Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Amor31    08/09/2017    5 recensioni
Grisha Jaeger ha una nuova vita, adesso.
Eppure ci sono momenti il cui il senso di colpa lo fa impazzire.
Ci sono notti in cui il buio della sua stanza ha le sembianze del passato.
ATTENZIONE! SPOILER PER CHI NON È IN PARI CON LE SCAN
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Carla Jaeger, Grisha Jaeger, Zeke Jaeger
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Migliore

 

Gli ultimi residui di legna bruciavano nel camino con un crepitio che ben presto sarebbe scemato. La luce emanata non era più quella brillante del fuoco appena acceso e per continuare a leggere era stato costretto a recuperare un vecchio mozzicone di candela dal fondo di un cassetto della credenza. Ora il grande stanzone che fungeva allo stesso tempo da cucina e sala pranzo era per metà avvolto in un debole bagliore aranciato, ma non c'era modo di contrastare la fredda aria di metà dicembre. Un brivido gli corse lungo la schiena e l'uomo si strinse ancor di più nella pesante giacca di lana che indossava.
Silenzio, penombra e gelo. L'atmosfera rispecchiava in modo preciso il suo stato d'animo. Sentendo gli occhi bruciare, Grisha Jaeger abbandonò sulle ginocchia il giornale che stava leggendo e si stropicciò le palpebre da sotto gli occhiali, premendovi le dita ghiacciate. La giornata era stata intensa e non poté fare a meno di ripercorrerla con il pensiero. Quella mattina era uscito molto presto per raggiungere una coppia di anziani che viveva a ridosso del Wall Rose e con cui aveva concordato un appuntamento settimane prima. Li aveva ricevuti direttamente in casa e aveva domandato loro perché non avessero chiesto l'aiuto di un medico di Trost, visto che avrebbe potuto essere da loro in un'ora al massimo. Si era sentito rispondere che non si sarebbero fidati di nessuno che non fosse stato "il salvatore dei poveri", colui che aveva trovato la cura per l'epidemia che aveva decimato la popolazione all'interno del Wall Maria. E così aveva affrontato circa tre ore di viaggio per adempiere al suo compito, impiegandone altre quattro per tornare a Shingashina. Una volta in città, aveva fatto il giro dei suoi pazienti ed era rientrato a casa solo nel tardo pomeriggio. Aveva trovato Carla seduta di fronte al camino, concentrata sul suo lavoro a maglia, e aveva mangiato qualcosa che gli era stato lasciato in caldo mentre sua moglie lo informava della breve visita di cortesia che il signor Hannes e consorte le avevano fatto poco prima di pranzo. -Dato che mancano poco più di dieci giorni a Natale, ne hanno approfittato per portarci dei doni. Hannes non sa ancora come ringraziarti per aver salvato sua moglie dalla malattia e alla fine si è risolto nel regalarti una bottiglia di vino. Molto nel suo stile, non trovi?-.
La bottiglia era stata sistemata nella credenza senza essere aperta. D'altronde Grisha non impazziva per l'alcol, anzi, cercava di starne alla larga il più possibile; dal canto suo, Carla aveva già in mente di utilizzare quel vino per aromatizzare carne e dolci, se il marito era d'accordo. Grisha aveva acconsentito con un cenno della testa e poi si era preoccupato di recuperare il quotidiano che veniva consegnato porta a porta ogni mattina. La sua lettura era stata interrotta solo dalla cena e poi era ripresa senza alcun disturbo o quasi. Quando si era fatto ormai tardi, Carla aveva messo da parte i ferri, utilizzati per tessere una copertina di lana, si era alzata dalla poltrona su cui era rimasta seduta per far compagnia al marito e in silenzio era scivolata dietro Grisha.
-Sono un po' stanca-, gli aveva detto in un sussurro. Si era sporta dalle sue spalle, cingendogli il collo con le braccia e depositandogli un bacio sulla guancia, appena ruvida per la barba che non rasava da un paio di giorni. Era rimasta in quella posizione per una manciata di secondi, giusto il tempo di trasmettergli il calore di cui lui sentiva bisogno e di lasciar scorrere lo sguardo sulla pagina di giornale che attirava tutta l'attenzione del marito. -Caos nella capitale?-, aveva domandato. Lui non aveva risposto e Carla, stanca di aspettare, aveva sciolto il suo abbraccio con uno sbadiglio. -Salgo al piano di sopra. Vuoi che ti aspetti?-.
-No, cara, non preoccuparti. Riposa, ne hai bisogno-.
Grisha sapeva perfettamente che la moglie era rimasta ad osservarlo ancora per un lungo minuto prima di decidersi a salire le scale. Lo sapeva perché era tipico di Carla attendere una sua replica tenendo le mani sui fianchi, imbronciata. Sembrava proprio una bambina troppo cresciuta quando gli metteva il muso. Certo, lui avrebbe fatto bene a non contrariarla o comunque a concederle un po' più d'attenzione, ma ora anche i gesti più semplici gli risultavano estremamente complicati. C'erano momenti in cui non riusciva nemmeno a guardarla negli occhi. Proprio come aveva appena fatto. 
Il pensiero di averla infastidita o di aver urtato i suoi sentimenti gli fece riaprire le palpebre. Per un paio di secondi tutto fu sfocato, poi la vista tornò limpida. Lanciò ancora un'occhiata al giornale che teneva in grembo e trattenne un sospiro. Non era tanto il caos nella capitale a preoccuparlo, quanto la politica ambigua di Re Fritz. Ma di questo non poteva parlarne né con Carla né con altri. 
Il titolo dell'articolo che lo aveva spiazzato riguardava il Corpo di Ricerca. Sotto al sommario, incorniciato dalle tre colonne che costituivano il pezzo, c'era un piccolo ritratto del suo amico Keith Shadis, da dieci mesi nominato Comandante della Legione Esplorativa. Non si erano più visti dal giorno delle nozze di Grisha e non si erano mai scritti. O meglio, le lettere di Grisha non erano state seguite da alcuna risposta. Ora, secondo il contenuto dell'articolo, il ruolo di Shadis barcollava così come l'esistenza del corpo armato di cui era a capo. Lo smantellamento della Legione Esplorativa era impensabile per Grisha, che vedeva negli uomini e nelle donne che combattevano i Titani il simbolo della lotta contro la monarchia che lui stesso voleva rovesciare; allo stesso tempo, però, costringere le truppe alla ritirata rientrava perfettamente nel piano di non belligeranza perseguito dal Sovrano delle Mura. Esattamente come gli aveva riferito il Gufo nel giorno in cui la sua vita aveva avuto un secondo, nuovo inizio.
Volse gli occhi al camino: della legna non rimaneva altro che carboni incandescenti in parte nascosti dalla cenere. Il fuoco si era estinto e con lui anche l'ultima possibilità di scaldarsi. Un altro brivido gli scosse la schiena e Grisha, alzandosi, ripiegò il quotidiano per abbandonarlo subito dopo sulla seduta della poltrona. Si avvicinò al tavolo e afferrò il mozzicone di candela, illuminando il pavimento davanti a sé per evitare di inciampare nei gradini che si apprestava a salire. Una volta al piano superiore, spinse pian piano la porta della propria camera da letto e si preparò per la notte, evitando il più piccolo rumore che potesse disturbare il riposo di Carla, già nel pieno del sonno.
Infilò rapido la camicia da notte che sua moglie gli aveva sistemato ai piedi del letto e con accortezza scivolò tra le coperte. Si stese sulla schiena, restando a fissare il soffitto buio con gli occhi spalancati, e per un momento fu convinto che le sue pupille assomigliassero a quelle di un gatto a caccia nell'oscurità. Questa breve immagine, però, durò solo un istante. L'attimo successivo le tenebre della notte evocarono altri, terribili ricordi e il cuore di Grisha intraprese una folle corsa.
Silenzio, buio e gelo. Probabilmente doveva essersi assopito – o forse si era costretto a dormire per evitare di pensare – ma all'improvviso la quiete era stata rotta dallo scatto di una serratura in lontananza e dal seguente cigolio delle grate che si aprivano. Lo stridio di pesanti stivali di gomma lo aveva allarmato ed era immediatamente balzato in piedi, quasi a voler farsi trovare pronto ad affrontare qualsiasi minaccia. Il rumore dei passi si era avvicinato sempre di più e alla fine due uomini in divisa si erano fermati davanti alla sua cella, aprendola e strattonandolo via. Grisha ricordava di aver cercato di sfuggire alla loro presa, ma non c'era stato niente da fare. Lo avevano condotto lungo un corridoio fiocamente illuminato da torce e aveva avuto l'impressione che non avesse mai termine; trascorso un tempo di cui aveva perso qualsiasi cognizione, era stato chiuso in un'altra stanza buia. Lì era stato legato a una sedia e gli avevano estorto tutte le informazioni in suo possesso attraverso una lenta e dolorosa tortura che si era consumata, ancora una volta, tra penombra e gelo. Il silenzio non esisteva più: nella stanza echeggiavano solo le sue urla.
Nel suo letto di Shingashina, Grisha chiuse gli occhi e strinse le palpebre fino a sentirle doloranti, sperando di ricacciare indietro il passato che lo tormentava. Fu inutile. Stavolta fu una voce a scavare nei meandri della sua mente.

 

"Sono loro. Sono dei traditori. Vogliono restaurare l'inferno di Eldia"

 

Grisha lottò contro l'impulso di urlare. Lo avrebbe fatto per coprire il suono di quelle parole di bambino, di quelle parole che lo avevano condotto alla rovina, ma poi avrebbe svegliato Carla e allora come si sarebbe giustificato? Non ne poteva parlare né con lei né con altri.
La voce tuonò più forte e con lei emerse il viso tondo di un bambino. Il suo bambino.

 

"Perché, Zeke? Perché mi hai fatto questo?"
"Io ti odio. Tu sei un diavolo e i diavoli devono morire"

 

Ti odio. Gli aveva detto proprio questo, quando la polizia di Marley li aveva fatti confrontare? Grisha riportò vivida alla mente la scena da lui vissuta. Sempre tenendolo legato alla sedia, avevano fatto entrare il piccolo Zeke nella stanza delle torture. Aveva da poco compiuto sette anni e da qualche mese era stato selezionato come recluta dell'esercito marleyano proprio come escogitato da Grisha. Zeke, suo figlio, avrebbe riportato Eldia in trionfo. Ma qualcosa era andato storto e la famiglia Jaeger era stata arrestata, così come tutti coloro che aspiravano alla restaurazione dell'antico impero. Legato mani e piedi, Grisha aveva parlato con il bambino che da simbolo di speranza si era tramutato in vessillo di rovina. Zeke era rimasto impassibile nel vedere suo padre sporco e sanguinante; Grisha aveva perfino avuto l'impressione che il piccolo avesse sogghignato nell'osservare la sua sofferenza.

 

"Perché?"
"Io ti odio"

 

Sì, lo aveva detto davvero. Lo odiava e Grisha allora non era riuscito a capire perché. Ma adesso, circondato ancora una volta dal silenzio, dal buio e dal gelo del suo letto, il dottor Jaeger comprese.
-Perdonami-, disse in un sospiro che gli sfuggì dalle labbra, -sarei dovuto essere un padre migliore-.
Sentì il cuore colmo di rimpianto e il senso di colpa, che mai lo aveva abbandonato, tornò a lacerare la ferita non ancora rimarginata. Quanto era stato stupido? Fino a quel momento aveva creduto che fosse stato Zeke a tradirlo, ma in realtà era stato lui per primo a tradire suo figlio. Aveva tradito la sua fiducia, lo aveva esposto a mille pericoli, lo aveva gettato in prima linea credendo che fosse la cosa giusta da fare. Non si era mai fermato un istante a pensare che, forse, Zeke poteva non essere d'accordo con il suo folle piano. Non aveva considerato l'idea che, forse, suo figlio non volesse diventare carne da macello per una presunta causa più grande. Ecco come Grisha Jaeger lo aveva tradito. La pena per un simile crimine non poteva essere inferiore a quella che aveva scontato e che stava ancora scontando.
-Perdonami-, ripeté, ora con le lacrime agli occhi. -Perdonatemi-, disse pian piano al silenzio, che nel buio aveva assunto le sembianze di una donna molto diversa da quella che ora dormiva al suo fianco. -Sarei dovuto essere un padre, un marito e un uomo migliore. Ho sbagliato tutto-.
Si portò le mani sul viso e si nascose dietro le dita. Lacrime salate gli bagnarono i polpastrelli e Grisha le lavò via, cercando di calmare gli spasmi causati dal pianto. Gli furono necessari parecchi minuti prima di poter riprendere a ragionare con lucidità. Quando fu certo che non sarebbe incappato in una nuova crisi, si girò a sinistra, lì dove riposava sua moglie.
Carla dormiva tranquilla, ignara del suo dolore. Stesa sulla schiena, il torace si alzava e si abbassava a ritmo del suo respiro regolare; solo allora, strizzando gli occhi nel buio, Grisha si accorse che teneva le mani incrociate sul grembo, a protezione del tesoro che già da sei mesi stava crescendo in lei. 
Provò un misto di tenerezza e pietà per quella piccola donna che aveva sposato da meno di un anno. Le voleva un bene profondo, ma non l'amava. Aveva tentato di alimentare il proprio affetto per farlo evolvere in amore, ma non ci era riuscito. Lo aveva sempre saputo, d'altro canto: non avrebbe mai potuto amare nessun'altra all'infuori di Dina, la sua prima e unica, vera moglie. Dina che lo aveva sempre capito, che aveva il suo stesso modo di vedere le cose, che lo aveva aiutato a tradire il loro unico figlio. Dina che adesso vagava fuori da quelle dannate Mura, intrappolata in sembianze tanto orribili quanto era stata bella in vita. 
Carla era completamente diversa e forse per Grisha era stato meglio così. Provava un forte senso di colpa anche nei suoi confronti, perché l'aveva sposata al solo fine di portare a termine la missione che gli era stata affidata dal Gufo. Ancora una volta si stava servendo di altre persone per raggiungere uno scopo più grande. Ancora una volta si disse che sarebbe dovuto essere un uomo migliore.
La fissò a lungo fino a spostare di nuovo gli occhi sul suo ventre prominente. La gravidanza stava procedendo senza alcun problema ed era ormai giunta al sesto mese. Anche la nascita di quel secondo figlio doveva essere annoverata tra i crimini che aveva perpetrato fino a quel momento? Grisha non seppe darsi una risposta o forse non volle trovarla. Un nuovo sentimento lo spinse, però, a tendere il braccio destro verso il grembo di Carla e, incontrata la mano della donna, vi pose sopra la propria. Si tirò su a sedere mantenendo vivo quel contatto e avvicinò la testa al pancione. -Stavolta sarò un padre migliore. Te lo prometto-.
Doveva aver parlato con tono troppo alto o forse aveva lasciato cigolare le molle del letto nel momento in cui si era messo a sedere. Qualunque fosse stato il motivo, Carla schiuse a fatica le palpebre e si accorse del tocco di Grisha, che trasalì vedendola sveglia.
-Che stai facendo?-, domandò lei, la voce impastata dal sonno. -Sei salito adesso a dormire?-.
-Ho fatto tardi, sì-, confermò lui, senza smettere di domandarsi se Carla avesse sentito o meno ciò che aveva detto. -Sta crescendo sempre di più-.
-È vero. E non sai quanto mi fa faticare!-. 
La risata stanca della donna lo rassicurò e sentì l'ondata di panico scemare. Tirò un impercettibile sospiro di sollievo, poi riprese a parlare: -Se sarà maschio, il suo nome sarà Eren-.
Carla guardò il marito. Non riusciva a distinguere bene la sua espressione, ma nella semioscurità le parve che ci fosse un accenno di sorriso a distendergli le labbra. -Eren?-, ripeté, perplessa. -Cosa significa?-.
-Non lo so. Ma è la scelta giusta-, si limitò a risponderle. 
-Non ho mai sentito un nome simile. Tu dove...?-.
-È come se provenisse da un sogno. Fa pensare alla libertà-.
Un momento di silenzio si frappose tra i due, ma ben presto fu Carla a interromperlo: -Se ti piace, per me va bene. Ha un bel suono. Però, se dovesse essere femmina, sarò io a scegliere il nome, d'accordo?-.
Grisha assentì con un cenno del capo, subito rafforzato da un "Sì" pronunciato con affetto. Lasciò scivolare la mano dal ventre di Carla e si chinò sul suo viso per darle un bacio a fior di labbra, augurandole la buona notte. La vide richiudere gli occhi e lui stesso riprese posto sotto le coperte, cercando riparo dal freddo. 
"Eren", pensò ancora. "Anche tu sarai migliore".

   
 
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