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Autore: Shadow writer    29/08/2017    2 recensioni
Dopo l'ultimo caso, che ha messo in discussione la sua carriera e la sua vita, il detective Harrison Graham credeva di aver finalmente trovato la pace insieme alla figlia, Emilia, e alla donna che ama, Tess. Ma un nuovo ed imprevisto caso lo trascina in un'indagine apparentemente inverosimile, in cui nulla è ciò che appare e nessuno appare per ciò che è. La ricerca lo costringe a collaborare con il suo acerrimo nemico, Gibson, ma soprattutto porta alla luce il fantasma del passato di una persona a lui molto, molto vicina, e a realizzare che forse, il detective non l'ha mai conosciuta veramente...
[AVVISO: "Smoke and Mirrors" è il seguito di "Blink of an eye", che potete trovare sul mio profilo]
Genere: Mistero, Sentimentale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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14_ Perdono
 



 
Tess si accoccolò sul materasso morbido, affondò la testa nel cuscino soffice e si scaldò sotto al piumino. Avrebbe potuto rimanere per ore in quel torpore, se non si fosse improvvisamente ricordata di ciò che era successo.
Come in un flash i ricordi la colpirono e la donna spalancò gli occhi all'improvviso.
Scoprì di essere una stanza di ospedale, dalle pareti azzurrine e i mobili bianchi. Era stesa in uno dei due letti della camera, mentre l'altro era vuoto.
Quando cercò di mettersi seduta, scoprì, con sua profonda sorpresa, che il suo polso destro era ammanettato al bordo metallico del letto. Il massimo movimento consentito era scegliere tra lo stare seduta o sdraiata, facendo scorrere le manette sull'asta metallica. Nel braccio destro, inoltre, era infilato l'ago della flebo.
La donna socchiuse gli occhi, cercando di schiarire la mente. 
Prima che potesse fare alcunché, sentì la porta aprirsi e nella stanza si infilò una giovane donna vestita da infermiera.
Non era molto alta e aveva un fisico sottile, che, insieme al viso gentile e gli occhi grandi, la facevano sembrare una ragazzina.
«Oh, signorina, si è svegliata» la salutò e si avvicinò per controllare che tutto andasse bene.
«Come si sente?» le chiese.
«Bene» disse Tess con voce roca, più come un riflesso automatico che come una risposta sincera.
«Perché sono ammanettata al letto?» domandò lei, pur sapendo di conoscere già la risposta.
L'infermiera parve a disagio: «È stato un ordine degli agenti, ma non hanno fornito alcuna motivazione.»
Tess annuì.
«Insieme a me, hanno portato un uomo?» le chiese ancora.
«Sì, un signore alto e biondo.»
«Come sta?» domandò nervosamente Tess. L'ultima cosa che ricordava era lo sparo, poi non aveva più visto Calvin.
«Sta bene» rispose l'infermiera. «Non ha alcuna ferita grave e quando è arrivato qui era cosciente.»
La donna tirò un sospiro di sollievo. Poi ricordò improvvisamente ciò che le aveva detto il folle con la voce nasale.
«Harrison!» esclamò di scatto, guardando l'infermiera con gli occhi sbarrati.
Quella le rivolse uno sguardo confuso.
«Signorina, si sente bene?»
«No! Cioè, io sì, ma...come sta Harrison?»
L'infermiera aprì la bocca, poi la richiuse, come se non sapesse cosa dire.
«Io...non so di cosa stia parlando...»
Tess sentì il suo cuore accelerare: «Harrison...hanno parlato di un'esplosione...»
Prese un respiro profondo, cercando di formulare una frase sensata.
«Si chiama Harrison Graham, ed è un detective. Come sta? Lei lo sa?»
L'infermiera scosse il capo: «Mi dispiace, ma non posso aiutarla.»
Tess ebbe un capogiro e cominciò a sentire la stanza che vorticava intorno a lei.
L'infermiera si avvicinò di corsa e la fece adagiare sui cuscini.
«Signorina, deve stare calma, è ancora debole.»
Tess afferrò il suo braccio con la mano libera e piantò gli occhi nei suoi.
«Per favore, voglio solo sapere come sta, per favore, dimmi che è vivo e che sta bene.»
L'infermiera deglutì: «Io...farò il possibile per aiutarla, signorina.»
Tess vide la donna uscire dal suo campo visivo e si ritrovò a fissare il soffitto bianco. Udì la porta della stanza aprirsi e poi richiudersi. 
La camera sprofondò di nuovo nel silenzio.
 
 
L'agente Donovan era così concentrato a leggere i documenti che teneva tra le mani, che non si accorse dell'uomo che gli si avvicinò.
«Com'è andata?» 
Solo quando l'altro parlò, l'agente alzò lo sguardo.
Carson era davanti a lui e gli stava rivolgendo un'espressione interrogativa.
Donovan gli tese i documenti e lanciò un'occhiata nel corridoio dell'ospedale, per assicurarsi che fossero soli. Gli unici presenti erano due malati che non sembravano prestare loro molta attenzione.
«Ward era praticamente incolume, i medici hanno confermato che sta bene, quindi ho interrogato lui per primo» spiegò Donovan.
«E cosa ti ha detto?» chiese Carson.
«Mi ha raccontato una storiella. Ha detto che lui e Graves si sono recati nel negozio di Beaver quando erano giovani per acquistare un orologio a cucù, che però non ha mai funzionato. Quando hanno chiesto di restituirlo, ne è nata una discussione con il proprietario del negozio. Ward lo ha minacciato che Beaver se ne sarebbe pentito, ma, a suo dire, era solo un ragazzino e si trattava di una minaccia vuota.»
«E tu gli credi?» domandò Carson scrutando il volto del collega.
Donovan sospirò: «È bravo a mentire, ma questa storia mi sembra ridicola. Tutti i fratelli Beaver sono deceduti durante lo scontro a fuoco, quindi non possono testimoniare.»
«Resta solo una persona che può confermare o smentire» intuì Carson.
«Sentiamo cosa ha da dire l'amante del detective. Dubito che sarà fantasiosa come il suo amico. Forse, da lei, sentiremo la vera storia.»
Donovan riprese i documenti che aveva teso al collega e si incamminò per i corridoi.
Quando raggiunse la stanza, bussò delicatamente sulla porta, come per informare della sua presenza, poi, senza attendere alcuna replica, entrò. 
L'unica persona nella stanza era una donna, accasciata tra i cuscini del suo letto. Aveva un volto pallido, gli occhi cerchiati da occhiaie scure e i capelli castani arruffati.
«Signorina Graves, sono l'agente Donovan» si presentò lui. Chiuse la porta alle sue spalle e fece un passo avanti.
«Mi ricordo di lei» annuì la donna.
Donovan accennò un sorriso: «Sì, be', possiamo dire che abbiamo salvato la sua vita e quella di Ward.»
«Suppongo di doverla ringraziare» continuò Tess, studiando l'uomo. Nonostante l'aspetto stanco, i suoi occhi erano attenti e vigili.
«Ho solo fatto il mio dovere» minimizzò Donovan, avanzano ancora, fino a che non fu ai piedi del letto. «Però ora mi aspetto che lei faccia il suo. Ho bisogno di sapere la verità su questa storia.»
Tess fece un respiro profondo e annuì, come se cercasse la risoluzione necessaria per parlare. Era scampata alla resa dei conti una volta, ma ora sapeva di non avere scelta.
«Voglio solo sapere una cosa prima» disse, rivolgendo uno sguardo preoccupato all'agente.
Lui tacque, segno che la stava ascoltando.
«Beaver mi ha detto che il detective Graham e i suoi colleghi si sono trovati in un'esplosione. Voglio solo sapere se stanno bene.»
Donovan non rispose subito, come se stesse soppesando le parole.
«Beaver non ha mentito. Il capannone in cui si trovavano Graham, Gibson e Hart è esploso.»
Tess trattenne il fiato.
«Nessuno di loro doveva trovarsi lì in quel momento, erano stati sollevati dall'incarico.»
«La prego, mi dica come stanno...» mormorò Tess con gli occhi nuovamente umidi. Credeva di aver esaurito le lacrime ormai.
Lo sguardo di Donovan cambiò, si fece più severo, più duro.
«Lo farò quando avrò ascoltato la sua deposizione, Graves. Se mi dirà la verità, io farò altrettanto.»
Tess ebbe nuovamente un capogiro e dovette appoggiare la schiena sui voluminosi cuscini del letto.
Sapeva che Donovan non avrebbe parlato, se non fosse stata lei la prima a farlo. E le manette che la incatenavano al letto di dimostravano che in quella situazione, lei non era considerata come vittima, come una criminale.
Sospirò e socchiuse gli occhi. Sapeva che le sue parole le avrebbero cambiato la vita. Non sarebbe più stata l'innocente insegnante di provincia, ma un'assassina con davanti molti processi da affrontare. E il carcere non era da escludersi.
Però sapeva che quella era la sua redenzione, era il suo momento di fare la scelta giusta, di dire la cosa giusta. E di cancellare i suoi peccato.
«Va bene...» disse, ma prima che potesse aggiungere altro, la porta della stanza si spalancò e fece il suo ingresso una donna vestita di nero, accompagnata da un dottore.
La donna lanciò un'occhiataccia a Donovan: «Agente, non mi sembra che lei abbia chiesto l'autorizzazione dei medici per parlare con la signorina Graves.»
Donovan cercò di trattenere il fastidio, e replicò: «Con tutto il rispetto, tenente, io ho bisogno di fare il mio lavoro.»
«Non porti rispetto a me, ma a questa povera donna che non si è ancora ripresa dal trauma e si vede trattata come una criminale» ribatté a tono il tenente Carter. «La lasci riposare fino a che i medici lo riterranno opportuno e poi potrà chiederle quello che vuole.»
«La signorina si è dimostrata disponibile a parlare» insistette Donovan, per nulla desideroso di lasciar perdere.
Carter rise: «La signorina è ancora confusa. Parli con il qui presente dottor Martinez e torni solo dopo aver studiato.»
Donovan guardò il medico, che a sua volta annuì e gli fece cenno di seguirlo all'esterno della stanza.
L'agente strinse i denti, incenerì Carter con lo sguardo e uscì suo malgrado dalla camera.
Il tenente, una volta rimasta sola con la paziente, chiuse la porta e si avvicinò al letto, dopodiché estrasse un fascicolo dalla giacca e lo tese alla donna.
«Questa è la confessione di Calvin Ward. Se vuoi uscirne salva, studiala bene e fai sparire i fogli prima che i federali li trovino. Hai circa trenta minuti di tempo» le disse, senza cambiare espressione.
Tess prese il fascicolo esterrefatta. Il tenente le aveva appena chiesto di mentire all'FBI.
«Perché lo sta facendo?» domandò allibita.
Carter alzò gli occhi al cielo: «Avevo un debito. Dì a Graham che ora siamo pari.»
La donna si voltò e fece per andarsene, ma Tess la bloccò.
«Aspetti. Harrison è vivo?»
Il tenente guardò la donna, senza cambiare la sua espressione impassibile, poi alzò nuovamente gli occhi al cielo.
«Neanche la dinamite può fermarlo. Credo che lo avremo tra i piedi ancora per un bel po', cara Tess.»
Detto ciò, la donna uscì dalla stanza e la lasciò sola.
Tess si sentì improvvisamente più leggera. Harrison stava bene. Harrison era vivo.
Guardò il fascicolo che le aveva dato la donna. 
Era pronta a dire la verità all'agente, ma ora le carte in tavola erano cambiate. Harrison aveva rischiato la vita per salvarla, non poteva rendere il suo sforzo vano. Aprì la prima pagina e cominciò a studiare la geniale bugia di Cal.
 
 
 
Non appena l'uomo mise piede fuori dalla sua stanza, gli sguardi di tutte le infermiere, furono su di lui. E ne era perfettamente consapevole.
Quando un detective giovane e affascinante, era entrato privo di sensi nell'ospedale, la notizia aveva fatto il giro del reparto e chiunque vi lavorasse, aveva cercato di fare capolino nella sua stanza per verificare ciò che le voci dicevano.
Nessuno era rimasto deluso, l'uomo era esattamente come lo descrivevano: alto e dalle spalle larghe, con un paio di magnetici occhi verdi e un sorrisetto ironico sempre stampato sul volto. Il braccio ingessato, sorretto da una fascia che passava intorno al suo collo, e le diverse ferite su tutto il corpo, come quella alla caviglia, che lo costringeva a zoppicare, erano solo un ultimo tocco a completare il fascino del detective. 
Qualcuno diceva che si era ridotto così a causa di un'esplosione, qualcuno che era stato rapito, qualcuno che lo aveva fatto per salvare la vita ad altre persone, ma non sapevano cosa lo avesse ferito.
Qualsiasi fosse la motivazione, l'uomo non passava di certo inosservato.
Quando Harrison mise piede fuori dalla sua stanza, quella sera, sentì parecchi sguardi su di sé. Rivolse un sorriso sornione alle infermiere che lavoravano nel corridoio, le ringraziò per come lo avevano aiutato a rivestirsi prima, augurò loro buona serata e zoppicò via. Dopo essersi assicurato che nessuno era pronto a fermarlo, aprì la porta di una camera poco distante dalla sua e si infilò all'interno.
La stanza era rischiarata dalla luce giallognola delle vecchie lampade sul soffitto, mentre all'esterno della finestra il cielo si faceva via a via più buio.
L'unica occupante della camera era una donna bionda dal volto pallido. La sua guancia era viola a causa di un'ematoma e il suo collo era stretto da un collare che la costringeva ad una posizione rigida, ma, nonostante questo, non sembrava avere altre ferite.
«Ciao» la salutò lui. La donna lo seguì con lo sguardo, ma le sue labbra rimasero serrate.
«Come stai?» chiese Harrison, prendendo posto nel letto al suo fianco.
Ancora una volta, la donna non rispose.
«Io sto bene, comunque, grazie per averlo chiesto» scherzò lui, ma lei non cambiò espressione.
L'uomo sospirò e si passò una mano sul volto stanco.
«Sadie, io...» cominciò, faticando a trovare le parole.
«Non ho aggiornamenti su Napoleon, o qualsiasi sia il suo vero nome. L'ultima volta che ho parlato con Carter non l'avevano ancora trovato, ma magari ora...» le sue parole rimasero sospese nell'aria, come se aspettasse qualcun altro per concluderle.
Si appoggiò ai cuscini del letto, imitando la posizione di Sadie.
«Paul è ancora in sala operatoria» continuò poi. «Sembra che le sue condizione siano buone, però. Si riprenderà. È troppo testardo per non farlo.»
Si voltò ancor a guardare la donna, ma lei continuò a non fiatare.
«Sadie, per favore, parlami» la supplicò.
Gli rispose solo il muto silenzio.
Lui sprofondò ancora sui cuscini e fissò insieme a lei la parete azzurrina di fronte ai letti.
«So che Tess sta bene, ma non mi fanno parlare con lei» continuò dopo poco. «Tutto ciò che mi importa è che sia salva, non chiedo altro. Ma non sai cosa darei per poterla riabbracciare, mi è mancata così tanto...»
Harrison si voltò verso la donna e vide che grosse lacrime le rigavano le guance.
«Oh no» mormorò, scendendo dal letto. Le si avvicinò e asciugò le sue lacrime con le dita.
«No, Sadie, no, va tutto bene, va tutto bene...» le sussurrò, accarezzandole i capelli chiari.
Lo fece con delicatezza, come avrebbe fatto con sua figlia, cercando di consolarla.
«È colpa mia» gemette la donna con voce strozzata. «È tutta colpa mia.»
«Non dire cazzate. Tu non hai sbagliato nulla.»
Lei tentò di scuotere il capo, ma si ritrovò immobilizzata dal collare.
«Sono stata una debole e una sciocca. Non ho capito che mi stava usando per farvi del male, non sono riuscita a capirlo.»
I suoi occhi erano pieni di lacrime.
«Non sono altro che una stupida segretaria che credeva di poter atteggiarsi da qualcosa di più.»
«Non dirlo, Sadie, perché stai mentendo a te stessa» replicò Harrison. «Il tuo aiuto è stato fondamentale e senza di te non ce l'avremmo mai fatta, non avrei potuto desiderare partner migliore.»
Lei non cambiò espressione. 
«Sei molto meglio di Gibson come detective, ma non dirgli che te l'ho detto» sussurrò Harrison sottovoce, in tono scherzoso.
Lei accennò un sorriso e si asciugò le lacrime, imbarazzata.
«Lui starà bene?» gli chiese apprensiva.
Lui annuì: «Sì, deve solo rimettersi.»
Sadie lasciò vagare lo sguardo, assorta nei suoi pensieri. Harrison si raddrizzò e tornò a sedersi sull'altro letto.
«Sai» aggiunse la donna, «quando tu sei entrato nel capannone gridando che era una trappola e che dovevamo andarcene, abbiamo cominciato a correre, ma era ormai troppo tardi. Non appena c'è stata l'esplosione, Paul si è gettato su di me per proteggermi.»
Lo sguardo di Sadie era vitreo, come se stesse vedendo davanti a sé ciò di cui parlava.
«Harri, capisci?» gli domandò la donna. «Ha avuto un nano secondo di tempo per registrare l'esplosione e il suo istinto è stato proteggermi. Se gli dovesse succedere qualcosa, mi sentirei responsabile.»
Harrison tacque un istante. 
«Anche lui avrebbe detto lo stesso se non fosse riuscito a proteggerti.»
Detto ciò si alzò in piedi e si piazzò davanti alla donna, in modo da poterla guardare negli occhi.
«Tu non sei colpevole delle scelte degli altri, ricordalo.»
La donna non riuscì a trattenere le lacrime.
«Hai detto che è ancora in sala operatoria» commentò guardando l'uomo. «Questo significa che non puoi sapere come sta.»
Harrison tacque, colpevole. Gli avevano detto che non si trattava di un'operazione troppo complicata, ma la certezza sulla riuscita non era mai assoluta. 
«Ti ho detto che starà bene» replicò fissando la donna negli occhi, «e io sbaglio raramente.»
 
 
 
Il giorno successivo al suo interrogatorio, Tess fu nuovamente raggiunta dall'agente Donovan, in compagnia di un altro federale. I due furono costretti a liberarla dalle manette, ammettendo implicitamente che in quelle ventiquattr'ore non erano riusciti a trovare nulla che smentisse la sua versione dei fatti, ovvero quella inventata da Calvin.
La donna non fece in tempo a gioire della sua liberazione, che subito un dottore fu da lei insieme ad alcune infermiere, per assicurarsi delle sue condizioni di salute.
Tutto ciò che Tess desiderava era uscire da quell'ospedale e tornare a casa dalla sua famiglia. 
Dopo i controlli medici, si presentò la polizia locale, per farle domande più precise riguardo i suoi assalitori. Gli agenti che la interrogavano erano due, il primo dal volto giovane, nonostante i folti baffi che portava ben curati, più per moda che per altro, mentre il secondo era vicino alla quarantina, parlava poco e si preoccupava soprattutto di ascoltarla.
Ad un certo punto, la porta della stanza si spalancò e una voce maschile interruppe l'interrogatorio.
«Cosa diavolo state facendo con la mia indagine?» sbottò in tono indignato.
I due agenti si alzarono in piedi, impedendo a Tess di vedere chi aveva parlato, che ora era entrato nella stanza, ma la donna aveva già riconosciuto la voce, ottenendo una serie di brividi lungo la schiena.
«Il tenente ha detto che eri stato stato sollevato, e comunque sei ancor convalescente» sentì l'agente con i baffi replicare.
«Convalescente un cazzo. Mi basta avere qualche neurone funzionante per fare il mio lavoro, quindi dite a Carter che sono di nuovo operativo.»
«Detective...» tentò ancora l'agente.
«Sparite» la voce dell'altro uomo suonò come un ringhio.
Il più vecchio sbuffò e fece cenno al collega di seguirlo all'esterno.
Tess, che era rimasta ferma sul letto per tutto il tempo, poté finalmente vedere il volto di Harrison fare capolino all'interno della stanza.
La donna si alzò in piedi e gli corse incontro. Per un attimo vide nero e rischiò di crollare addosso all'uomo, ma lui la sorresse con il braccio sano. 
Tess gli gettò le braccia intorno al collo e si strinse a lui. Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma non trovava le parole, così si limitò ad inspirare il suo profumo familiare.
«A piano, Tessie, mi stai soffocando» ridacchiò lui e la donna si staccò, realizzando in quel momento che l'uomo era ferito.
«Scusami» mormorò. «Stai bene?» gli chiese con uno sguardo preoccupato.
«Sono solo ammaccato, ma guarirò presto» rispose lui sorridendole. Poi la sua espressione si scurì: «E tu? Come stai?»
«Sto bene.»
«Sei sicura?»
Tess annuì e indietreggiò, fino a raggiungere il letto, dove si sedette.
«Che cosa è successo? So che c'è stata un'esplosione e...» cominciò la donna, scrutando l'uomo come per recuperare tutti i giorni passati senza poterlo vedere.
«Sì, ma guarirò, non preoccuparti per me. Anche Sadie sta bene, Gibson invece...impiegherà più tempo a riprendersi» rispose lui,  sedendosi sul bordo del letto.
Tess abbassò lo sguardo, colpevole.
«So che tutto questo è colpa mia» mormorò mentre torturava le lenzuola tra le dita.
Harrison alzò gli occhi al cielo: «Sono stufo di sentire le persone intorno a me prendersi la colpa per cose che non potevano controllare.»
Lei strinse le labbra, poi rialzò lo sguardo e lo fissò negli occhi.
«Puoi cercare di consolarmi in ogni modo, ma sappiamo entrambi che sono la responsabile.»
Lui sbuffò: «La tua unica colpa è avere rubato un orologio a cucù difettoso.»
Tess sgranò gli occhi, sorpresa.
«Tu hai letto il mio interrogatorio?» domandò confusa.
«Certo, dopotutto questa è la mia indagine.»
La donna aprì la bocca, ma per qualche istante non emise alcun suono.
«Tu...» cominciò, «sai che non è successo veramente? Che è tutto inventato?»
Harrison non cambiò espressione. Continuò a fissarla con un sorrisetto statico dipinto sul volto.
«Hai detto qualcosa?» domandò poco dopo, corrugando la fronte.
«Idiota, so che mi hai sentita» replicò lei e non riuscì ad evitare di sorridere.
«Sentito cosa?» continuò lui, con un'espressione fintamente ingenua. 
Lei alzò gli occhi al cielo: «Hai intenzione di parlare di ciò che è successo?»
Harrison scrollò le spalle: «Tutta questa faccenda mi ha annoiato. Preferisco parlare di altro.»
Tess lo guardò negli occhi: «Sei un idiota.»
«Sì, mi sei mancata anche tu, Tessie.»
 
Quello stesso pomeriggio, furono entrambi dimessi dall'ospedale. Tess aveva ricevuto poco prima di pranzo le visite di sua sorella e dei suoi genitori. Non era entusiasta di doverli affrontare, ma aveva cercato di fare buon viso a cattivo gioco e aveva cercato di tranquillizzarlo minimizzando su quanto accaduto. Sua madre non aveva particolarmente apprezzato la ricomparsa di Calvin, soprattutto dopo che entrambi erano stati arrestati in quanto presenti su una scena del crimine e in possesso dell'arma del delitto ed erano successivamente scomparsi. 
Nell era stata stranamente tranquilla, specialmente quando Harrison aveva messo piede nella stanza. Tess la sentì ringraziare l'uomo e scusarsi con lui. Non fu l'unica a riservare un trattamento di cortesia al detective. I suoi genitori lo riempirono di lodi e ringraziamenti, guardando ammirati le sue ferite. Inutile dire come gongolasse lui, lanciando occhiate ammiccanti a Tess.
Quando i medici comunicarono loro che potevano tornare a casa, Tess indossò gli abiti che la sua famiglia le aveva portato e si recò all'ingresso dell'ospedale per aspettare Harrison.
L'uomo non si fece attendere molto. Tess lo vide comparire da un corridoio, con un'andatura zoppicante e baldanzosa allo stesso tempo, che lo rendeva ridicolo. Indossava gli stessi abiti che portava quella mattina e teneva il braccio ingessato sostenuto da una fascia. Al suo fianco camminava una donna bionda con il volto pallido e gli occhi gonfi. Tess impiegò un istante per capire che si trattava di Sadie. Non l'aveva mi vista così trasandata, di solito era sempre vestita bene e truccata con cura. Ora indossava degli abiti sformati che potevano passare per un pigiama, i suoi capelli erano legati in modo disordinato e il suo viso era completamente truccato. Inoltre indossava un collare che rendeva i suoi movimenti rigidi.
Harrison si avvicinò a Tess, l'attirò a sé e le stampò un bacio sulle labbra.
«E questo per cos'era?» domandò lei sorridendo.
«Perché mi sei mancata» replicò lui, poi fece un passo indietro e abbozzò un sorrisetto sghembo: «E per dirti che se farai qualcosa alla mia macchina ne pagherai le conseguenze.» Le lanciò le chiavi al volo: «Guidi tu. Sei l'unica che può farlo.»
L'uomo fece cenno a Sadie di seguirli e si avviò verso il parcheggio dell'ospedale.
Raggiunsero l'auto senza parlare. Tess si sentiva a disagio. Sadie era sempre stata aperta e solare con lei, ma in quel momento si trovava davvero in brutte condizione e la colpa era stata sua.
La donna salì al posto del guidatore, sotto gli occhi attenti di Harrison.
«Pesavo fossi arrivato qui con l'ambulanza» commentò lei guardando l'uomo al suo fianco.
«È così, ma mio padre mi ha portato l'auto quando è venuto a trovarmi.»
Tess sgranò gli occhi, sorpresa.
«È stato quando ancora non mi permettevano di raggiungerti» spiegò Harrison.
"Quando eri ancora ammanettata al tuo letto" la donna immaginò che questo era ciò che significavano le sue parole.
Senza ulteriori esitazioni, mise in moto l'auto e s'infilò nella strada.
Harrison la guidò prima fino a casa di Sadie. Quest'ultima trascorse tutto il viaggio fissando il vuoto davanti a sé, dato che le era impossibile ruotare il capo.
Quando raggiunsero la sua abitazione, Harrison scese dall'auto e l'accompagnò fino alla porta di casa.
Tess vide che i due si misero a parlare e si trattennero per qualche istante. Non riuscì a capire la conversazione dalle loro espressioni, ma ad un tratto Sadie si voltò verso di lei e i suoi occhi la trafissero.
Tess distolse lo sguardo e lo puntò sulla strada fino a che Harrison non fu tornato.
«E ora» commentò l'uomo, «finalmente a casa.»
Lei guidò senza parlare, tenendo le labbra serrata.
«Non è colpa tua» Harrison interruppe il silenzio.
Lei non rispose, ma il modo in cui il suo volto si contrasse, indicò che lo stava contraddicendo.
«Fidati di me quando lo dico.»
«Credi che non abbia visto la faccia di Sadie?» sbottò lei. «È colpa mia se vi siete ridotti così.»
Harrison sbuffò: «Tessie, questo è il mio lavoro. Mi sarebbe successo anche con un'altra persona. Nel mio mestiere c'è una percentuale di pericolo più alta che nei mestieri comuni e l'ho accettato già molto tempo f...»
«Ho ucciso un uomo» Tess lo interruppe brutalmente.
Lui la guardò, con la fronte corrugata.
«Anzi, ancora peggio» continuò lei, «Calvin ha ucciso un uomo. Io ho ucciso un bambino.»
Harrison aprì la bocca, poi la richiuse.
Tess imprecò in mezzo ai denti, poi entrò nella piazzola di emergenza e fermò l'auto.
«Perché ci siamo fermati?» domandò lui.
«Maledizione, Harrison, perché sono un'assassina, ecco perché!» sbottò lei urlando.
Lui non parlò e la donna riprese fiato, poi sussurrò: «Avrei dovuto dire la verità è farmi sbattere in prigione...»
«Tess, quello non servirebbe a...»
«Tu non sai nulla!» gridò ancora lei. «Tu non hai idea...»
«Calvin mi ha detto tutto» la interruppe l'uomo.
Lei lo guardò, con gli occhi sgranati pieni di lacrime.
«Cosa?» domandò, come se non fosse sicura di aver sentito bene.
«Sono andato da lui, ha cercato di rifilarmi la storiella dell'orologio a cucù, ma gli ho detto di non raccontarmi stronzate. Mi ha detto la verità, non è stato difficile. Credo cercasse qualcuno con cui confidarsi. Forse dovresti dirgli che un detective non è mai la persona migliore a cui fare confessioni pericolose.»
«Questo...non ha senso, Calvin è la persona più paranoica che io conosca, non te lo avrebbe mai detto.»
Harrison sospirò: «Temeva che ti saresti presa tutta la colpa, così voleva che qualcun altro conoscesse la verità, in caso di bisogno.»
Tess strinse il volante e guardò fisso davanti a sé. Per tutto quel tempo, Harrison sapeva.
L'uomo le strinse posò una mano sul braccio e lo strinse, come per confortarla.
«Se è perdono quello che vuoi, lo avrai» le sussurrò.
Tess si voltò a guardarlo. Gli occhi verdi del detective brillavano illuminati dai fari delle auto di passaggio. Le sorrise, per la prima volta non un sorriso storto, ironico e pieno di sarcasmo, ma un sorriso dolce.
«Sei perdonata.»
   
 
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