21:23
– Camera
tua o camera mia?
21:25
-
Sembra una proposta sconcia, kazako.
21:25
-
Sei tu a vederla tale.
21:26
-
Camera mia. Metti in tasca il portafogli.
21:29
–
È un appuntamento?
Era
una calda serata di ottobre e tutta Barcellona
esprimeva la sua allegria, la sua voglia di festeggiare, la sua voglia
di
vivere, il costante sorriso. Lo stesso sorriso che in Russia si
otteneva solo
col tempo, e solo dalle persone più care. Molte volte i
giornalisti avevano
scherzosamente chiesto a Viktor se fosse davvero russo data la sua
perenne
espressione gioiosa; lui, ogni volta, rispondeva “non capisco
perché privarsi
di qualcosa caloroso come il sorriso solo a causa di alcune stupide
usanze,
anche se provenienti dalla mia amata, fiera e frigida
terra.”. Tutto il
contrario di Yuri -non quello giapponese-. Lui aveva capito fin troppo
bene e
fin troppo presto le tradizioni della sua patria. Il mondo era abituato
ad
entrare nei negozi e vedere commessi sorridenti, pronti ad esaudire
ogni
desiderio del fortunato cliente appena presentatosi
all’entrata; però, magari al
minimo screzio non trattenevano gli insulti fra i denti, pronti a
schiaffarli
alle spalle dell’ennesima persona X. Invece in Russia le
persone donavano i
sorrisi solo agli amici veri o alle persone a cui si voleva esprimere
la
propria voglia di approfondire le conoscenze, a quelle care, quelle che
capivano che, a volte, un sorriso poteva significare
un’intera vita. Per i
commessi, però, la cosa era leggermente diversa: gli si
leggeva in faccia la
loro voglia di chiudere baracche e burattini per tornarsene nella loro
calda
casa, dove magari li aspettava una cena ben meritata. La Russia poteva
sembrare
fredda, spietata, dura, pericolosa, troppo fiera per essere
accettabile, troppo
cruda e scura. Invece quella terra era semplicemente ed estremamente
sincera.
Donava il suo calore e la sua allegria solo a chi davvero era in grado
di
saperlo apprezzare, come un ricordo e un segreto da custodire
gelosamente
dentro al proprio cuore, come a smentire quelle voci spietate.
Ecco
perché Yuri Plisetsky e Viktor Nikiforov erano
così
irrimediabilmente innamorati della loro terra natia e doversi
allontanare da
lei era ogni volta come un addio dato di fretta e furia ad una persona
cara,
con ancora la voglia di rivedersi sulla punta della lingua.
L’unica cosa che
spingeva il quindicenne a partire con piacere era l’idea di
un vicino incontro
con un’altra patria ancora.
Il
Kazakistan.
O
meglio, Almaty. O meglio ancora, un preciso pattinatore
kazako nato ad Almaty, per la precisione. –a cui si andavano
ad aggiungere una
cieca competitività per la medaglia d’oro e uno
Yakov stressato e incazzato-
Era
proprio con lui che Yuri stava messaggiando, seduto in
una scomoda spaccata frontale ai piedi del letto della camera dove
avrebbe
alloggiato. Sì, perché l’allenamento
non era da trascurare nemmeno nei momenti
di relax pianificato; questi erano i frutti del vendere corpo e,
soprattutto,
anima ad una causa di estrema rilevanza come lo sport. Tutto intorno al
ragazzo
aveva subito la traccia del suo passaggio tempestoso: a partire dalla
valigia
svuotata sul pavimento, agli slip maculati appesi alla maniglia della
porta del
bagno adiacente. –cazzo, se avesse potuto usare i
boxer…-
Ciocche
bionde gli ricadevano davanti agli occhi per poi
essere nervosamente spostate da un suo soffio indirizzato verso
l’alto,
somigliando davvero al gattino incazzato menzionato spesso da Viktor.
Aveva già
organizzato tutto per quella serata in compagnia del diciannovenne e
l’unico
indizio che gli aveva dato era stato “porta il
portafogli”. Poteva
perfettamente immaginare la faccia divertita/sconsolata del moro che
evidentemente aveva già visto gran parte dei suoi risparmi
evaporare in
“auto-regali” del più piccolo. Ma
d’altronde lui era un gentiluomo e i
gentiluomini offrivano sempre alle proprie signore. Quando
gliel’aveva detto la
prima volta si era beccato un calcio nello stinco destro. Da allora
aveva
imparato a mettere almeno due metri di distanza tra loro prima di
buttarsi in
certe frasi che erano veri e propri tentativi di suicidio.
Ripensò
a quella lontana esperienza, Otabek, prima di
bussare tre volte alla porta della camera 711. (Yuri aveva deciso che,
dal
momento in cui aveva scoperto che l’altro conosceva a memoria
l’alfabeto morse,
quello sarebbe stato il loro segnale. Tre colpi lenti significavano
“O”. Un
colpo lento, uno deciso e due lenti rappresentavano
“Y”.)
Una
voce alquanto indaffarata si limitò a rispondergli
“ENTRA!”. Visto che l’avev a
sentita
alquanto lontana, aveva dedotto che il russo si stesse dando da fare in
bagno.
“Come suona male..” si disse tra sé e
sé prima di aprire la porta quel tanto
che bastava a farlo entrare. Gli anfibi neri produssero un rumore dolce
allo
scontrarsi con il parquet della camera di Yuri e non appena fu dentro
venne
sommerso da una marea di vestiti dai colori sgargianti e cover per
cellulare.
Evitò di dire cose scontate da film americano come per
esempio “è scoppiata una
bomba qui?”, optando invece per un lungo fischio di sorpresa,
abbastanza forte
da farlo sentire fino all’ancora ignota posizione del russo.
Il letto era stato
praticamente denudato, il divano era occupato da un’enorme
borsone da palestra
firmato Supreme; l’armadio aveva entrambe le ante spalancate
ma era
completamente vuoto dentro –“e ci credo, tutti i
vestiti sono sul pavimento..”-
e la porta del bagno era poco misteriosamente aperta. Da quella stessa
porta
uscì poco dopo l’anima pia da lui tanto cercata,
con i capelli spettinati e
l’aria trafelata, una canotta bianca con su scritto
“I hated everyone before it
was mainstream” molto da Yuri Plisetsky e dei pantaloni a
stampa floreale che
gli arrivavano al ginocchio.
“Chiudi
quella bocca, ho cominciato a riordinare nel
momento in cui tu hai bussato.”
“In
realtà non ho proprio parlato.”
“Non
importa, i tuoi occhi dicono che sono un bambino che
non sa nemmeno tenere in ordine la sua stanza.”
“Allora
vedi che ci arrivi da solo?”
Si
potrebbe dire che la maglia appallottolata lanciatagli
in faccia se l’era decisamente meritata.
Sedendosi
sul letto scomposto, il moro gettò il busto
all’indietro, trovandosi davanti il bianco soffitto. Yuri lo
sentì fare degli
strani versi gutturali che sarebbero potuti sembrare colpi di tosse se
non
fosse stato per il loro prolungarsi per un tempo decisamente eccessivo.
“Questa
è la tua risata o stai per avere un’embolia
polmonare?”
“Credo
sia la mia risata.”
“…inquietante.”
“Era
la prima volta che mi sentivi ridere?”
“Risponditi
da solo visto che per la maggior parte del
tempo hai la stessa faccia. Solo quando ti gira il cazzo alzi
leggermente il
sopracciglio sinistro. Per il resto sei un mistero e ormai la tua gola
si è
arrugginita a furia di non ridere.”
“Evito
di dire qualcosa come ‘parla chi se la ride sempre’
perché sarei troppo scontato.” disse Otabek
cercando, una volta tanto, da
sembrare loquace abbastanza per instaurare una conversazione degna di
tale
nome.
“Ota-baka,
non vorrei forzare il tuo cervello ad infilare
più di tre parole in fila dato che non sei abituato e ti
causerebbe danni
irreversibili. Piuttosto, hai dimenticato il portafogli,
vero?”
“Veramente
è nella tasca della giacca come ordinato dalla
principessa, ma per quello che hai detto potrei anche non lasciartelo
usare.”
“Cazzone.”
“Plisetsky,
almeno frequentiamoci un po'.” disse il kazako
sorreggendosi sui gomiti e avendo così la
possibilità di vedere uno Yuri
intento ad infilare cose varie (caricabatterie, elastici per capelli e
una
felpa di ricambio) in uno zaino nero, decorato con borchie argentate.
Otabek
pensò che fosse buffo mentre litigava con i bottoni
imprecando a bassa voce,
cercando di spostare alcuni ciuffi biondi sfuggiti dal codino. Dopo
aver
aspettato un altro quarto d’ora in cui il biondo si era
cambiato –e aveva
sorprendentemente scelto una camicia di jeans al posto della solita
felpa della
nazionale russa, e dei pantaloni strappati-, gli chiese se fosse pronto
per
uscire, non mancando di sottolineare il fatto che in quanto ad orari
somigliasse
proprio ad una donna, e si incamminarono per le fredde strade di
Barcelona.
Quello stesso freddo fece scappare qualche altra imprecazione e un
‘ci vorrebbe
un fottuto bicchiere di Vodka’ al russo, prontamente bloccato
da Otabek, che
gli fece notare i vari rischi per i suo giovane fegato. Non lo disse
mai,
probabilmente non ammise mai nemmeno al suo cervello di averlo pensato,
ma a
Yuri saltò alla mente l’immagine di un Otabek con
lo sguardo lucido e una
goccia di Vodka in bilico sul suo mento dalla barba incolta, con la
camicia
leggermente sbottonata e i capelli in disordine. Tentò di
concentrarsi sulle
luci, i negozi e la folla della città per scacciare quel
pensiero dalla sua
mente come il più dannato delle stranezze. Ma Yuri sapeva di
non poter –e non
voler- fidarsi di sé stesso: conosceva troppo bene la sua
parte interiore e
sapeva che non gli avrebbe lasciato scampo troppo facilmente. La sua
mente gli
avrebbe riproposto quell’immagine dei momenti più
impensabili senza una ragione
apparente, e Yuri non aveva ancora imparato a tener a bada questa parte
di sé.
Ci era cascato troppe volte e, a furia di inciampare, aveva imparato ad
odiare
quella sua particolarità.
Tuttavia,
quella fu una delle rarissime volte in cui voleva
assecondare i suoi pensieri. In quel momento non sapeva se maledire o
benedire
la sua immaginazione.
Proprio
per questo voltò il viso a guardare la persona al
suo fianco destro: la sua espressione era corrucciata per il freddo, ma
rimaneva sempre fiera e gli trasmetteva una certa ombra di
indipendenza,
superiorità e libertà. Quella che Yuri non aveva
mai nemmeno lontanamente
assaggiato. Era sovrappensiero, camminava con le mani nelle tasche di
un paio
di larghi pantaloni mimetici che sembravano essere molto morbidi, e la
sciarpa
grigia avvolta al suo collo continuava ad appoggiarsi alla sua schiena
coperta
dal giubbino di pelle nera, per poi essere risollevata dal vento
gelido. I suoi
capelli neri come la pece avevano ormai perso il controllo, andando in
qualsiasi direzione permessa dalla gravità. Quando Otabek si
accorse del suo
sguardo da spia gli rivolse un’interrogativa unione di
sopracciglia, cercando
di decifrare i suoi pensieri e il motivo di tutto quello.
“Ti
sto solo guardando. Non montarti la testa, kazako.”
“Di
solito si guarda qualcosa perché ne si è
incuriositi.
C’è qualcosa che non va?”
“Oh,
assolutamente no. Stavo guardando la tua sciarpa. Deve
essere molto calda.”
“E
lo è. Vuoi provare o-?”
“NO!
Tranquillo. Sono nato in Russia cazzo, lo sopporto
bene il fred–porca troia, a quella bancarella vendono
caldarroste.
Senti, Beka, noi
siamo amici, proprio tu mi hai chiesto di esserlo, e gli amici si
aiutano e..”
“Sì
Yuri, te le compro, te le compro.”
Al
solo sentire quelle parole, Yuri ebbe un guizzo di
felicità negli occhi e uno strano… calore.
Sicuramente non dovuto alle
caldarroste. Il pensiero che qualcuno si prendesse cura di lui per il
solo
piacere di farlo e non a causa di un qualche contratto lo faceva
sentire…
speciale? Nemmeno lui sapeva riconoscere quella sensazione, ma
sicuramente era
una delle più belle mai provate. Sapeva che il ragazzo aveva
usato quel tono
rassegnato solo per giocare e per un momento si sentì come
un bambino che fa i
capricci per ottenere il giocattolo su cui aveva posato gli occhi da
quando era
entrato nel negozio. Si avvicinarono alla bancarella entrambi con le
mani in
tasca, mentre le larghe strade illuminate si riempivano sempre di
più:
giocolieri, mangiafuoco, ritrattisti e ballerini davano mostra delle
loro
abilità. Quando si ritrovò con il caldo pacchetto
in mano, Yuri tirò un enorme
sospiro di sollievo. Riusciva persino a sentire il sangue pompare nelle
sue
vene. Qualche attimo dopo, però, accadde qualcosa di a dir
poco magico.
Semplicemente, Beka gli pizzicò una guancia arrossata con le
sue altrettanto
rosse dita. Non durò più di tre secondi netti, ma
fu capace di portare Yuri
sette metri sopra il cielo. Quel gesto affettuoso gli
ricordò da morire sua
madre. Solo lei era solita “intrappolare” le sue
guance come in quel momento.
Lo faceva spesso, quando era bambino. Se il nonno era solito
scompigliargli
dolcemente i lunghi capelli biondi, con sua madre era diverso: solo lei
aveva
da sempre il silenzioso permesso di irrompere così a fondo
tra le sue mura
erette a suon di medaglie e scommesse su di lui e sulla sua vittoria
assicurata.
E Yuri considerava fottutamente ingiusto il fatto che lei fosse
costantemente
lontana. La mancanza di una vera famiglia, come quelle dei cartoni
animati, di
una famiglia calda, di una casa accogliente, dolce, di qualcuno ad
aspettarlo,
ad abbracciarlo, a dirgli “sono fiero di te”,
qualcuno a cui importava di lui,
qualcuno che lo amava, lo aveva decisamente segnato a vita. Era
abituato a
rialzarsi da solo nascondendosi sotto la sua pellaccia prepotente e
viziata. Di
solito non pensava questo di sé, ma la verità la
sapeva eccome e questa era la
cosa che lo faceva imbestialire più di ogni altra.
Riportò
la mente a quel gesto. Si accorse solo in quel
momento del fatto che i suoi occhi erano rimasti in quelli del ragazzo
davanti
a lui. Realizzò che probabilmente le sue guance erano
diventate rosse come non
succedeva da troppo tempo. La sua bocca era leggermente socchiusa in
un’espressione sorpresa. Se da una parte quel pizzicargli la
guancia gli aveva
riportato alla mente ricordi malinconici, dall’altra gli
aveva dato
l’opportunità di ricominciare, di creare un nuovo
Yuri Plisetsky; uno Yuri
indipendente, adulto, finalmente libero. La possibilità di
cambiare pagina del
libro che era la sua vita: per troppo tempo era rimasto fermo sullo
stesso
inchiostro che, ormai, aveva avvelenato quel benedetto pezzo di carta.
Non
sapeva per quanto tempo fosse rimasto immobile in quella posizione,
né quanti
pensieri gli fossero volati intesta in un nanosecondo, non sapeva
perché il
mondo intorno a loro non esistesse più.
Dove
sono? Non sono più solo, vero?
Sapeva
solo che lo sguardo di Otabek si era spostato dai
suoi occhi spalancati alle sue labbra screpolate per il freddo. Era a
conoscenza di cosa sarebbe accaduto da lì a poco.
L’aveva sempre saputo, in
fondo, e non ci voleva di certo un genio per capirlo. L’aveva
capito quando
aveva saputo che Otabek si era portato dentro, per ben cinque anni, i
suoi
occhi verdi da soldato. Da soldato.
Quelle parole avevano sempre uno strano sapore se pronunciate da lui.
Da quel
momento era stato sempre una continua sorpresa –e Yuri di
solito odiava le
sorprese, ma lui, come sempre, era un’eccezione-. Sia chiaro,
lui non vedeva
l’ora che ciò accadesse. Ma non voleva che
accadesse in quel modo.
Non
ora. Non così.
Quasi
come se Dio avesse voluto accontentarlo, per una volta, qualcosa
-qualcuno- li
interruppe. Era la roca voce di un uomo sull’ottantina
posizionato poco lontano
dalla bancarella delle caldarroste ad aver catturato la loro
attenzione, e se
Otabek stava maledicendo mentalmente quella figura leggermente
ingobbita, Yuri
ringraziava il cielo per il suo arrivo puntuale. L’uomo
sedeva su uno sgabello
segnato dal tempo e aveva davanti a sé un cavalletto carico
di fogli bianchi,
con un arto in legno che permetteva di poggiare il carboncino. Era
vestito di
una giacca sgualcita e scucita in più punti, macchiata dalla
polvere nera del
carboncino come il grembiule che aveva legato alla vita; era evidente
il fatto
che la sua barba non venisse tagliata da svariate settimane e gli
capelli
bianchi davano l’impressione di non essere lavati da un po'.
Gli occhiali tondi
erano sistemati quasi sulla punta del suo naso e il sorriso sulla sua
bocca
mostrava dei denti scuri e storti tipici dell’età.
Solo un guizzo nei suoi
occhi caldi spinsero Otabek a fidarsi di lui, anche se aveva appena
rovinato un
momento che sembrava essere perfetto: un guizzo di spensieratezza nelle
sue
iridi, accompagnato da uno spirito di genialità giovanile
che il kazako non
seppe spiegarsi in un uomo con i suoi anni. Fece lui il primo passo
avanti dopo
aver lanciato un’occhiata di intesa al biondo che, come lui,
era stranito da
quella situazione. Anche se lui sembrava molto più
diffidente.
“Possiamo
esserle d’aiuto?”
L’anziano
signore diede l’idea di essere sorpreso dal fatto che quei
due ragazzi avessero
davvero risposto al suo richiamo. Otabek immaginava che la maggior
parte delle
persone tendeva ad evitare contatti con tale uomo, forse
–sicuramente-
aggrappati al pregiudizio riguardo il suo aspetto esteriore. Lui non
aveva mai
dato peso a quel particolare, piuttosto studiava gli occhi delle
persone: era
dell’idea che tutti avessero un proprio sguardo
“speciale”. Ogni essere umano
–o almeno quelli di sua conoscenza- aveva i propri occhi,
quindi non ci sarebbe
niente di speciale nell’avere un proprio sguardo.
“Speciale”, però, lo
diventava solo in alcuni momenti. A qualcuno poteva diventarlo
guardando una
fetta di torta tutta per lui, a qualcun altro guardando un paesaggio a
lui
caro. E, in disaccordo con la sua persona pratica e materialista, era
perfettamente d’accordo con il detto “gli occhi
sono lo specchio dell’anima”.
Al momento gli venivano in mente solo due sguardi speciali: quello di
Yuri, grazie
alla tenacia dei suoi occhi cristallini, alla loro forza, alla loro
sfrontatezza, al loro dover essere ancora davvero scoperti da qualcuno,
come se
portassero dentro il peso di una storia troppo complicata per un
quindicenne, i
suoi occhi da soldato. E poi venivano quelli giovanili e geniali e
semplici di
quell’anziano. Riportando in modo brusco la mente alla
realtà, il succitato
aveva velocemente sfilato gli occhialetti e girato lo sgabello verso di
loro.
Schiarendosi
scompostamente la voce, cominciò:
“Perdonatemi
se ho disturbato la vostra passeggiata, ragazzi. Io mi chiamo Horacio,
Horacio
Romero. Come avrete intuito, io sono un artista. Ritrattista, se
vogliamo
essere pignoli. Non voglio rapirvi, né derubarvi o altro,
state tranquilli.”
La
sua voce era lenta e stanca, con un forte accento inglese, ma Otabek
continuava
a vedere un antico bambino nelle sue iridi. Yuri era
sull’attenti, pronto ad
attaccare come un gatto con la sua prossima preda, stretto nella sua
camicia di
jeans. Tuttavia lo sguardo dell’uomo vagò su di
lui quasi come a sfidarlo.
Senza vergogna, senza malizia. Solo una profonda curiosità e
attenzione,
concentrazione. Persino mentre parlava i suoi occhi erano sempre alla
ricerca
di nuovi particolari nel corpo di Yuri. Quasi come una madre protegge i
suoi
piccoli, il braccio sinistro di Otabek andò a posarsi a
pochi centimetri di
distanza dal suo addome non appena se ne accorse, avanzando di un passo
oltre
il biondo. “Fidarsi è bene, non fidarsi
è meglio”, si disse. La sola idea di
quegli occhi indagatori sul corpo dell’altro gli aveva fatto
scattare un senso
di protezione fino ad allora sopito, fino a fargli dimenticare quasi il
bambino
antico. Ecco la sua mente fredda. Ecco il vero Otabek. A quel gesto,
però, il
vecchio gettò le armi. Riportò lo sguardo a lui,
ridacchiando brevemente.
“Possiamo
esserle utili, signor Romero?” ripeté in inglese
il moro, scandendo bene e
lentamente le parole, quasi a voler trasmettere il suo essere
più grande
rispetto a Yuri.
“Voglio
essere sincero con voi. Soprattutto perché se facessi
altrimenti, una tigre
bionda mi azzannerebbe insieme alla sua fedele aquila. È da
un po' che vi
osservo. Precisamente da quando avete imboccato questa strada, prima
che
prendeste le caldarroste. Ora, sarò diretto: voi avete
qualcosa che mi
interessa.”
“Cosa
sarebbe?”.
“Lui.”
L’indice
tozzo dell’uomo puntò, come previsto, a Yuri.
Gli
occhi di entrambi si assottigliarono, finché il russo
davvero non riuscì più a
trattenersi.
“Senti,
vecchio, noi non abbiamo tempo da-“
“Perché
ti nascondi, ragazzo?”
“Cosa
diamine stai dicendo, vecchio pazzo?”.
“Te
l’ho detto, ti sto osservando da un po'. Non sono
così pazzo come sembra.
Vecchio sì, ma pazzo non ancora, ragazzi miei. E ti
dirò di più: forse quello
strano sei tu.”
Quelle
parole furono una doccia fredda per il quindicenne. Cosa stava
blaterando qual
vecchio? Tutte stronzate, si diceva. Eppure, dentro di sé,
sapeva di dover star
a sentire quello strano individuo.
Senti
cosa dice.
Prova
a te stesso che qualcuno al mondo è
riuscito a capirti.
Otabek,
al suo fianco, fu sorpreso e stranito dalla reazione di Yuri; tuttavia,
non osò
dire una parola a riguardo. Si limitava ad osservare le labbra
arricciate del
biondo e i suoi occhi più aperti del normale. Prendendo quel
silenzio come un
permesso per andare avanti, Horacio proferì:
“Sai,
ho notato una cosa: quando sei distratto, quando sei immerso nei tuoi
pensieri
oppure contempli qualcosa –o qualcuno, oserei dire- i tuoi
movimenti sono così…
aggraziati da sembrare irreali.
Cammini come se le suole delle tue scarpe non toccassero alcuna terra,
come se
l’aria ti stesse trasportando con sé; i tuoi gesti
sono lenti, posati ed
eleganti. Armoniosi. Anche i tuoi lineamenti si rilassano. Ma poi ti
ricordi
della tua maschera e spezzi quell’incantesimo. Trasformi la
tua camminata in
quella di un qualsiasi ragazzo che vuole sembrare padrone del mondo.
Gesti
bruschi –come il tuo tono-, cambi il tuo sguardo. La mascella
si irrigidisce.
Persino la tua schiena tende a piegarsi quando ti accorgi di aver
lasciato
trasparire il vero te stesso.
“Ora,
io mi chiedo: perché mai nascondi qualcosa del genere sotto
quello strato di
arroganza? Il cielo ti ha donato qualcosa di straordinariamente raro e
tu ti
vergogni di questo dono.”
Un
fischio. Le orecchie di Yuri percepivano uno strano, lungo e continuo
fischio.
Forse proveniva dal suo cervello avvolto dalle fiamme, o forse qualcuno
nella
strada intorno a loro era felice e fischiettava per esprimerlo.
Ma
no, no. Era davvero il suo cervello.
Allarme.
Era questo il fischio.
Una
cassaforte che veniva aperta e da cui, come un vaso di Pandora, ne
usciva
l’inimmaginabile. Ed era strano, così
strano che qualcuno riuscisse ad aprire un lucchetto
divenuto
indistruttibile dopo anni e anni di negazione e rifiuto.
Perché era davvero
successo quello. La cosa più strana, verrebbe da pensare,
era che era stato un
vecchio che conosceva Yuri da solo pochi minuti ad aver compiuto
quell’impresa;
e invece non era quello. La cosa più strana era che Yuri
l’aveva permesso.
Lo
stesso Yuri che non permetteva a nessuno di parlargli per
più di 30 secondi
senza mandarlo a fare in culo.
Ecco,
quella era una cosa che aveva sorpreso anche lui stesso.
Otabek
guardava quel vecchio come se gli avesse appena detto detto di essere
in grado
di volare a bordo di un magico tappeto.
Yuri,
a quel punto, si ritenne costretto ad alzare bandiera bianca, quasi
deluso da
sé stesso.
Non
si può negare una così grande verità.
“Deve
dirmi qualche altra cosa oppure posso continuare la nostra passeggiata?
Tanto
credo che si sia accorto anche del fatto che ci stavamo tranquillamente
facendo
i fatti nostri. Sa com’è, dato che non le sfugge
niente.”
“In
verità avrei una richiesta.”
Gli
occhi dell’uomo brillarono ancora. Sembrava genuinamente
ubriaco della presenza
dei due ragazzi. Il tutto condito con una sincera innocenza, ma non
troppo
sottile intelligenza.
“Vorrei
poter ritrarre una tale creatura come te.
“Sono
un artista, e in un mondo subdolo e superficiale come questo trovare
persone
come te è raro come una rosa nel deserto. Permettimi di
portare nella mia mente
il ricordo di una grazia e un’armonia a dir poco innata. Non
mi restano molti anni
da vivere, ahimé, quindi… Ti prego di pensarci.
Non ci metterò molto. Dopotutto
ho vissuto di arte per tutta la mia vita. Quando facevo il soldato
disegnavo
sulle pietre con del carbone per ricordarmi di essere ancora umano. Con
l’arte
mi guadagno il cibo ogni giorno, anche se ultimamente scarseggiano le
persone
che vogliono farsi ritrarre. E credimi se ti dico che è la
seconda volta che
incontro una persona come te in tutta la mia vita.”
Il
vecchio signore abbassò lo sguardo –probabilmente
per non far vedere loro i
suoi occhi scuri e intrisi di vecchi ricordi appartenenti alla sua
giovinezza.
Di fronte a quello, Yuri restò semplicemente in silenzio.
“La
prima è stata la donna che ho amato con tutto il mio cuore.
Mia moglie.
Dopotutto ho avuto una vita felice, io. Me l’hai ricordata
non appena ti ho
visto. Lei aveva la tua stessa delicatezza. Aveva dei lunghi capelli,
della tua
stessa sfumatura di biondo. Sai cosa mi ha emozionato di
più, però?”
Yuri
scosse la testa in segno di diniego, totalmente immerso nel fiume di
parole di
quello strano uomo.
“Lo
sguardo del moro.”
Entrambi
capirono a chi si riferiva. D’altronde c’era solo
un moro, lì con loro.
Otabek
fu sorpreso di essere chiamato in causa per la prima volta dopo tutta
la durata
di quell’insolita visita. Era così attratto e
affascinato dalle parole del
vecchio, che solo a quella frase si ricordò della sua stessa
presenza. Eppure
era lì, davanti a loro, con il naso arrossati dal freddo e
le mani scivolate
via dalle tasche. Solo in quel momento si ricordò anche di
respirare dato che,
nella sua mente troppo distratta, il suo ultimo respiro da cosciente
era stato
dato quando si trovavano ancora alla bancarella delle caldarroste. Lo
esortò a
continuare con un veloce cenno del capo, percependo su di sé
i loro sguardi.
“È…
identico a quello che le riservavo io. La guardavo come se fosse la
cosa più
bella del mondo, ed ogni volta pensavo ‘non merito una
meraviglia del genere,
ma nemmeno voi; quindi è mia, bastardi’.
Desideravo proteggerla e prendermene
cura come se fosse il fiore più delicato al mondo.
“La
verità è che mi sono rivisto negli occhi di quel
ragazzo. Ecco cos’altro mi ha
spinto a fermarvi.”
I
due ragazzi erano a dir poco rapiti dalle parole del vecchio artista.
Tuttavia,
entrambi sapevano qual era la risposta alla sua precedente richiesta.
Ormai non
avevano più dubbi.
“Horacio?”
“Dimmi,
ragazzo”
“Voglio
farmi ritrarre”.
“Davvero?
Beh, meraviglioso. Comincia a sederti lì e io passo
a-“
Il
vecchio aveva risposto con due brevi colpi di tosse, prima di essere
nuovamente
interrotto dalla voce di Yuri.
“Ad
una condizione.”.
“Ma
certo”
“Voglio
che disegni anche lui. Con me.”
Horacio
se l’aspettava, quella frase. Come a dimostrare
ciò, un sorriso stanco e velato
di ricordi comparve sul suo viso. Non rispose.
Fece
accomodare Yuri su un secondo sgabello davanti a lui, mentre
accompagnò Otabek
alle sue spalle. I lunghi e magri stinchi del biondo si piegarono verso
l’esterno, verso la sua destra, rimanendo comunque uniti fra
loro; ravvivò i
lunghi capelli biondi e alcune ciocche andarono a posarsi sul suo viso,
quasi
come ad incorniciare i suoi lineamenti delicatamente rilassati e
rivolti alla
sua sinistra. La mano destra si soffermò a mantenersi al
bordo dello sgabello, mentre
l’indice dell’altra corse istintivamente sotto il
mento, quasi come a
sorreggerlo con grazia, seguendo quello sguardo che, con leggerezza, si
perdeva
tra le genti che continuano a vivere la loro vita intorno alla loro
piccola
bolla. Le sue labbra rimasero socchiuse e, come immaginato, tutto di
lui
esprimeva enorme grazia e armonia, come se fosse un essere
completamente
superiore al mondo che li circondava. Nemmeno i pantaloni strappati
infierivano
contro la sua perfezione.
Una
fata in un mondo di semplici uomini. Una farfalla in un mondo di vespe
pronte a
pungere. Oppure, precisamente, una farfalla che voleva travestirsi da
vespa.
Otabek,
in piedi dietro di lui, era il perfetto riflesso del suo temperamento.
La
sua schiena e le sue spalle larghe si stagliavano contro il caos
retrostante
con meravigliosa fierezza, dettate dal suo innato e personale orgoglio.
Per la
sua patria, per sé stesso, per quello che era diventato
sputando sangue e
mordendo ghiaccio; i suoi capelli scuri venivano continuamente
spettinati dal
vento freddo, ma poco gli importava in quel momento. La sua altezza e
snellezza
conferivano maestosità allo sguardo puro, diretto, deciso,
altrettanto fiero. La
sua espressione era mirata a somigliare ad una specie di guardia per la
figura
davanti a sé. Inizialmente, con Horatio, avevano deciso che
i suoi occhi
avrebbero dovuto puntare dritto davanti a sé, ma
l’artista si era accorto sin
da subito che il suo sguardo tendeva a posarsi sulla persona
“da proteggere”
piuttosto che verso
l’orizzonte. Il
vecchio se ne accorse, ma non fece niente per farne rendere conto al
moro.
Anche se non era programmato
in origine, lo
sguardo di Otabek fu disegnato mentre guardava Yuri.
Horatio
sorrise tristemente.
Maneggiava
il carboncino come se non avesse fatto altro nella vita, i suoi tratti
sul
foglio da disegno erano precisi, senza sbagli. Sull’arto in
legno che
caratterizzava il suo cavalletto –che manteneva il foglio
ruvido leggermente
inclinato, in modo da far scivolare la polvere- erano presenti varie
stecche
nere o grigie. L’artista, mentre loro posavano,
spiegò che esistono due tipi di
carboncino: quello naturale e quello compresso. Lui preferiva adottare
quello
naturale poiché non lasciava un tratto sottile grigio-nero,
che l’avrebbe
invitato a dedicarsi prima del dovuto ai particolar; in più,
offriva una più
vasta gamma di sfumature rispetto a quello compresso, che lasciava un
segno
nero, molto profondo e regolare. Si scusò per la sua mise alquanto sporca, ma il materiale
era poco stabile ed era molto
facile che gliene cadesse un po' addosso o che andasse a macchiare il
foglio.
Da
quella posizione, Otabek riuscì a notare che Horatio tendeva
a sfumare i tratti
semplicemente con le dita, con tratti precisi. Potevano quasi
somigliare a
carezze date sulle paffute guance di un bambino appena nato, tanto
erano lenti
e delicati. Tutta la sua figura esprimeva sicurezza e attenzione, come
se
stesse tentando di disegnare anche la sua anima, con quel carboncino.
Dopo ogni
tocca, seguiva uno sguardo diretto ad Otabek o a Yuri, a seconda del
soggetto
che aveva preso in considerazione in quel momento. La sua mano era
esperta, i
suoi occhi concentrati, ogni tanto si rimboccava la manica della sua
giacca
evidentemente a rischio macchia di polvere. Ogni tanto cambiava
carboncino
oppure usava un pennello asciutto per sfumare. Il mondo intorno a loro
non
esisteva più. Per Otabek c’erano i capelli e il
collo di Yuri, per lui le mani
dell’altro poggiate delicatamente sulle sue spalle come a
proteggerlo da tutto
e tutti, per Horatio c’erano solo i suoi soggetti perfetti.
Era tutto perfetto.
Era scesa la notte ed erano stati accesi i lampioni, che riflettevano
una luce
aranciata tutt’intorno.
Rimasero lì
immobili per almeno un’ora e mezza, ognuno immerso nei propri
pensieri,
accecati dalla maestria con cui la loro immagine veniva disegnata sul foglio ruvido. Quando
Horatio diede loro
il permesso per rilassarsi, annunciando loro la fine
dell’opera, a Yuri quasi
pianse il cuore, come se avesse appena detto la parola fine ad
un’esperienza
magica, che non avrebbe mai più rivissuto in vita sua. Un
pizzico di malinconia
lo colse.
“Ragazzi,
ecco il vostro ritratto. Per me è stato un onore ritrovare
in te, piccolo
biondo, la mia amata. Grazie per avermela fatta incontrare ancora una
volta
prima di finire in una cassa da morto. Ma ora che ci penso…
non mi avete ancora
detto i vostri nomi.”
“Semplicemente
Yuri e Otabek. E grazie a lei per… questo.”
L’espressione
di Otabek si addolcì, mentre le sue labbra si piegavano in
un sorriso che di
finto non aveva niente.
“Mi
dispiace solo di aver interrotto un momento così intimo. Ma
non temete,
figlioli. Avete tutta la vita davanti per imparare ad amare, a
respirare e a
vivere. E tu, Yuri; non ripudiare
mai
te stesso. Sii sempre fiero di ciò che sei. Non avere paura
di te. Il mondo ti
sta aspettando, vi sta aspettando.
Vivete, senza guardarvi indietro. E tu, Otabek, non perdere mai quello
sguardo:
sarà la tua guida.”
Con
un’ultima spruzzata di spray fissante, Horatio si
alzò dal suo sgabello con il
foglio in mano –la sua firma sembrava uno scarabocchio-, per
salutare i due
ragazzi.
“Ci
rivedremo.”
“Domani..
tenga d’occhio il Gran Prix di pattinaggio artistico. Yuri
Plisetsky e Otabek
Altin. Ci rivedremo.”
L’artista
sorrise, donando un piccolo buffetto sul naso – il secondo,
quella sera- di
Yuri e avvicinandosi ad Otabek per una paterna pacca sulla spalla.
Tutti, in
quel momento, sapevano che quella strana, unica avventura stava per
finire. Presto
quella bolla di magia sarebbe esplosa, schizzandoli con la sua acqua
saponata
che, irrimediabilmente, avrebbe bruciato ai loro occhi. Decisero di non
pensarci.
Fu
Yuri a fare il primo passo. Con un ultimo tocco di
magia, però, esso fu carico di elegante grazia. Sorridendo
tra sé e sé, teneva
il foglio stretto tra le dita lunghe, continuando per la sua strada.
Sembrava
camminare sull’acqua. I suoi capelli si scompigliavano ad
ogni folata di vento.
Otabek,
invece, lo seguì un secondo dopo, prima di sentirsi
afferrare per un braccio.
Era
la mano sporca dell’artista ad averlo trattenuto. Gli
fece segno di avvicinarsi mentre Yuri, ignaro di quello che stava
accadendo
alle sue spalle, continuava a mettere distanza tra loro. Otabek
sovrastò il
vecchio con la sua altezza, avvicinando l’orecchio al suo
viso.
“Non
lasciartelo scappare. Ascolta questo pazzo che ha
amato una creatura della sua stessa specie. È speciale. Fai
quello che io non
posso più fare. Semplicemente, amalo.”
Anche
Otabek proseguì per la sua strada.
Fece
lunghe falcate per raggiungere e affiancare Yuri.
Horatio
fece appena in tempo a vedere le loro mani
intrecciarsi timidamente prima che le loro figure sparissero dalla sua
vista.
Parte del disegno stava lentamente fluttuando nel vento, ancora un
angolo
stretto tra le dita del biondo.
“Yuri
Plisetsky, tu hai gli indimenticabili occhi di un
soldato.”
°°°°°
“Yuri
Plisetsky, medaglia d’oro! Il Gran Prix 2019 si
conclude con l’ennesima vittoria della leggendaria Tigre dei
Ghiacci!”
“Ancora
oro per il giovanissimo Plisetsky, che ci ha
onorati con un’altra delle sue spettacolari esibizioni. Il
bronzo kazako
‘Otabek Altin’ non sembra per niente scalfito del
suo terzo posto; la coppia
del podio non rinuncia ad un bacio di fronte alle telecamere!”
‘Signor
Nikiforov, cosa ne pensa del suo secondo posto?’
‘Sono
felice ed onorato di aver lasciato l’oro a Yuri. Lo
conosco da quando aveva otto anni, il nostro legame potrebbe
riassumersi come padre-figlio.
Sono fiero di lui.’
“Il
suo famoso Agape è tornato sulla pista,
quest’anno. Con
un programma diverso da quello ideato da Viktor Nikiforov anni fa, ma
la
sostanza non è stata scalfita dal tempo. Ancora una medaglia
per l’eleganza e
la grazia di Yuri Plisetsky.”
Horatio
Romero stava sfogliando l’ennesimo giornale, per
l’ennesima volta da quando aveva aperto gli occhi quella
mattina.
Era
novembre, aveva appena iniziato a nevicare e migliaia
di candidi puntini macchiavano le strade e il buio di Barcellona. Il
vecchio
artista si strinse ancor di più nel suo logoro cappotto di
lana mentre
altrettante migliaia persone gli passavano davanti, ignorandolo.
D’altronde,
chi avrebbe mai fatto caso ad un vecchio uomo dai capelli e la barba
bianchi,
un basco scucito sul capo e un giornale tra le mani?
Ma
questo ad Horatio non importava.
La
sua attenzione era catturata da una foto di un primo
piano, stampata sulla fredda e asciutta carta.
Essa
raffigurava un podio decorato con peluche, riflettori,
e soprattutto fiori di ogni tipo. Ma a lui non importava nemmeno dei
fiori, né
tantomeno della sfilza di marche e sponsor sul pannello che faceva da
sfondo.
A
lui importava dei soggetti.
Sempre
loro, a distanza di anni.
Erano
cambiati, certo. Erano cresciuti. Ma erano sempre
loro.
Sempre
i due ragazzi timidamente innamorati che lui aveva
ritratto, anni e anni prima.
I
due ragazzi che, ormai, facevano parte della sua
‘missione’ sulla terra.
Il
vecchio sentiva, da un po', che il suo tempo lì stava
per finire.
Ma
a lui non importava nemmeno quello.
Dopotutto,
come aveva detto a due ragazzi speciali, lui era
felice della sua vita. Soddisfatto. Aveva vissuto la guerra, la morte,
si era
innamorato di qualcuno che –nel suo ruolo da soldato- avrebbe
dovuto uccidere:
le aveva invece donato il suo cuore. Aveva vissuto il cielo di ogni
giorno e la
luna di tutte le notti. Aveva affrontato ogni problema che la sua vita
gli
aveva posto davanti. Aveva sceso ogni gradino con Lei e senza Lei al
suo
fianco. Avevano riso, avevano respirato, avevano fatto
l’amore in un campo di
grano, ancora nel pieno della loro giovinezza e del loro amore. Aveva
disegnato, aveva raccontato, aveva osservato, aveva pianto lacrime
amare. Aveva
donato la vita ai suoi figli, aveva aspettato, aveva giocato.
Soprattutto,
però, aveva fatto nascere un giovane amore. Aveva fatto
sì che la sua storia
continuasse sulle pagine di un altro libro, ma la trama era rimasta la
stessa.
Aveva incontrato di nuovo il suo amore, con le sembianze di un giovane
dagli
occhi di soldato; aveva affidato il suo sguardo speciale ad un ragazzo
fiero e
orgoglioso di ciò che era diventato, sperando che almeno
quello continuasse a
vivere nei suoi occhi scuri. Aveva rivisto sé stesso in quel
bacio raffigurato
sulla foto di un giornale stropicciato: un bacio dato
d’impeto, sul primo posto
del podio, dove due giovani ragazzi –due giovani anime- si
tenevano stretti,
con le medaglie che luccicavano sui loro petti, a far combaciare i
cuori.
Avevano gli occhi aperti. Si guardavano negli occhi, inseguendo la loro
vittoria, mentre un sorriso increspava le loro labbra unite da quel
bacio
impacciato. Aveva rivisto un soldato che tornava finalmente a casa dopo
aver
combattuto tra le prime file del fronte, baciando disperatamente una
donna
dagli scompigliati capelli biondi come il grano dove avevano fatto
l’amore per
la prima volta, stringendola spasmodicamente a sé.
Stesso
sguardo, stesso sorriso, stesso abbraccio, stesso
bacio disperatamente voluto.
Oh
sì, lui aveva decisamente vissuto.
Ora
toccava scrivere altre pagine, su un altro libro.
Ma
questa è un’altra storia.
Solo
una lacrima felice bagnò quelle guance dalla barba
incolta.
Essa
venne donata alla notte e alla luna.
Ma
questa è un’altra storia.
I
ragazzi che si amano si baciano in piedi
Contro le porte della notte
E i passanti che passano li
segnano a dito
Ma i ragazzi che si amano
Non ci sono per nessuno
Ed è la loro
ombra soltanto
Che trema nella notte
Stimolando la rabbia dei
passanti
La loro rabbia il loro
disprezzo le risa la
loro invidia
I ragazzi che si amano non
ci sono per nessuno
Essi sono altrove molto
più lontano della
notte
Molto più in alto
del giorno
Nell'abbagliante splendore
del loro primo
amore
Come
sempre, tutto quello che
scrivo è dedicato a Te. Sorpresa, zhanym! Con amore,
A.