizio delle cucine si mise la busta nella tasca della giacca accarezzando i suppellettili ed i mobili disposti in buon ordine ai lati del corridoio, pensando a quanta classe e buon gusto trasudassero da quegli oggetti a volte anche antichi. Ogni cosa, ogni angolo presente il quel palazzetto barocco del centro storico di Berna parlava di lei e se da una parte era stato più che consolatorio prendere servizio tra quelle mura, le stesse non facevano altro che aizzargli contro una nostalgia canaglia e vigliacca, portandogli Michiru ogni santa notte per poi strappargliela ad ogni maledetta alba. Ma lo sapeva che sarebbe stata dura quando per pura casualità, parlando con Charlotte, la domestica privata della signora Kaiou, aveva saputo che in quella grande casa stavano cercando un cameriere.

Era rimasto fermo davanti a quel portone con in mano il suo niente fatto di pochi stracci per due giorni, indeciso sul da farsi, voglioso di chiedere, ma terrorizzato dal sapere. E poi il destino gli era venuto incontro con il viso di una giovane ragazzina. Nella vana speranza di avere così quelle notizie che se pur cercando fino allo sfinimento, non era riuscito a trovare, si era presentato speranzoso a colloquio con il signor Viktor ottenendo l’impiego.

Michiru era come scomparsa nel nulla. Nessuna traccia, nessun indizio, se non per una famiglia che si diceva avesse soccorso una ragazza dalle acque del FullerGraft fluss, il fiume che nasceva dall’omonima diga, ma che a sua volta si era trasferita chissà dove.

Se soltanto avessi tra le mani almeno il nome di quella famiglia o un indizio sulla sua nuova destinazione, ti cercherei fino alla fine del mondo come ti ho promesso, amore mio. Pensò non sentendo la voce femminile che stava cercando di attirare la sua attenzione.

“Giò, Giò... stai nuovamente nuotando fra le nuvole?”

Il ragazzo si fermò di colpo attirato da quel nome famigliare spalancando i suoi incredibili smeraldi che, puntualmente, portavano le guancie di Charlotte a colorirsi. “O scusami, non ti avevo sentita.” Si difese.

“Me ne sono accorta. Stai andando all'ufficio postale per conto del signore?” Chiese gioviale e civettuola come sempre mentre il ragazzo le rispondeva muovendo affermativamente la zazzera dorata.

“Non riesce proprio a darsi pace per la scomparsa della signorina Michiru. Speriamo che questa volta riceva buone nuove.”

Buone nuove. Erano quasi tre mesi che in quella famiglia non se ne avevano. Da quando il telegramma fieramente scritto dal Sottotenente dottor Kurzh non era arrivato con l’annuncio di un imminente ritorno a casa suo e di Michiru. Tre mesi d'angosciosa attesa dove Viktor Kaiou si era dipanato tra le ricerche della figlia e le azioni legali atte a distruggere quel folle Dragone austroungarico che gliela aveva portata via.

“Senti Giò sto andando al mercato, se vuoi ci passo io all'ufficio postale, così potrai riposarti un po' la gamba.”

“Ti ringrazio, ma non ce ne bisogno. Ormai è guarita bene ed ho solo bisogno di esercitarla il più possibile. Perciò non preoccuparti.” Le disse strizzandole un occhio.

“Certo che l'incidente che hai avuto dev'essere stato veramente tremendo per farti ancora zoppicare un po'.”

“Si... Tremendo.” Confessò tornando a camminare con la ragazza al fianco verso le cucine. Aveva inventato proprio una bella fantasia; per la verità una delle tante, una cavalcatura imbizzarrita che lo aveva falciato in pieno mentre stava attraversando la strada. Quello che invece era quasi riuscito a togliergli la vita provocandogli lacerazioni e fratture in gran parte del corpo era stato ben altro; un muro d'acqua gelida e potente, piombatogli addosso sul calar di una sera di fine giugno, che ne aveva squassato la pelle lasciandogli cicatrici un po' ovunque.

“Tenou.” La responsabile del personale, donna di un'arguzia fuori dal comune, uscì da dietro un angolo stringendo nella mano una banconota da un franco.

Clementine Rostervart, coriacea bavarese di circa una cinquantina d'anni dei quali più della metà passati a servizio della famiglia Kaiou, non amava vederli insieme, convinta com'era che prima o poi tra i due sarebbe accaduto qualcosa che avrebbe portato scompiglio all'interno del personale. Si era ritrovata a dover gestire quel ragazzetto troppo bello senza neanche essere stata interpellata dal padrone e questo l'aveva messa subito in uno stato di vigilanza. Dall'alto della sua esperienza Clementine conosceva la servitù e quel Giovanni Tenou tutto sembrava tranne un cameriere. Per quanto riguardasse postura, eleganza, scrittura, lettura, dialettica e capacità d'apprendimento, nulla da dire, ma in quel viso d'angelo c'era qualcosa che proprio non la convinceva. Gli occhi estremamente intelligenti e vispi. Lo spirito troppo libero per ritrovarsi padroni d’alcun chè.

“Tenou che fai ancora qui! Il signore ti ha dato un ordine.”

“Si signorina Rostervart.” Disse afferrando la banconota che gli sarebbe servita per il pagamento del telegramma.

“E tu Chiarlotte vai dalla cuoca a prendere la lista delle cose da comprare. Sbrigati!” Vide entrambi muoversi riprendendo però ancora una volta il ragazzo.

“Tenou. Prima di uscire vai a cambiarti la camicia. E' macchiata! Ricordati che lavori per la famiglia Kaiou e per questo devi sempre mantenere decoro sia nel vestire, che nell'agire, come nel parlare.”

Il ragazzo abbassò obbediente la zazzera prendendo le scale di servizio mentre la collega roteava gli occhi non vista dalla governante. Quante storie!

Così Giovanni salì le tre rampe di scale che lo avrebbero condotto alla soffitta, dove c'erano le camere della servitù e ad ogni alzata sentiva l'aria venirgli meno, vuoi per l'umidità folle che andava appesantendosi ad ogni piano, vuoi per il senso d'oppressione che quel ruolo gli stava dando da quando aveva deciso di interpretarlo. Inforcando l'arcata che dava accesso alla zona maschile ringraziò il cielo di non avere compagni di stanza ed una volta girata la chiave nella toppa della sua porta, entrò come una furia in quelle quattro mura spoglie avvertendo le prime lacrime scivolargli sulle guancie. Togliendosi con un gesto secco i guanti e la giacca nera per scaraventarli sul letto iniziò a sbottonarsi il gilè piazzandosi davanti al piccolo specchio fissando la sua immagine con enorme stizza.

“Pezzo di idiota! - Si disse aprendosi la camicia rivelando le bende che le premevano il seno. - Piantala di essere tanto donnicciola e cerca piuttosto di non tradirti! Lo sapevi che sarebbe stato difficile!” Una casa estranea, una città piena di gente e follemente caotica se paragonata alla solitudine delle montagne, un lavoro non suo ed un ruolo che non le apparteneva.

Serrando i pugni e passandosi l'avambraccio sugli occhi cancellò quell'ennesimo momento di debolezza per concentrarsi sull'unico oggetto che riusciva a darle forza e conforto; una piccola foto sottratta rattamente dallo studio del signor Kaiou un giorno che vi era entrata di nascosto in cerca di indizi sulla sorte della figlia.

Guardando l'immagine di una Michiru di circa diciotto anni, la bionda sorrise piegando la testa da un lato. “Mi manchi da morire sai?” Ma perché si ritrovava sempre da sola a parlare con i ricordi delle persone che aveva amato?

“Non voglio pensare che tu non sia più in questa vita mentre io si amore mio. Non posso! Non devo!” Si convinse riponendo l'immagine nel cassetto del comodino accanto ad un fazzoletto contenente una ciocca di quei capelli che tanto amava toccare, tornando a guardare la sua immagine riflessa. Forse l'ennesimo telegramma spedito del signor Viktor alla polizia locale di Altdorf avrebbe portato qualche buona novità.

“Coraggio Haruka! Hai un compito da portare a termine prima di sera.”

 

 

Passo della Ruscada, Bellinzona.

Svizzera meridionale

 

Sbatté con rabbia la canna sulla roccia dov'era seduta immettendo aria per evitare di cacciare l'ennesimo urlo. Non era possibile! Perché non riusciva a tirare su che una manciata di pesciolini striminziti che non avrebbero sfamato neanche un cucciolo?! Che cos'è che sbagliava? Quale gesto non compiva? E perché Haruka non era più accanto a lei a prenderla in giro spocchiosa, canzonandola su quanto schifo facesse nell'arte della pesca?

Giovanna sbuffò avvicinando le ginocchia al petto sprofondando il viso nell'abisso della sua solitaria lotta quotidiana. Sapeva che se non avesse imparato a cavarsela in maniera più concreta non avrebbe mai passato l'inverno com'era invece riuscita a fare la sorella l'anno precedente, ma non poteva far altro che impegnarsi, stringere i denti e cercare di andare avanti fino a dove la sua ormai scarsa forza l'avrebbe spinta. Si sentiva stanca e patetica. Non potendo tornare a Bellinzona per via dell'accusa di furto che ancora le pendeva sul capo, aveva deciso di rifugiarsi nella baita di Haruka, dove le sue cose, il suo diario e persino i suoi vestiti, la stavano aiutando a lenire la sofferenza della sua morte. L'aveva cercata tanto la sua bellissima sorellina, su e giù per il greto di quel fiume maledetto, non trovando più alcuna traccia di lei, ne tanto meno di Michiru, che in un primo momento aveva pensato al sicuro insieme ad Ami e Makoto e che invece aveva scoperto successivamente essere accorsa sotto la struttura della diga per aiutare la sua bionda. E quando aveva visto il Sottotenente Daniel Kurzh allontanarsi con il cavallo dell'amica, a Giovanna era apparso tutto drammaticamente cristallino. Michiru non avrebbe mai lasciato Haruka.

Così quella sera aveva perso entrambe e di rimpetto, a distanza di giorni, si era ritrovata suo malgrado ad allontanare anche Stefano, colpevolizzandolo inconsciamente per averle impedito di andare a soccorrere la sorella.

“Lasciami Stefano devo andare. Lasciami!” Gli aveva urlato con tutto il fiato che aveva in corpo divincolandosi come una Erinni pronta a farsi giustizia da sola.

Ma lui no, non le aveva permesso di suicidarsi e così, bloccata anche dal corpo di Minako che tremante le si era stretta al collo iniziando a piangere, non aveva potuto far altro che avvertire la deflagrazione della carica crollando in ginocchio urlando al vento il nome di Haruka. L'avevano salvata, ma Giò non era riuscita a farsene una ragione, soprattutto nei confronti del ragazzo, che paziente aveva cercato di starle accanto, ma che di fatto era stato allontanato neanche troppo velatamente. Si amavano e tanto. Erano diventati amici e complici, ma Giovanna ormai aveva il cuore spezzato e Stefano sentiva di non avere più la pazienza di aspettare.

Afferrando la canna la ragazza si alzò guardando i mulinelli d'acqua. “Sarebbe molto più semplice se trovassi il coraggio di farla finita subito invece che attendere l'inverno.” Disse rammaricata dal suo coriaceo spirito di conservazione.

Toccando il lembo del maglione enorme che poteva indossare solamente con l'aiuto di una cinta stretta alla vita, sorrise alzando le spalle a quel nichilismo. Di carattere sempre allegro e gioviale, iniziava a trovare il suo vittimismo stucchevole e ridondante. In verità Giovanna aveva sempre creduto di essere più forte di così, ritrovandosi ora stupita della negatività con la quale aveva affrontato la scomparsa di Haruka e Michiru. Aveva provato a reagire pensando di seguire Minako e Makoto al nord, verso la frontiera, dove Aino necessitava di avere delle notizie sul ferimento in battaglia del fratello maggiore Wolfgang, ma dopo un primo momento di eccitazione dovuto al cambiamento d'aria, l'abbattimento emozionale l'aveva colpita costringendola a lasciare quelle ragazze che erano state delle buone amiche per tutta la durata del loro viaggio avventuroso. E così si era allontanata anche da loro ripercorrendo a ritroso ed in solitaria, i battuti che quell'improvvisata famiglia d’allegro cicaleccio aveva calpestato, tornando verso la sua Bellinzona. Ed ora le mancava la voce squillante di Usagi, il broncio di Rea, le invenzioni culinarie di Makoto, lo spalleggiarsi con Ami e la forza di un fiore d’acciaio come Minako.

Aveva scelto di essere sola Giovanna, promettendo al suo cuore di non amare più così. Per non soffrire più così e nel provare a guarire o a soccombere definitivamente, aveva deciso di sostituirsi alla sorella, occupando gli spazi di quella baita sorridendo al caotico controllo che Haruka aveva insito nella sua natura, provando a vivere come lei, cacciando, pescando, raccogliendo, leggendo al fuoco serale la miriade di libri che per anni erano stati i suoi amici più cari e scoprendone i lati nascosti grazie alle pagine dei suoi diari. Aveva preso anche l'abitudine d'indossare quel maglione grigio che era stato del nonno e che anche Haruka trovava piuttosto largo, provando ad andare avanti, sapendo da persona adulta qual'era, di stare invece rimanendo ferma.

 

 

Ospedale riabilitativo di Muhleberg

Svizzera settentrionale

 

Wolfgang sorrise alla sorella porgendole le grucce. Se la ginnastica riabilitativa fosse continuata ad andare così bene, in meno di un mese lui e la sua Mina avrebbero potuto far ritorno a Vienna, dove l'intera famiglia Aino stava attendendo di riabbracciarli con ansia. Era da tanto che mancavano da casa, per motivi differenti, anche se entrambi validissimi. La sorella per via degli studi intrapresi a Merano e lui per gli ovvi motivi di una guerra assurda che troppo velocemente aveva preso i connotati di mondiale. Ferito sul Fronte Occidentale mentre stava combattendo per il suo paese, era stato trasferito da un ospedale da campo a quel centro elvetico riabilitativo nella speranza di riappropriarsi di gran parte dei movimenti perduti.

“Ti fa male la protesi?” Chiese la sorella corrugando la fronte spaziosa assumendo quell'aria matura che ormai faceva sempre più parte delle sue espressioni.

“Assolutamente no tesoro.” Rispose lui positivista nonostante avesse dovuto subire la parziale amputazione di una gamba.

Avrebbe potuto andare molto peggio e lui lo sapeva benissimo dopo tutto quello che aveva visto al fronte, in trincea. Perdere una o entrambe le mani, le braccia, la vita o il senno, faceva parte della pariglia da offrire alla sorte per l'occupazione del suolo francese. Anche se a lui poi poco importava di quel paese. Wolfgang Aino si riteneva estremamente fortunato, soprattutto perché conciato in quel modo aveva un certificato medico che lo avrebbe riformato e spedito di corsa a casa. E poi non era ne un contadino, ne un operaio, non aveva bisogno di entrambe le gambe. Di famiglia più che benestante poteva vivere il resto della sua vita anche con una protesi in legno di quercia, per di più neanche troppo invalidante. C'era chi da quel conflitto era uscito sicuramente peggio, sia fisicamente che moralmente. Gli incubi delle granate, il freddo delle trincee, gli assalti alla baionetta con il petto offerto al nemico appostato dalla parte opposta dei reticolati e dietro, alle spalle, la guardia nazionale pronta a colpire ogni barlume d'ipotetica diserzione. E poi la paura di quella nuova arma tanto decantata dalle alte schiere dei gerarchi di mezza Europa; il gas, subdolo fumo sputato addosso dal nemico, mefitica nebbia che entrava nei polmoni incendiandoli e rendeva irriconoscibile gli uomini bruciandone la pelle.

Ebbene si, Wolfgang Aino si riteneva uomo assai fortunato, era ancora vivo, aveva riacquistato il sonno, riusciva a camminare ormai quasi senza stampelle e accanto aveva sua sorella minore, la luce dei suoi occhi. In più nella sezione femminile dell'ospedale era stata ricoverata una ragazza che lo stava particolarmente interessando e visto la tenera simpatia nata tra i due durante le rispettive convalescenze, Wolf sentiva di stare riappropriandosi di quella dignità maschile che un chirurgo da campo gli aveva tolto. A tal proposito Minako non gli stava rendendo la vita facile, anzi, conoscendo abbastanza bene quella ragazza e le pulsioni che battevano nel suo cuore, gli aveva categoricamente proibito di stressarla con approcci troppo confidenziali e richieste di amicizia poco consone alla delicata situazione medica che la giovane bernese stava affrontando.

“Ce la fai ad andare da solo in camera? Vorrei passare da Milena e vedere come se la sta cavando con i bambini.” Chiese la biondina guardando in direzione della struttura mattonata adibita a scuola e centro d'accoglienza.

“Certo vai pure Mina e portale i miei saluti.” Sorridente la vide scuotere severa la testa per poi dirigersi lentamente verso il giardino.

Suo fratello era dolcissimo e non avrebbe mai fatto del male a quella donna, ma Minako glielo leggeva negli occhi che si stava interessando un po' troppo a lei e non poteva, perché non appena la ragazza fosse riuscita a ritrovare il suo essere, il suo passato, Wolfgang inesorabilmente avrebbe finito per soffrirne. Arrivando al padiglione femminile dell'ospedale e svoltato un'altro paio di angoli, si trovò la struttura di quella che era nel tempo diventata una piccola scuola per i ragazzini che avevano genitori, parenti o che erano loro stessi ricoverati. Sforzarsi tutti insieme per tenerli impegnati era molto gratificante, anche se faceva una gran pena sapere come esseri innocenti come quelli avessero dovuto subire gli attacchi della vita già in così giovane età.

Fermandosi alla luce di un sole quasi autunnale, la viennese sorrise trovando l'amica più grande immersa in una delle sue tante lezioni di disegno. Altruista nonostante la spessa fasciatura che ancora le premeva la fronte ricordasse che anche lei era in convalescenza, quella bellissima ragazza dallo sguardo calmo e leggermente assente, rammentò a Minako le lezioni al San Giovanni, quando quella stessa insegnante, questa volta votata alla musica, aveva cercato di far appassionare lei ed Usagi allo studio del violino.

Le mancavano tanto quelle ore spensierate vissute fino alla primavera scorsa, quando una serie di eventi partiti proprio dal ferimento di Wolfgang sul fronte occidentale, aveva spinto lei e le sue amiche più strette ad intraprendere un viaggio che le avrebbe portate tutte a maturare improvvisamente.

“Mina sei qui.”

Scostando lo sguardo dalla donna più grande seduta sul prato assieme ad una decina di bambini, la biondina lo rivolse al verde chiaro della ragazza più alta che le si fermò al fianco appoggiandole una mano sulla spalla.

“Hai parlato con il Dottor Grafft? Ci sono novità Mako?”

“No purtroppo. Tutto come sempre. La sua mente sembra diventata una tabula rasa. E’ incredibile come non ricordi più nulla, ma riesca ancora a trovare dentro di se il suo essere stata un’insegnante.”

“Sai mi sento un verme sia nei suoi confronti, che in quelli dei genitori.” Confessò sospirando.

“Lo sai che ci è stato imposto di tenerle nascosto chi realmente sia. L'ultima crisi è stata devastante. Non riuscirebbe a sopportarne altre tanto dolorose.”

“Si ma... la sua famiglia è conosciuta a Berna. Ci metteremo niente a rintracciarla e a rassicurarla sulla sorte della loro figlia.” A Minako non piaceva quella storia, non capiva proprio perché si dovesse celare anche ai parenti dell’amica il suo essere ancora in vita. Non appena la viennese l’aveva riconosciuta in una delle tante ragazze ricoverate a Muhleberg aveva gioito incredula attendendo con fiducia il suo risveglio dal coma e quando finalmente le sue palpebre erano riuscite faticosamente a riaprirsi al mondo, lo scoprire di non avere più ricordi aveva scioccato tutti. E non era possibile forzarla, perché ogni qual volta le amiche provavano a darle piccole e discrete informazioni sul suo passato, dolori lancinanti prendevano a tormentare quella povera sfortunata.

Così per cercare di non destabilizzarla più di quanto non fosse già, di comune accordo con la Dottoressa Meiou che l'aveva in cura, avevano deciso di lasciarle l'identità con la quale era stata ricoverata.

“Cerchiamo di fidarci dei dottori, in fin dei conti nel campo dei traumi mentali sono i migliori, no? E comunque guarda.” Makoto porse una circolare emanata dallo Stato Maggiore elvetico.

La viennese ne lesse velocemente il contenuto ridendo incredula. “Ma sono impazziti?! Non possono fare una cosa del genere!”

“O si che possono. Lo hanno già fatto.”

 

 

Badgasse Strasse, centro storico di Berna.

Svizzera settentrionale

 

“Come non si possono più inviare e ricevere telegrammi? Cos'è questa novità!?”

Haruka guardò con sgomento l'addetto dell'ufficio postale dimenticando nella mano la busta con il suo contenuto.

“Giovanotto non è certo colpa mia. E’ una disposizione dallo Stato Maggiore. Ogni attività telegrafica e telefonica sul suolo nazionale è sospesa fino a data da destinarsi.”

“Ma… Ma come faremo a comunicare con i piccioni viaggiatori?” Chiese sarcastica sbattendo un pugno sul legno del bancone attirando su di se gli occhi di tutti gli avventori presenti nella stanza.

“Vi prego di calmarvi! Se avete delle rimostranze andate direttamente dai militari e lasciate lavorare chi sta cercando di fare il proprio dovere!” Gli urlò contro sicuramente esasperato dall’ennesima lamentela della giornata. Quella disposizione di sicurezza, indubbiamente avvallata per evitare che informazioni troppo importanti potessero essere preda delle mire dei paesi confinanti, avrebbe inesorabilmente bloccato il paese. Già l’economia, prima del ’14 florida, stava subendo scossoni mai avvertiti prima, adesso ci si metteva anche questa.

Sospirando vinta Haruka borbottò una mezza scusa tornando mestamente sui suoi passi. Uscendo dall’ufficio postale si soffermò a leggere il dispaccio appeso sulla porta d’ingresso scuotendo il capo. Nella fretta di far inviare quello scritto non ci aveva neanche badato.

Maledizione e adesso? Pensò scendendo lentamente i gradini mentre la luce radente del sole le feriva le iridi chiare costringendola ad alzare una mano per schermarsi il viso.

Questa non ci voleva. Sarà sempre più difficile mettersi in contatto con i vari distretti di polizia e gli uomini pagati dal signor Viktor per cercare Michiru. Con passo legnoso iniziò ad incamminarsi verso la casa dei Kaiou cercando di fare il punto. Non è che credesse molto nell’efficacia di quelle ricerche, anche perché ormai erano passate settimane da quando l’ultima nuova era stata recapitata in famiglia. Per lei era solo una folle spesa di denaro e tempo che avrebbe potuto essere investito molto meglio, come stava cercando di fare lei. Erano giorni che provava a forzare la reticenza di Charlotte per appropriarsi di un documento che avrebbe potuto alimentare nuovamente le già scarse fiamme della sua speranza, ma in questo caso sembrava che neanche il suo pur magnetico fascino potesse sbloccare la ragazza.

“Charlotte ho bisogno di entrare nella biblioteca del signore. Devo solamente verificare una cosa!" Le aveva chiesto più e più volte da quando l’idea di consultare le carte agrarie della zona di Altdorf aveva iniziato a formicolarle tra i sogni della notte.

“No Giovanni quella stanza è proibita alla servitù. Solo la signorina Rostervart ha il permesso di entrarvi per mettere ordine." Un timore degno del Barbablù.

E non c’erano state storie. La questione era finita li. Mani in tasca e testa bassa Haruka continuò a muovere un piede appresso all’altro accorgendosi finalmente e con grandissimo rammarico, che la carreggiata principale della Badgasse Strasse era libera dai classici veicoli a motore che tanto le facevano battere il cuore quando riusciva ad uscire da quelle quattro mura. Le macchine erano sparite! L’ennesima costrizione!

Bene! Niente telegrammi, telefonate o spostamenti in macchina! Questo vuol dire che prima o poi da nord o da sud, da est o da ovest qualcuno invaderà i nostri confini. - Si disse fermandosi al centro del marciapiede respirando decisa l’aria del pomeriggio. - Poco male! Io andrò avanti lo stesso e per conto mio. Basta tergiversare! Devo entrare il quella biblioteca e prendere quello che mi serve. Devo capire dov’è finita quella benedetta famiglia.

 

Quella stessa sera a cena nessuno aveva gran che voglia di parlare. Seduti attorno alla grande tavola della cucina, tutta la servitù stava desinando come sempre dopo aver atteso che i signori si fossero ritirati nelle loro stanze. Oltre ad Haruka, Charlotte e la signorina Rostervart, vi erano anche l’autista, con il quale la bionda andava, per ovvi motivi di assonanza veicolare, d’amore e d’accordo, il cuoco e sua moglie. Tutte persone tranquille, gentili ed alla mano, fatta eccezione per la severissima e controllata Clementine, che continuava a guardare Haruka in modo sospettoso. A parte la cameriera e naturalmente Tenou, erano tutti in servizio presso quella casa da sempre. Avevano visto crescere Michiru affezionandosi a lei come ad una di famiglia e si erano avviliti quanto gli stessi genitori nell’apprendere delle nuove disposizioni sulle comunicazioni nazionali. Se prima inviare e ricevere notizie era comunque difficoltoso, adesso sarebbe diventato praticamente impossibile.

Ma ad Haruka quei discorsi non interessavano. Non più ormai. All’uscita dell’ufficio postale si era convinta che avrebbe agito quella notte stessa prendendo il toro per le corna e in un modo o nell’altro sarebbe entrata in quella biblioteca. Dopo aver visto la reazione del signor Kaiou alla riconsegna della missiva, era ancora più decisa ad agire. L’unico problema era l’impossessarsi della chiave che solo il padrone e la governante avevano.

Sorridendo all’ennesima mestolata di spezzatino gettatole energicamente nel piatto da Maria, la cuoca, Haruka sbirciò il grembiule avorio che la signorina Rostervart portava sopra l’abito scuro quando non era in presenza dei signori. Il mazzo di chiavi che in pratica davano accesso a tutte le zone del palazzo erano nella tasca di sinistra, ne era certa. Quella donna era più metodica di una papera in una fattoria. Il problema della ragazza era come riuscire ad impossessarsene. Non poteva certo entrare nella stanza della donna per rubargliele, com’era fuori discussione provare a circuirla per ottenere qualcosa. Se pur bella alla bionda proprio non riuscivano quei trucchetti illusori. E poi le sarebbe sembrato di “tradire” la sua Michiru se si fosse azzardata anche solo ad avvicinarsi ad un’altra donna. Forse avrebbe potuto provare a forzare la serratura. In fin dei conti si era ritrovata già a farlo in vita sua.

“Ruka, ma che cosa stai facendo?” Una Kaiou bagnata fradicia ed esausta dopo una rocambolesca fuga.

“Tranquilla Michi! So quello che faccio!” Aveva risposto forzando con la lama del suo coltello un vecchio lucchetto arrugginito prima che il loro amore avesse trovato compimento nella loro prima notte.

A quel ricordo Haruka affondò il cucchiaio nel piatto ricacciando indietro le lacrime. No, non si sarebbe arresa davanti ad una porta chiusa, ma non poteva trasformarsi in scassinatrice. Sarebbe stata scoperta e cacciata a calci, sempre se non l’avessero messa agli arresti. Diamine qualcosa però doveva pur inventarsi!

Pensa Ruka. Pensa… iniziò a ripetersi come faceva quando doveva trovare la soluzione ad un qualsiasi problema. E poi la vide! La caraffa di vino rosso proprio al centro della tavola.

 

 

 

 

 

Note dell'autrice: Salve…

Chi c’è?

Oddio scrivere è diventata quasi una droga che mi ha azzerato la vita sociale hahaha. Poco male!

Allora, per chi mi avesse seguita nel racconto precedente non dovrebbe essere risultato troppo complicato dipanarsi in quella gran confusione che sono i miei pensieri. Anche se alla fine della seconda pagina credo ci sia stato panico vero! Abbiamo ritrovato una bionda “sana” (ancora non del tutto, ma è di scorza dura e guarirà presto) e salva, ma camuffata da ragazzo, sotto falsa identità (notare la dolcezza di aver scelto il nome della sorellona al maschile, anche se conoscendone la bastardaggine lo avrà sicuramente fatto per comodità), lavorare come cameriere in casa della sua dea, speranzosa di poter trovare anche solo un indizio che le possa far capire se Michi sia sopravvissuta al crollo della diga.

Poi abbiamo Makoto e Minako, finalmente riunitasi al fratello Wolfgang e non iniziate a prenderlo di mira povero ragazzo che già è stato “baciato” dalla sorte abbastanza. Anche se è interessato a Michiru non è il belloccio popò.

Michiru: dolenti note. Naturalmente avete capito che si cela dietro il nome di Milena, giusto? Ricoverata nella stessa struttura dove sono presenti anche le sue due ex allieve, Kaiou sta sopportando la perdita di Haruka semplicemente … non ricordando. Non è stato perciò un errore di battitura chiamarla così. Il motivo c’è e lo concretizzerò meglio più avanti. Pian piano dipanerò tutti i nodi tranquille.

Giovanna: non mi sta prendendo per niente bene la “morte” della sua piccola Ruka. Non possiamo darle torto e mi fa abbastanza tenerezza pensarla andare in giro per la foresta fucile in mano “protetta” dal caldo maglione della sorella.

Spero che questo nuovo arco vi piaccia. Non so quanto lungo verrà, perché ad ogni capoverso mi entrano idee, ma lo scopriremo insieme.

Un inciso. Durante la Grande Guerra in Svizzera furono realmente proibite le telefonate, l’emissione di telegrammi e la circolazione delle auto (direzionate tutte o quasi a Zurigo). Ho anche studiato!!!

A prestissimo

W

 

 

   
 
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