In
seguito, Roni si sarebbe detta che
era stato l’istinto.
Aveva
seguito l’istinto. Nient’altro.
Le
casse montate sopra la spessa vetrata del Roni’s bar
riversavano nel locale la
cover di Light my fire di Alicia
Keys.
Judy,
una delle tre cameriere di turno quella sera, posizionò le
tre birre sul
vassoio e le consegnò al tavolo dieci, come da istruzioni.
-
Ehi, dolcezza. – disse uno degli uomini, tirando a
sé la propria Heineken.
Sfoggiò un sorriso che mise in mostra un dente
d’oro. – Non è che potresti dire
a Roni di schiaffarmi sul piatto qualche fetta di bacon, possibilmente
spessa e
ben cotta?
Judy
registrò l’ordinazione, ignorando completamente
gli occhi verdi che viaggiavano
sulla sua camicetta, più o meno all’altezza della
scollatura. - Altro?
-
Sì. Vorrei sentire qualcosa di decente. Non si
può spegnere questa... merda?
Lei
si allontanò dal tavolo.
La
radio rimase sintonizzata sulla stessa stazione. Alla canzone di Alicia
Keys
seguì Lemon Tree dei
Fool’s Garden.
Judy
tornò con il bacon e lo piazzò davanti al
cliente.
-
Grazie, dolcezza. Non è che per caso ti va di dirmi a che
ora stacchi, vero?
Conosco un posticino. – Una mano si allungò a
sfiorarle una coscia. Il tizio
sembrava un cowboy ma con il viso rinsecchito. Indossava un paio di
jeans
tagliati all’altezza degli stivali e una ridicola camicia con
i bottoni a
perline.
Judy
afferrò il suo polso in una morsa d’acciaio che lo
sorprese. Il viso del cowboy
passò dal roseo al bianco ricotta.
La
porta del Roni’s bar si aprì e chiuse con uno
scampanellio e una zaffata di pioggia
lavò alcune piastrelle.
Roni
non pensava che Judy avesse bisogno di aiuto, per questo si
limitò ad alzare
gli occhi al cielo e a servire un cliente seduto al bancone. Non si
accorse
della nuova arrivata fino a quando non si sedette pesantemente su uno
degli
sgabelli.
Era
bagnata fradicia ed era ferita. Le sanguinava un labbro.
Sì,
aveva seguito l’istinto. E una
sensazione.
La
sensazione di averla già
conosciuta.
Non
sapeva dire né dove né tantomeno
quando... e la sensazione comunque disparve dopo pochi secondi.
Però era stata
lì. Ne aveva quasi sentito l’odore.
Era...
-
Posso fare qualcosa per aiutarla? – domandò Roni,
porgendole dei tovaglioli
perché potesse asciugarsi.
La
testa ruotò nella direzione da cui era giunta la voce quasi
avesse virato per
puntare un bersaglio e la donna si scostò ciocche di
capelli, così che lei poté
vederla in faccia per bene. Vide bene i suoi occhi per la prima volta e
quella sensazione le
sbocciò nel petto
per appassire un attimo dopo, sostituita da una certa preoccupazione
per lo
stato pessimo in cui versava.
Non
aveva un’aria aggressiva. Non proprio. Non aveva
l’aria di uno di quegli
attaccabrighe che le era capitato di buttare fuori a calci. Sembrava
arrabbiata, ma ancora di più... le appariva stanchissima.
Stanca fino al
midollo.
-
Che ne dice di un Crisp Apple Cider? – domandò
Roni, senza pensarci troppo. –
Offre la casa.
La
donna chiuse gli occhi per un istante e quando li riaprì
Roni scorse uno
scintillio che era probabilmente di lacrime. Invece di prendere i
tovaglioli,
si deterse la fronte con un lembo della sciarpa di seta, che era
bagnata come
tutto il resto. Si toccò prima un angolo della bocca e poi
l’altro con la punta
della lingua.
Roni
ebbe modo di notare che il taglio era simile alla sua cicatrice,
però era sul
labbro inferiore invece che su quello superiore.
-
Non avrebbe qualcosa di più forte? - replicò la
donna.
Roni
le diede qualcosa di più forte. Un Broombergeist che
bruciava la gola. Eppure
quella lo mandò giù tutto con un unico sorso.
-
Ehi, piano. – suggerì. – È
veramente una bomba.
-
Sto bene. – rispose, in tono piccato.
Istinto.
Abitualmente
non si focalizzava
troppo su un nuovo cliente.
Se
uno nuovo entrava nel suo locale,
lei lo serviva e basta.
Capitava
che si fermassero a parlare
con lei, capitava che provassero a flirtare, ma a Roni non importava
poi molto.
Quella
sera la cliente misteriosa se ne andò senza nemmeno
salutarla.
Roni
si girò dopo aver consegnato un Mojito ad un ragazzo e lei
non c’era più.
Sgabello vuoto. Bicchiere vuoto. E una sciarpa di seta sul tavolo.
La
sciarpa emanava un buon profumo.
Era...
Non
riusciva ad afferrarlo, perché non era un odore nuovo. Stava
già svanendo.
Non
riusciva ad afferrarlo proprio come quella sensazione.
***
Tornò
una settimana dopo.
Erano
appena passate le dieci, il
locale era già pieno e lei entrò, spingendosi i
capelli lunghi dietro le
spalle. Attirò gli sguardi di alcuni uomini seduti vicino
alla porta. Di certo,
era bella. Roni si sorprese a fissarla mentre avanzava verso il bancone
con
passo deciso.
Nonostante
gli abiti un po’ sgualciti,
le sembrava che stesse meglio, che fosse meno tesa, meno pallida. Il
taglio sul
labbro era in via di guarigione. Forse a lei non sarebbe rimasta alcuna
cicatrice.
-
Hai dimenticato questa, la scorsa
volta. – le disse, dandole la sciarpa. Non si accorse subito
di essere passata
al tu. Fu naturale.
-
L’hai conservata per me? Non mi ero
neppure resa conto di averla persa. – Alzò la mano
destra e si massaggiò una
tempia.
-
Ho conservato anche il
Broombergeist, dato che mi sembrava avessi gradito.
-
Mi stavi aspettando?
Roni
rifletté qualche istante,
ascoltando le note di Goodness Gracious di
Ellie Goulding. – Sì. Diciamo di sì.
***
Si
chiamava Margaret.
Ripensò
alla sensazione che aveva
avuto la prima volta che l’aveva vista e si disse che no, non
aveva mai
conosciuto nessuno di nome Margaret.
Solo
una sensazione passeggera.
Margaret
si presentò altre due volte
a distanza di pochi giorni. Persino Judy, che non era curiosa di
natura, le
chiese chi era la donna che veniva palesemente in quel locale per lei.
Roni le
rispose che era un’amica.
La
verità era che non sapeva nulla di
lei. Non aveva idea di dove vivesse, né se vivesse con
qualcuno. Non portava
anelli, quindi era possibile che non fosse sposata. Non sapeva che cosa
facesse
nella vita. Avrebbe potuto domandarglielo, ma non era sicura che
Margaret
volesse parlarne. Qualcosa le diceva che non c’era niente di
bello da
raccontare.
Un
sabato arrivò molto tardi, quando
mancava meno di un’ora alla chiusura del Roni’s
bar. Ed era una serata simile
alla prima che aveva trascorso in quel locale. Fuori non pioveva, non
ancora,
ma in cielo si andavano ammassando nubi livide che minacciavano di
scaricare un
acquazzone che avrebbe reso Seattle un groviglio nevrotico e
congestionato per
qualche ora.
-
È meglio che ti dia uno strappo.
Farai la fine di quella sera. – disse Roni, dopo che anche
gli ultimi clienti
se ne furono andati.
Rombò
un tuono, a ovest. Come se il
temporale avesse aspettato proprio la sua battuta per darci dentro.
-
Non ho paura della pioggia, Roni.
Non
l’aveva mai chiamata per nome,
nonostante la conoscesse da un po’. Roni avvertì
una piacevole vibrazione
dentro di sé.
-
Immagino di no. Ma vorrei comunque
darti uno strappo. Non ho niente da fare. - Spense tutte le luci, come
ogni
sera.
-
Avrai qualcuno che ti aspetta. – Lo
disse come se fosse una cosa ovvia, per lei.
-
Nessuno. – rispose Roni. – Vivo
sola.
Un
bagliore. Un’esplosione di tuono
che sembrò espandersi per tutto il cielo e un gocciolone di
pioggia si stampò
sul marciapiede.
L’abitacolo
dell’auto di Roni era
fresco e sapeva di... mele. Mele rosse e mature.
Margaret
le disse dove abitava e
poi...
-
Com’è che una come te non ha figli?
Roni
aggrottò la fronte e fissò per
qualche momento l’insegna ormai spenta del suo bar.
– Non saprei. Immagino che
non fosse destino.
-
Non sono affari miei, è vero.
-
Non c’è problema. – Le sorrise.
– E
tu? Hai figli?
-
No.
Mentre
si allontanava dal ciglio del
marciapiede e si immetteva nel traffico, scoppiò il
temporale. Non ci fu
grandine, ma dal cielo venne giù un autentico diluvio, una
pioggia dapprincipio
così fitta che Roni dovette procedere a passo
d’uomo.
Lo
sbalzo di temperatura fra la
pioggia fredda all’esterno e il tepore
dell’abitacolo appannò la parte
inferiore del parabrezza e gli angoli dei finestrini. Sovrappensiero,
Margaret
allungò un dito e tracciò un simbolo sul vetro.
-
Che cos’è? – volle sapere Roni.
-
Non so. A volte faccio cose senza
rendermene conto. – Cercò di sorridere, ma
sembrava che le mancasse la forza
per farlo. - Lo considerai folle.
-
No, in realtà mi stavo chiedendo come
mai fossi sempre così.
-
Così come?
-
Triste.
Margaret
sospirò e si voltò a
guardarla. Gli occhi di Roni dovevano essere una delle cose che piaceva
di più
alla gente. Le erano sembrati scuri, ma non erano davvero scuri. Erano
nocciola. Un caldo color nocciola.
E
lei sorprese i propri, di occhi, a
seguire il profilo del naso fino a scendere sulle labbra. Sulla
cicatrice. Si
fissò su quel segno.
-
Non ho motivo per andarmene in giro
a festeggiare. – le rispose, dispiaciuta del tono brusco, per
non dire
maleducato, che non era riuscita a contenere.
-
Mi dispiace.
-
Non è così grave. Io invece mi
chiedo perché lo fai.
-
Che cosa?
-
Aiutarmi. Non mi conosci nemmeno.
Potrei anche essere una criminale.
Roni
ci pensò su. - Correrò il
rischio di aver caricato in macchina una criminale.
-
Dico sul serio.
-
Anch’io.
Esplose
un altro lampo e il tuono che
seguì fu scoppiettante. Erano bloccate nel traffico. Il
tergicristallo spazzava
la pioggia che scivolava sul vetro come un torrente.
-
Chiamalo istinto. Ho solo seguito
l’istinto. Penso che sia giusto.
-
E cosa ti suggerisce il tuo
favoloso istinto, ora?
Roni
stavolta non perse tempo a
riflettere. Dato che l’altra si era sporta verso di lei in
attesa della
risposta, si sporse quel tanto che bastava per annullare la distanza e
posò la
bocca sulla sua. Le labbra di Margaret erano dolci ed incerte, ma quel
bacio le
riverberò per tutto il corpo, soprattutto quando lei, dopo
l’immobilità
iniziale, inclinò leggermente la testa e dischiuse un
po’ di più la bocca.
Un
quarto d’ora dopo la chiave di
Roni rumoreggiava nella serratura della sua porta d’ingresso.
La deviazione non
aveva sorpreso nessuna delle due.
Fece
entrare Margaret e richiuse la
porta con decisione lasciando fuori la notte iraconda, il rumore della
pioggia
e del vento. Lei la seguì in soggiorno ed attese che le
dicesse che forse
dovevano fermarsi, che era sbagliato, che era meglio che se ne andasse,
ma Roni
non ebbe una simile esitazione. Sempre tenendola per mano, senza mai
veramente
tirarla (anche se l’avrebbe fatto, se si fosse dimostrata
recalcitrante), la
condusse in camera.
Margaret
la guardò. Roni sostenne con
calma il suo sguardo, prima di attirarla a sé per baciarla
di nuovo.
Margaret
aveva spesso la sensazione che tutto quello che vedeva e tutto quello
che
provava non fosse tutto; era quasi consapevole che ci fosse un mondo
intero in
attesa oltre i limiti di ciò che le era percettibile.
Abbastanza da far apparire
scolorito lo spettacolo che aveva davanti agli occhi ogni giorno. Il
suo
appartamento, che era appena presentabile e riusciva a mantenere solo
lavorando
anche di notte. L’insegna luminosa del Roni’s bar,
che aveva trovato per puro
caso, ma nel quale era entrata perché... perché
glielo aveva suggerito l’istinto.
Il sapore del Broombergeist. Persino Roni. Persino qualcosa di Roni le
sfuggiva
inesorabilmente.
Ma
non ci pensò mentre lei la toccava.
Ci
ripensò dopo. Dopo aver lasciato
quell’appartamento, mentre Roni dormiva.
Ci
pensò dopo esserne sgusciata fuori
come una ladra.
Se
quello che provava non era tutto,
il più delle volte non era comunque bello. Perché
il più delle volte c’era la
rabbia. Ma non una rabbia normale. Era più furia che
semplice rabbia. E veniva
da molto lontano.
I
suoi genitori l’avevano
abbandonata. Lei era passata da una casa famiglia all’altra
senza mai trovare
una casa vera. Una famiglia vera.
Nella
sua vita nessuno restava mai a
lungo.
Il
vento ululava ancora, ma stava
perdendo forza e non pioveva più quando entrò
nell’androne della vecchia
palazzina. Niente luce. La lampadina era fulminata. Salì le
scale al buio.
Mentre
raggiungeva il suo
appartamento, si accorse che aveva dimenticato qualcosa. La sciarpa. La
sciarpa
di seta. Se la dimenticava sempre, ormai. Roni l’avrebbe
trovata e magari gliel’avrebbe
restituita. O forse Roni non avrebbe più pensato a lei dopo
quella sera. Perché
avrebbe dovuto?
Però
avrebbe rivoluto la sciarpa. Anche
se era solo una sciarpa, era sua. Il colore le piaceva.
C’erano
molte cose di quel colore in
casa sua.
Verde.
Le
tendine. Le tendine alle finestre
erano verdi. Il copridivano era verde. Le lancette di quello stupido
orologio a
cucù erano verdi. La scritta incisa nel legno
dell’orologio era verde. There is
no place like home.
Ridicolo.
Come se lei potesse trovare
un posto da chiamare casa.
Come
se qualcuno potesse amarla.
Margaret
Emerald guardò la strada
bagnata di pioggia, mentre il suo dito indice disegnava sul vetro la
stessa
lettera che aveva disegnato su quello dell’auto di Roni.
Era
una zeta.
_____________________
Angolo
autrice:
Salve. Grazie per essere arrivati
fino alla fine e spero non ci siate rimasti troppo male.
Urge
qualche piccola spiegazione,
giusto come chiarimento.
Il
nome di Cursed!Zelena è Margaret,
come Margaret Hamilton, l’attrice che ha interpretato la
Strega dell’Ovest nel
film “Il Mago di Oz” del 1939. In più mi
serviva un nome che ingannasse un po’
il lettore e non c’entrasse nulla con il vero nome del
personaggio. Il cognome
è Emerald, come Emerald City (la Città di
Smeraldo).
Roni
è il nome ufficiale della
Cursed!Regina, secondo gli spoiler.
Judy,
la cameriera del Roni’s bar, è
Dorothy Gale (Judy Garland era l’attrice che l’ha
interpreta nel film del ’39)
Non
ho inserito l’avvertimento “incesto”,
anche se avrei dovuto, perché volevo che fosse una sorpresa
(bella o brutta sta
a voi decidere). Ho inserito, tuttavia, “tematiche
delicate” per ovviare a
quella mancanza, in modo da non lasciare la storia proprio senza alcun
avvertimento nonostante la ship un po’ strana e che potrebbe
dare fastidio.