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Autore: Madame_Padfoot93    13/09/2017    4 recensioni
Bellatrix Lestrange sa che il suo Signore non è morto, sa che presto tornerà e che lei, più di tutti, sarà ricompensata. Ma nella lurida cella di Azkaban, in cui è costretta, non può far altro che vivere nel suo ricordo, nella morsa della chela del granchio.
La storia ha partecipato al contest "born under the stars" indetto da aware_ sul forum di EFP .
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Bellatrix Lestrange
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
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Nome sul Forum/ EFP: Madame_Padfoot/ Madame_Padfoot93
Titolo: La chela del granchio
Introduzione: Bellatrix Lestrange sa che il suo Signore non è morto, sa che presto tornerà e che lei, più di tutti, sarà ricompensata. Ma nella lurida cella di Azkaban, in cui è costretta, non può far altro che vivere nel suo ricordo, nella morsa della chela del granchio.
Generi: Angst, Introspettivo
Personaggi: Bellatrix Lestrange
Note ed eventuale uso dei punti bonus: Tra i vari segni zodiacali ho scelto Cancro, assegnandolo al personaggio di Bellatrix Lestrange; la frase legata al segno è:
I cling to my own ache, i cling to the past and it gets to a point when i can’t even remember without hurting.” Anne Sexton, A self-portrait in letters.
(“Mi aggrappo al mio stesso dolore, m’avvinghio al passato e arriva il momento in cui non sono più in grado di sfiorare un ricordo senza farmi del male”).
Molti di voi si sorprenderanno nel vedere Bellatrix Lestrange come Cancro. Ma a tutto c’è spiegazione. Secondo alcuni astrologi (o almeno secondo i siti che ho controllato) il Cancro è un segno “ambivalente”: sotto la scorza da duro e testardo, si nasconde un animo sensibile e materno. Ora, Bellatrix è tutto fuorché materna, ma l’ho sempre vista sensibile almeno verso quelle pochissime persone come l’amata sorella “Cissy” e il suo adorato Signore Oscuro. Ho voluto così descrivere (o almeno ho provato) una Bellatrix dipendente non solo da Voldemort, ma anche dal suo ricordo. I nati sotto il segno del Cancro poi sono molto ostinati ed orgogliosi: Bellatrix infatti è orgogliosa delle sue purissime origini, arrivando persino a ripudiare la sorella Andromeda e uccidere sia il cugino Sirius che la nipote Dora (non chiamatela Ninfadora), colpevoli di aver tradito i principi dei Purosangue. Inoltre, come moltissimi Cancro, Bellatrix è riflessiva e autoprotettiva: basti pensare al momento in cui, per essere sicura che Harry, Ron e Hermione non siano entrati nel suo caveau alla Gringott e di deludere, così, il suo Signore, tortura la ragazza.
Sempre secondo alcuni astrologi, il Cancro è dominato dalla Luna rendendolo un po’… un po’, come dire, MATTO DA LEGARE? *Se siete Cancro non vi offendete: io sono Capricorno e vi dico solo che questo è lo stesso segno di Voldemort.* Questo loro essere dei pazzerelloni li porta anche a legarsi emotivamente alle persone che amano in maniera viscerale: così come il granchio (che rappresenta i Cancro) si attacca con la chela, anche Bellatrix si aggrappa ai suoi ricordi del suo amato Signore. I Cancro poi temono l’abbandono e il rifiuto; allo stesso modo Bellatrix ha paura del rifiuto di Voldemort quando si viene a sapere dell’unione tra Dora e Lupin.
Poiché di Bellatrix sappiamo solo l’anno di nascita (1951), ho pensato che il suo carattere fosse abbastanza vicino a quello del Cancro. Per questo motivo, la mia Bellatrix, è nata il 18 Luglio, esattamente come la mia mamma. Attenzione, mia madre non è una pazza assassina come Bellatrix, ma un po’ lunatica lo è.
La storia è poi ambientata nel periodo estivo e quindi ho ricercato quali sono le costellazioni che possono essere viste nell’emisfero boreale nel periodo di Luglio-Agosto.



 

 

La chela del granchio

 

 

Il tintinnio di catene, che urtavano sul pavimento, rimbombava nel silenzioso corridoio, facendo sollevare molti volti. Dalle celle buie si avvertivano sussulti di sorpresa, se non di vero terrore: tutti avevano sentito parlare della sua incarcerazione, tutti l’avevano riconosciuta.
La preferita del Signore Oscuro.
Gli Auror, che la scortavano verso la cella, erano preceduti dai Dissennatori, tenuti a debita distanza dai Patroni. Uno di loro, un giovanotto dal viso brufoloso, le lanciava rapide occhiate impaurite, facendo scattare la testa verso il corridoio ogni volta che sentiva il suo sguardo su di lui; la bacchetta tremava nel suo pugno e lunghi brividi gli percorrevano la schiena.
Bellatrix Lestrange, invece, si divertiva moltissimo nell’osservare le reazioni di quel piccolo smidollato: se solo avesse avuto la sua fidata bacchetta… si sarebbe potuta divertire molto con lui.
Storse leggermente il naso, riflettendoci: non sarebbe durato molto e lei si sarebbe annoiata terribilmente. Sbuffò e una lunga ciocca di capelli si sollevò dal volto. Con quello stupido ragazzino non avrebbe di certo avuto la stessa dolce, bellissima soddisfazione che invece aveva provato con quei due Longbottom. Si leccò le labbra, deliziata nel ricordare quel poveretto, inerme di fronte alle urla della moglie, che si contorceva ai suoi piedi, senza alcuna possibilità di poterla salvare; ripensò alla goduria di vederlo strisciare sul pavimento come un verme e di osservare l’espressione determinata di lui svanire pian piano ad ogni colpo della sua maledizione. Che sciocchi… Devono essere stati senza dubbio Grifondoro: solo loro potevano considerare “coraggio” quello che certamente doveva essere idiozia. Come era stata divertente per lei quella sera, nonostante…
Il ricordo del suo amato Signore Oscuro la riportò alla realtà. Per colpa di quei due stupidi Auror si era ritrovata in quella misera condizione, impossibilitata nel cercare un qualsiasi modo per farlo ritornare. Perché lei ne era sicura, ne era assolutamente certa. Sapeva molto bene che Lui, così grande, così potente, non poteva essere scomparso del tutto: non poteva essere stato battuto da un mocciosetto incapace di camminare, figurarsi a fare magie. Un Mezzosangue, per giunta.
Si bloccò e il tintinnio delle catene si arrestò; qualche prigioniero, speranzoso nel vederla sconfitta, ebbe persino l’audacia di risollevare la testa per guardala.
Feccia. Traditori. Lo avete abbandonato! Io sola l’ho cercato.
«Cammina, Lestrange!» disse con voce ferma Alastor Moody, prendendola per l’avambraccio e spingendola in modo deciso. Bellatrix lo fulminò con lo sguardo: come osava toccarla? Come osava trattarla in quel modo? Pazzo. Ah… Non avrebbe più avuto l’ardire di umiliarla così quando il suo amatissimo Signore sarebbe tornato. Pensava davvero che le sarebbero bastati degli stracci grigi come vesti e delle catene e le sbarre e una prigione come questa, per perdere la fiducia in Lui? Che povero, povero sciocco.
La donna riprese a camminare con passi lenti, i piedi limitati dalle catene alle caviglie, e spostò l’attenzione sui volti pallidi e scarni degli altri prigionieri, che scattano all’indietro impauriti quando i suoi occhi, leggermente celati dalle palpebre pesanti, si puntavano nei loro.
Feccia. Traditori. Ritiratevi pure. Lui tornerà e vi punirà.
Sul suo viso si formò un largo sorriso osservando quanti più si ritraevano nell’ombra, terrorizzati dal suo solo sguardo: pensare che tra loro vi erano i più efferati e feroci assassini e che questi si trasformavano in bestiole mansuete al suo passaggio… la inorgogliva. Lei era Bellatrix Lestrange e prima ancora era stata Bellatrix Black, discendente di una delle più nobili casate di maghi Purosangue. Loro, al suo confronto, erano solo spazzatura.
Presto il suo sorriso si trasformò in una vera e propria risata: le divertiva molto come lei, una donna, riuscisse a terrorizzarli tutti.
«Finiscila, Lestrange! Non trovo nulla di divertente nella tua condizione!» urlò nuovamente Moody, puntandole la bacchetta a pochi centimetri dal volto; lentamente la risata della donna scemò e sorrise dolcemente in direzione dell’Auror. «Oh, Malocchio! – disse lei, con una voce da bimbetta – Non si punta la bacchetta contro il viso di una donna. Per di più se questa è disarmata.» e per enfatizzare le sue parole mostrò i polsi incatenati, facendo tintinnare le catene. Moody sbuffò, arrabbiato, e sbraitò ai suoi uomini di riprendere a camminare senza perdere ancora tempo.
Presto il gruppo raggiunse la cella che era stata assegnata alla donna; Bellatrix notò, con molto piacere, che doveva essere un’ospite davvero speciale dato che la sua nuova “dimora” era diversa rispetto a quelle degli altri prigionieri: non vi erano sbarre, ma un’unica grande porta di ferro pesante. L’unica fonte di luce proveniva da una piccola finestrella fornita di spesse sbarre; quella era anche l’unica fonte di aria, dato che la stanza era molto piccola e prevedeva solo un misero materasso, posto direttamente sul pavimento sporco, e un secchio maleodorante, posto in un angolo.
«Avete così tanta paura che possa scappare, da tenermi in questo tugurio buio e senza aria, Malocchio?» disse lei, ridacchiando. Ma Moody non rispose, limitandosi ad aprire la cella e sospingerla dentro. Il giovane Auror, su cui aveva fantasticato i diversi modi di portarlo alla morte, lo affiancò, leggendo ad alta voce, su una pergamena, vari motivi per cui era stata messa lì; Bellatrix, troppo presa dalla contemplazione di quel luogo umido e freddo, sentì solo qualche parola: “azioni efferate”, “follia omicida”, “Colui-che-non-deve-essere-nominato”… A quel nome, pronunciato con tanta paura e con voce tremante, si voltò osservando quel ragazzo intensamente; non disse nulla, fece solo un sorrisetto nella sua direzione.
Moody chiuse lentamente la porta e in quel momento le catene dorate si dissolsero magicamente; Bellatrix si voltò verso l’ingresso della cella, sentendosi addosso lo sguardo di Moody, che la stava fissando dalla finestrella intagliata nella porta, mostrando, forse per la prima volta, un sorriso deformato dalle cicatrici fresche sul suo viso. «Oh, Lestrange. – disse – Tu non uscirai mai da qui. Te lo garantisco».
L’Auror stava per richiudere la finestrella, quando Bellatrix piombò verso la porta, tempestandola di pugni per avere la sua attenzione: «Tu, razza di traditore. Tu non sei degno di essere un Purosangue, tanto meno un Serpeverde. Tu disonori la nostra Casa!¹ E ti dirò un’altra cosa, mio caro: arriverà presto il giorno in cui io uscirò da qui. E sai perché? Perché lui tornerà! Tornerà, mi hai sentito Malocchio? Tornerà!». Sebbene la donna stesse urlando, Moody la guardò impassibile e infine richiuse la finestrella.

 

* * *

«Vieni qui topolino… Vieni qui. Guarda che non ti faccio niente, sai? Ti acchiappo… Ti acchiappo!». Bellatrix rideva come una bimba allegramente. Il topolino continuava a fuggirle, rintanandosi negli angolini sporchi e ammuffiti di quella squallida cella; eppure non le dava fastidio, anzi la divertiva: era molto più divertente la caccia che la cattura in sé per sé.
Erano ormai diversi mesi che si ritrovava ad Azkaban e già si potevano notare i segni della sua detenzione: i denti erano anneriti, i capelli sfibrati, le unghie spezzate e le vesti sporche e spiegazzate. Ma lei non dava affatto peso a queste cose, non le importava molto: lei doveva solo prendere quel bel topolino e magari, chissà, strappargli la coda o cavargli un occhietto.
Un leggero zampettare e un lampo grigiastro la fece voltare dalla parte opposta e con un balzo lo acchiappò; la donna teneva saldamente la bestiolina tra le mani, mentre quella squittiva disperatamente. «Hai visto? Hai visto? Ti ho preso! Ti ho preso! Ti ho preso!» cantilenava lei, guardando il musetto del topolino, che si agitava nella morsa della donna, cercando di liberarsi. Tenendolo saldamente, Bellatrix scivolò lungo la parete, sedendosi sul pavimento lurido e canticchiando una canzoncina, simile a una ninna nanna.
Un lento bussare alla porta della sua cella la distrasse un momento dalla sua preda, che ne approfittò per morderle un dito; la donna mollò immediatamente la presa e il topolino scappò, rintanandosi in una piccola crepa nel muro. La porta si aprì lentamente, mentre lei l’osservava, succhiandosi il dito ferito: sapeva bene cosa sarebbe entrato, sapeva bene che il momento era nuovamente giunto. Un Dissennatore scivolò all’interno della cella, richiudendo la porta alle sue spalle; un freddo intenso fece rabbrividire Bellatrix, che, tuttavia, sogghignava in maniera sprezzante.
«È già ora? Oh, che peccato… mi stavo divertendo con il mio amichetto e tu… – la donna si guardò intorno, fintamente dispiaciuta e mettendo su un broncio infantile – Guarda, lo hai fatto scappare!»; lei cominciò a ridere, osservata dal Dissennatore. Quest’ultimo le si avvicinò, tendendo le braccia tese: dalle maniche del logoro e scuro mantello spuntarono le mani viscide, grigiastre e rugose e dalla sua bocca proveniva uno strano suono, come un risucchio; Bellatrix, invece, nascose la testa tra le sue, soffocando le risate e, paradossalmente, pregando affinché non le portassero via un altro ricordo sul suo amato Signore. Cominciò a dondolarsi su se stessa, cercando di aggrapparsi a ogni Suo ricordo. Cercava di trattenerli, di ancorarsi a loro.
No, non un Suo ricordo. Non un ricordo su di Lui. Non un ricordo su di Lui.
Il freddo ormai era entrato nelle ossa, come le ultime volte, e scavava profondamente dentro di lei.
La voce di Narcissa la chiamava… La sorellina correva di fronte a lei, incoraggiandola a prenderla… I boccoli dorati le rimbalzavano a ogni suo passo… E poi il rimprovero del padre, il fascio di luce bluastra, lei distesa sul pavimento sopraffatta dalle fitte, lui che le annunciava che aveva appena redatto il suo contratto di matrimonio con Rodolphus.
Si risvegliò con la guancia contro il freddo pavimento umido. Non sapeva per quanto tempo era rimasta incosciente, ma dalle sbarre della finestra si potevano intravedere le costellazioni dell’Acquario e del Capricorno ancora basse; più in alto vi era Andromeda, che brillava al suo massimo splendore. L’aria tiepida e salmastra le fecero dimenticare l’odio e il disprezzo che covava verso quella donna che portava lo stesso nome di quella stella.
Quella non è mia sorella.
Doveva essere piena estate. Era già passato tutto quel tempo dalla sua incarcerazione? Era passato tutto quel tempo da quando Lui era caduto?
Quasi un anno. Quasi un anno da quando il mio Signore…
Un groppo le si fermò alla gola. No, non poteva piangere. Non doveva piangere: Lui sarebbe tornato presto, l’avrebbe liberata, l’avrebbe ricompensata. Avrebbe ricompensato lei, la più fedele dei suoi seguaci, la sua suddita più devota. Scoprì il braccio sinistro e accarezzò il simbolo, ormai sbiadito, impresso sulla sua pelle pallida, e vi passò sopra le labbra, sospirando.
Mio Signore…
Quanti anni erano passati da quando aveva accettato quel Marchio, sperando di poter servire, come sua seguace, quel dio sceso tra gli uomini? Quanto tempo era trascorso da quel suo ventunesimo compleanno, da quel giorno di metà Luglio in cui sposò non solo l’uomo che le era stato imposto, ma anche l’ideale dell’uomo che davvero ammirava?
Mio Signore… Mio Signore… Lei tornerà, lo so. Lo sento.
Sfiorò il disegno, tracciando con le punte delle dita le spire del serpente, il contorno del teschio; una piccola goccia si posò nel punto in cui teschio e serpente si univano, allargandosi e colando verso l’incavo del gomito. Bellatrix, stupita, si portò la mano sulla guancia, inorridita nel trovarla bagnata.
Stava piangendo! Come aveva potuto piangere? No, Lui sarebbe tornato, non doveva, non poteva assolutamente piangere.
E allora cos’era quella morsa allo stomaco, quella stretta simile… alla presa della chela del granchio, opprimente, dolorosa, insopportabile?
Seduta contro il muro di pietra, si portò le ginocchia al petto, poggiandovi la fronte e cingendo le gambe con le braccia; rivedeva, dietro le palpebre chiuse, il volto del suo Signore, soddisfatto di lei che aveva imparato, molto velocemente, alcuni dei più oscuri e potenti incantesimi, che Lui stesso le aveva insegnato. Era diventato il suo maestro, il suo mentore e lei pendeva da ogni sillaba da Lui pronunciata, rubando con gli occhi ogni suo gesto. E lei, al contempo, era diventata la sua migliore seguace, il suo braccio destro e, per questo, la più temuta tra tutti i Mangiamorte. L’unica donna, l’unica persona ad essergli vicino più di chiunque altro.
La preferita del Signore Oscuro.

 

* * *
 

Il cigolio della finestrella sulla porta di ferro la svegliò improvvisamente: in fondo le bastava anche un lieve rumore per svegliarla, da quando si trovava in quel lurido luogo. Una mano grigiastra e raggrinzita, simile a quella di un cadavere in putrefazione, le stava allungando una pergamena spiegazzata. Perfetto! Controllavano persino la sua corrispondenza. Come osavano…
Aprì in fretta la lettera: nonostante sapesse perfettamente chi fosse il mittente, sperava in buone notizie. Sperava che quel traditore di Malfoy si fosse ricordato da che parte stare e che stesse cercando un modo per farla uscire da lì o, meglio ancora, per far tornare il loro Signore. Invece, la sorella, non parlava altro che del suo piccolo Draco, di come stesse crescendo, di come lei le mancasse e infine le porgeva gli auguri. Solo in quel momento, Bellatrix, aveva notato la data posta nell’angolo in alto della lettera: 18 Luglio 1982. Nuovamente gli occhi rossi del suo Signore erano lì, davanti a lei, come se non se ne fosse mai andato…
le sue dita diafane erano strette attorno al polso di lei; Lui le si era avvicinato, lentamente, e la stava guardava con le sue pupille scarlatte, mentre lei era percorsa da piacevoli brividi: l’adrenalina per l’assalto ai Babbani era ancora in circolo e la Sua vicinanza le toglieva il respiro. Solo quella mattina aveva sposato Rodolphus, un uomo inconsistente, debole a confronto con quel potente essere, quel dio sceso tra i poveri mortali che la sta guardando in quel momento. Sapeva bene di non essere altro che una semplice discepola, un’arma al servizio dell’Oscuro Signore e che non sarebbe mai riuscita a… oh, non osa neppure immaginarlo. Lui la guardava compiaciuto, orgoglioso di lei e delle sue doti, di come fosse riuscita nella sua impresa, e, puntandole la scura bacchetta sul braccio niveo, sussurrò l’incantesimo.
Una violenta scarica dolorosa le attraversò il braccio, ma Bellatrix non emise un fiato, stringendo i denti e trattenendo una smorfia di dolore. Lì, sulla pelle candida, brillava di nera lucentezza un teschio, dalla cui bocca usciva un serpente avvolto tra e proprie spire. Finalmente era Sua.
Quel meraviglioso ricordo continuava a tormentarla da giorni: sembrava essere così tangibile, così… vivo, da portarla a credere di averlo davvero lì, di fronte a sé, a guardarla. E lei si era aggrappata a quel ricordo, cercando di proteggerlo nei meandri della sua mente, nella speranza che non le venisse strappato via. Era la cosa più preziosa che le era rimasto e si era imposta il dovere di proteggerlo a qualunque costo.
Ogni Sua parola, ogni Suo pensiero o respiro continuavano a colpirla, incessantemente, martellando e pulsando nella sua testa, rimbombando come un frastuono, urlando alle sue orecchie. E tutti quei ricordi, che giorno dopo giorno, ora dopo ora, istante dopo istante si rincorrevano in quel luogo instabile che era ormai la sua mente, le sconquassavano il corpo: ognuno di essi era la lama gelida di un coltello nelle carni. Il dolore si propagava ovunque nel suo corpo, dalle spalle alla punta delle dita, dallo stomaco ai piedi, come se fosse un monito.
Lei è inciso sulla mia pelle… mai potrò abbandonarla.
Bellatrix si aggrappava al suo stesso dolore, vi si teneva stretta, ancorata poiché quello era salvifico, era lenitivo, era ciò che la rendeva ancora viva e la faceva ardere, sperare. Lo abbracciava, lo cullava dentro di sé, lo proteggeva come una serpe con le sue uova, vi si aggrappava, come il granchio, con la sua chela, si aggrappa alla sua preda.
Non mi abbandoni, mio Signore.
Tutta la sua vita, da quel ventunesimo compleanno, era stata rivolta a lui: non aveva voluto figli, non aveva mai fatto avvicinare a sé Rodolphus, se non la prima notte di nozze, e aveva sempre servito il suo Signore, convinta che avrebbe trionfato sulla feccia, sui Babbani e fatto dei Maghi Purosangue i veri padroni del mondo. Degli dei sulla terra, proprio come lui. Ogni suo ricordo era legato a Lui, e ognuno non le portava altro che quel dolore, dolce come gli esotici frutti che il padre le faceva trovare a tavola, ogni suo compleanno, e allo stesso tempo aspro e pungente.
Non mi abbandoni, mio Signore. Non mi abbandoni, mio Signore.


* * *
 

Quella morsa, quella dolorosa presa della chela del granchio, continuava a stringere sempre più. Non sapeva nemmeno quanto tempo fosse passato: troppe volte Andromeda era salita alta nel cielo, troppe volte il Capricorno era caduto. Quella notte non vi erano né luna né stelle, nascoste da nubi dense e grigie; da tempo i Dissennatori non entravano nella sua cella e quella non era mai stata più calda come allora. Qualcosa stava succedendo: una piacevole sensazione di gioia stava scuotendo il suo petto sempre più velocemente e la sua bocca si allargò, mostrando una chiostra di denti neri e marci.
Mio Signore…
Una lunga e lancinante fitta le attraversò braccio, lo stesso in cui era impresso il Suo segno.
Finalmente la chela mollò la sua presa. Non avrebbe più avuto bisogno di ricordi.
È tornato!

 




¹: Moody, secondo la Rowling sul vecchio Pottermore (non so su quello attuale perché per me è un macello), è un Serpeverde. Zan-zan-zaaaaaan!










Note di fine storia:
Ciao a tutti! Allora, come già detto nell'introduzione, la storia ha partecipato al contest "born under the stars", indetto da aware_  (conosciuta qui con il nome di sunshower) sul forum di EFP, classificandosi al secondo posto. Son davvero contentissima. Cliccate come forsennati sul link e andate a leggere le altre storie in concorso (non appena saranno pubblicate). 
Ho già parlato abbondantemente della storia nelle note in alto, ma qui mi voglio scusare per qualche eventuale errore: sono una pasticciona, lo so. Mi auguro che la storia vi piaccia. Io vi mando un bacione e un grande ciriciao!

 

Madame_Padfoot









 

  
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