Storie originali > Favola
Segui la storia  |       
Autore: Beauty    25/09/2017    1 recensioni
Cosa succederebbe se le protagoniste delle fiabe si incontrassero nella vita reale?
~
Jess Woods ha quattordici anni e nessuna intenzione di dare una seconda possibilità alla madre che l'ha abbandonata in un istituto anni prima.
Tuttavia, quando tornerà a vivere con lei a Everbrooke, la sua città natale, scoprirà che non tutto è bello e tranquillo in quella cittadina di provincia, almeno non quanto la ricca famiglia Schreave cerca di far apparire: la morte violenta del patriarca e i delitti del serial killer soprannominato il Lupo si intersecano con il mistero di Rosebud Thorn, ragazza dalla vita perfetta ridotta in coma da un misterioso aggressore, con la sparizione della figlia di un commissario di polizia e con la morte, avvenuta oltre dieci anni prima e mai del tutto chiarita, di Adam Schreave, primogenito dall'intelligenza superiore alla media e pecora nera della famiglia.
Una giovanissima giornalista di podcast coetanea di Jess e le sue sorelle, una hacker sbruffona, una ballerina dal passato difficile, due ragazze straniere giunte in città per avere giustizia, una modella tanto bella quanto fragile e una fotografa reclusa dovranno unire le forze per svelare i segreti del passato...e fermare la scia di sangue del Lupo.
Genere: Commedia, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo V
 
I'm Not Red Riding Hood, But I Think the Wolves Have Got Me
 
(pomeriggio, sera e notte di lunedì 9 settembre)
 
 
I. [Belle]
 
Il cellulare vibrò facendo ballonzolare le penne sul banco.
Belle lo aprì e lesse l'SMS.
 
Giorno di autopsia. Non aspettarmi alzata.
 
Papà
 
Sollevò un angolo della bocca in un sorrisino impercettibile e appena velato di tenerezza. L'ispettore Gordon sapeva che il suo nome veniva visualizzato sullo schermo del telefonino ogni volta che chiamava sua figlia o che le inviava un messaggio, ma si ostinava a firmarsi papà alla fine del testo.
Ripose il cellulare nella borsa marrone a frange in stile hippie e ne estrasse un pacchetto di biscotti Oreo. Ne prese uno e cominciò a sgranocchiarlo cercando di non farsi notare.
Era mezzogiorno, la lezione era appena iniziata e lei oltre ad avere già fame si stava anche annoiando a morte. Non seguiva più le lezioni universitarie da circa un anno e mezzo, si recava alla Everbrooke State University solo per sostenere gli esami. Quella mattina aveva scelto il corso di database solo perché era tenuto dal professore che avrebbe gestito il dottorato, nella speranza che dicesse qualcosa in merito.
Era stata accontentata.
Il dottorato sull'A.I. sarebbe cominciato nel settembre successivo. Vi avevano accesso solo i laureati con una media superiore al ventisette su trenta, e vi era un solo posto coperto dalla borsa di studio.
Fottutamente impossibile, aveva pensato Belle in quel momento.
La spiegazione sulle modalità di accesso al dottorato – media dei voti, esame scritto da sostenere a giugno e successivo colloquio orale – si era conclusa in dieci minuti, e il professore aveva iniziato a spiegare quei concetti triti e ritriti che Belle conosceva a menadito dalla terza media.
Si ficcò in bocca quel che restava del biscotto alla crema e cioccolato, pescò le cuffie dalla borsa e se le mise sulle orecchie. Premette play su Believer degli Imagine Dragons e tornò a concentrarsi sullo schermo del portatile che teneva di fronte, acceso.
L'annuario scolastico della Princeton University era tranquillamente reperibile online sul sito dell'istituto, e ora Kathryn Miranda Torrance la guardava con un'espressione severa e quasi di rimprovero.
Era una foto molto più seria, quella che era stata messa sull'annuario, e che a parere di Belle non rendeva giustizia all'aspetto della ragazza. Kate non sorrideva, anzi, le labbra erano tirate in una smorfia che avrebbe voluto essere seria e composta, ma che dava l'impressione che la non volente modella fosse tesa e preoccupata, addirittura arrabbiata per qualcosa. La luce sotto la quale era stata scattata la fotografia era bianca e bruciata, e le colpiva il volto in modo da rendere l'incarnato smorto e malaticcio. I capelli ricci e color cioccolato erano tirati indietro in una coda di cavallo che non le stava bene, e il mezzo busto mostrava il colletto di una camicetta bianca e un maglione blu mare.
Belle aprì un'altra pagina dell'annuario: Rosebud Thorn aveva lo stesso outfit, ma era come sempre uno schianto, una fotomodella formato Barbie con i capelli biondi e gli occhi azzurri, e un sorriso scintillante.
La sua intuizione era stata corretta. L'ispettore Gordon non era stato assegnato al caso della scomparsa di Kate Torrance, dunque non le aveva detto nulla in merito, ma da quel che aveva potuto vedere dopo aver hackerato gli archivi privati della polizia, a nessuno era venuto in mente di collegare l'aggressione di Rosebud Thorn alla scomparsa di Kate Torrance.
Eppure gli elementi c'erano tutti.
Le due ragazze avevano entrambe vent'anni. Erano nate lo stesso anno, ed erano entrate a Princeton nello stesso periodo. Entrambe avevano uno o entrambi i genitori a Everbrooke. Rosebud Thorn era stata attaccata il 3 maggio, e Kate, in città quello stesso periodo, aveva fatto perdere ogni traccia di sé due giorni dopo.
Belle aveva dato un'occhiata al curriculum online di entrambe, messo a disposizione dalla Princeton: Rosebud aveva frequentato la Everbrooke High School, mentre Kate un altro liceo del New Jersey. Questo era un colpo al fianco alla sua teoria, ma poteva anche darsi che si fossero conosciute dopo, magari alla Princeton stessa.
Si guardò intorno. Non poteva entrare nel Deep Web né fare operazioni di hackeraggio, lì in Università, dove chiunque poteva vedere ciò che stava facendo. Si limitò a navigare nel World Wide Web e a cercare ciò che le interessava. In capo a mezz'ora, aveva trovato le informazioni che aveva sperato, e anche qualcosa in più.
Chiuse il portatile, ma mentre lo stava riponendo nella borsa a frange, qualcosa la colpì al collo.
Sibilò di dolore, mentre si portava una mano all'altezza delle spalle. Si trovò le dita impiasticciate con una pallina fatta di carta e saliva.
La gettò sul pavimento con una smorfia schifata.
Alle sue spalle, iniziarono ad arrivare delle risatine soffocate. Belle si voltò: non si era neanche accorta che Gaston fosse seduto due banchi dietro di lei, insieme a un suo amico.
Inspirò a fondo, raccattò le ultime cose, si mise la borsa in spalla e uscì senza voltarsi.
 
Un'ora e quaranta dopo – e un trancio di pizza al salame piccante, una Coca Cola e un caffé a seguire –, Belle era appoggiata a una delle colonne della veranda di fronte a casa di Lum, dondolandosi sulle punte delle scarpe, cappuccio tirato sul capo e secondo bicchiere di caffé con latte alle labbra.
Beveva a piccoli sorsi, come se temesse di finirlo troppo in fretta.
Alzò lo sguardo dalle piastrelle della veranda quando sentì la porta d'ingresso aprirsi.
- Scusa, Lum. Avevo bisogno di parlarti, e visto che oggi pomeriggio tu non...oh!- si bloccò non appena vide Babette sulla soglia. La fidanzata di Lum indossava un paio di jeans e una canottiera bianca, i capelli neri sciolti e lo sguardo assassino.
Belle indietreggiò, imbarazzata.
- Ciao, Babette. Scusa, me ne vado.
- Sei venuta a rompere le palle solo per dirmi che te ne vai?- ribatté Babette, acida.
- Sarei venuta a rompere le palle in un altro momento, se avessi saputo che c'eri tu. Non ho...ehm...non ho interrotto niente, vero?
- Se per interrompere qualcosa intendi Arancia Meccanica, allora sì - Babette si scostò per farla passare, e lei entrò. Lum lavorava al negozio di elettronica part-time, e il lunedì staccava a mezzogiorno. Il ragazzo era spaparanzato sul divano di fronte alla TV, il film in stop, popcorn e schifezze varie in mezzo alle quali spuntava il computer aperto.
- Ehi!- ammiccò, facendole cenno di sedersi. Belle afferrò un cuscino, lo piazzò sul tappeto e ci si accovacciò sopra. Babette andò ad accoccolarsi accanto al fidanzato. Belle guardò prima lei, poi la schermata TOR aperta su una pagina di conversione dollari-BitCoin del PC di Lum.
- Tranquilla, so tutto - la freddò Babette ancor prima che Belle potesse parlare.- Lum mi ha raccontato tutto qualcosa come sei mesi fa.
- Ed è d'accordo?- Belle inarcò le sopracciglia e si rivolse all'amico.
- Non sono una santa, e poi sospettavo che Lum non tirasse a campare con solo lo stipendio di commesso - Babette fece spallucce.- Qual è il tuo nickname, a proposito?
- Rogue - bofonchiò Belle.- Senti, Lum, non sapevo fossi con Babette. Mi spiace. Se vuoi me ne torno a casa e ne parliamo stasera al telefono.
- Ma figurati! E poi Arancia Meccanica l'abbiamo già visto due volte...- Lum avvolse un braccio intorno alle spalle della fidanzata e spense la TV.- Di che vuoi parlarmi?
- Posso restare, sì?- s'intromise Babette.- O è una cosa di lavoro?
- Cavolo, l'ha veramente presa bene...- commentò Belle.- Sì, non c'è problema. Te ne intendi?
- Mai stata sul Deep Web e uso il PC solo per le mail e i giochini online. Ma imparo in fretta.
- Scusa, piccola, ma io ancora non ho capito se soffri di perdita di memoria a breve termine o se mi stai prendendo per i fondelli - Lum si massaggiò il capo brillantinato.- Ieri sera mi avevi detto...
- Lo so, lo so, e ho intenzione di piantarla - Belle piazzò il proprio portatile sul tavolino.- Dopo che ti avrò fatto vedere questa cosa...
Aveva lasciato il computer acceso in standby sulla pagina dell'annuario scolastico della Princeton, con la foto ingrandita di Kate Torrance. Babette si sporse in avanti per guardare meglio.
- Quella ragazza che è scappata di casa, vero?- fece.- Già, Lum, mi hai detto che lei l'ha vista, ieri! C'era anche la tua foto sul giornale, stamattina.
Belle trattenne una smorfia. L'aveva vista, quell'immagine, sull'Everbrooke News Mirror. Si trattava di una fotografia del Be Our Guest e dell'area circostante, con due auto della polizia, il commissario Torrance pallido come un cencio e con l'aria di chi ha appena assistito all'apparizione di uno spettro, l'agente Hunter appoggiato a una vettura e suo padre che era stato beccato proprio mentre sbadigliava; e in un angolo, distanti da tutto e da tutti, c'erano lei – seduta sui gradini del locale con una mano che le sosteneva la testa – e Roxy – appoggiata al palo della luce che scrutava l'orizzonte con aria assente.
- Dunque...- Lum si sporse a sua volta per vedere meglio sia la sua amica che lo schermo del PC.- Che hai scoperto, Mr. Robot?
- E' un nuovo nomignolo, questo?- Belle iniziò a smanettare con il computer.- In ogni caso...scoperto, ben poco, ma ho fatto alcuni collegamenti. Kate Torrance e Rosebud Thorn frequentavano entrambe Princeton. Rosebud è stata aggredita il 3 maggio di quest'anno, e due giorni dopo Kate è scappata di casa. Dico scappata perché credimi, pur conciata maluccio, non aveva l'aria di una che è stata rapita o portata via e trattenuta contro la sua volontà. Ho cercato di fare mente locale, e ogni volta che l'ho vista al locale se ne stava sempre sulle sue, era da sola e non sembrava ci fosse niente o nessuno che la controllasse. E poi, andrebbe contro ogni logica, no? Voglio dire, Lum, se tu e io fossimo dei rapitori non lasceremmo gironzolare la nostra vittima in libertà, giusto?
- Quindi, abbiamo praticamente appurato che questa Kate Torrance è scappata di casa - buttò lì Babette.- Ma per che motivo? E poi, come questo può essere collegato a Rosebud Thorn? Perché mi è parso di capire che la tua teoria sia quella...
- E' qui ti volevo...- Belle aprì un documento in PDF.- All'inizio credevo di essere sulla pista sbagliata. Kate studiava giurisprudenza, Rosebud giornalismo. Sembrava improbabile che si potessero conoscere solo in base a questo, ma poi...beh, ho dato un'occhiata ai loro curricula privati...
- Hai hackerato l'archivio della Princeton?- domandò Lum.
- Ovvio. Ecco qui, leggete...- Lum prese il PC di Belle e se lo posò sulle ginocchia.
Belle attese, giocherellando nervosamente con l'orlo della maglietta. Alla fine, Lum sospirò.
- Potrebbero essersi conosciute in quest'occasione - constatò.- Hai trovato informazioni su questo posto?
- Solo quelle disponibili a tutti sul World Wide Web. Ho cercato tutto quanto mentre ero in autobus, non potevo andare troppo in profondità...si tratta di uno studio legale in collaborazione con un altro che si occupa di investigazioni private. Rosebud Thorn ha iniziato uno stage a gennaio 2015 presso quest'ultimo e ci è rimasta fino a metà marzo, quando ha deciso di tornare qui a Everbrooke per la sua “pausa di riflessione”...
- E che c'entra Kate Torrance?- domandò Babette.
- A sedici anni ha iniziato a lavorare part-time come segretaria in quel posto, tutti i pomeriggi dopo la scuola - le spiegò Lum.- E a quanto pare ha continuato anche durante il periodo universitario.
- C'è di più - disse Belle, riprendendo fra le mani il PC; selezionò un file in jpg dal desktop e lo ingrandì fino a che non fu a schermo intero, poi restituì il computer a Lum. Il ragazzo e Babette si ritrovarono di fronte alla foto a mezzo busto di una donna, che a occhio e croce doveva essere molto magra e nei suoi primi anni della quarantina. Aveva un'espressione seria e anche un po' arcigna, ma se avesse sorriso di più sarebbe certamente risultata molto più bella. Aveva gli occhi color nocciola nascosti dietro due lenti quadrate e severe, e una chioma di capelli biondi e lisci le ricadeva sulle spalle, incorniciandole il volto ovale.
- Chi è?- domandò Babette.
- Avvocato Lynn Osborn, la titolare dello studio legale - rispose Belle.- Il suo nome compare nell'anagrafica di Kate Torrance alla Princeton. Era sua madre.
- “Era”?- fece Lum.
- E' morta in un incidente d'auto a metà marzo di quest'anno.
Belle aveva fatto le sue ricerche. Mostrò a Lum e a Babette una serie di articoli online che parlavano della morte di Lynn Osborn. Nessuno differiva in maniera particolare dagli altri, e la storia era piuttosto lineare: l'avvocato Osborn era uscita di casa alle sette di sera per recarsi a una cena con delle amiche. Non vedendola tornare, alle quattro del mattino la figlia aveva dato l'allarme. La Mercedes Classe B di Lynn era stata ritrovata verso le nove della stessa mattina, in un burrone, con il corpo senza vita della donna al suo interno.
- Cause dell'incidente?- domandò Lum.
- Qui dice che si pensa a un malore - lesse Belle.- Ma l'ultimo articolo che ho trovato risale al 20 marzo, tre giorni dopo l'incidente. Probabilmente è stato archiviato. E stando a quello che ho letto ieri sera, Kate è tornata a Everbrooke per vivere con il padre dopo che la madre è morta.
Lum si massaggiò il mento. Babette sembrava concentrata nella lettura dell'articolo riguardante la morte della Osborn.
- Erano divorziati?- domandò infine.
- Non ho fatto in tempo a informarmi, ma presumo di sì.
- Perché mollare gli studi e tornare a vivere con il padre, se aveva vent'anni? Kate non era minorenne, nessuno l'avrebbe obbligata...
- Forse non aveva di che mantenersi - azzardò Lum.
- Il perché credo che dovremo scoprirlo noi - borbottò Belle.- Mi sembra che ci siano un po' troppe coincidenze, o mi sbaglio? Ragioniamo un attimo: Rosebud Thorn e Kate Torrance frequentavano entrambe la Princeton. Kate lavorava tutti i pomeriggi nello studio legale della madre, e Rosebud ha fatto uno stage là dentro per quasi tre mesi. Devono essersi incontrate per forza. Poi la madre di Kate muore, e nello stesso periodo sia lei che Rosebud tornano a Everbrooke, città in cui, guarda caso, entrambe sono nate e in cui hanno lasciato almeno un genitore. Rosebud viene aggredita e ridotta in coma il 3 maggio...due giorni dopo, Kate decide di sparire.
- E' un po' tirato per i capelli - osservò Lum.- Voglio dire...potrebbero anche essere delle coincidenze e basta, non credi?
- Sì, certo, ma magari non lo sono. Devo solo avere il tempo di...
- Di rimangiarti tutto quanto un'altra volta?
Belle ammutolì. Lum non era stato brusco o maleducato, ma il suo tono di voce non era scherzoso. Quando incontrò il suo sguardo, trovò serietà mista a un pizzico di malcelata preoccupazione.
- Seriamente, Mr. Robot. Ieri mattina mi dici che dobbiamo alzare il tiro, che a fare lavoretti da niente guadagniamo poco. Ieri sera al telefono mi dici che no, il tiro lo dobbiamo abbassare, che vuoi farla finita. O mi stai prendendo in giro, o hai dei problemi.
- Io...
- A te piace questo lavoro, pur sapendo che è illegale e che non è neanche un lavoro - Lum la bloccò di nuovo.- Ti piace scavare nell'Internet, ti piace risolvere i casi di tuo padre. Belle, dai, io e te ci conosciamo da una vita. Non negare l'evidenza.
Babette fece per alzarsi e lasciarli soli, ma Lum la trattenne.
- Vuoi vincere quella borsa di studio, e non metto in dubbio che tu ci tenga. Ma se non succedesse? Lo sai meglio di me che potrebbe non accadere...
- Mi troverò un altro lavoro - Belle si strinse nelle spalle ostentando indifferenza.
- Che lavoro? La cameriera per tutta la vita al Be Our Guest? O la commessa al Walmart? Perché lo sappiamo tutti e due che hai una paura fottuta di andartene da Everbrooke. Hai rinunciato a frequentare un college prestigioso perché non volevi lasciare tuo padre...Belle, se non capisci veramente ciò che vuoi dalla vita, la tua laurea e il tuo talento li butterai veramente nel cesso...
Lum concluse il discorso afferrando il telecomando e accendendo di nuovo la TV.
Babette era forse la più imbarazzata dei tre. Si umettò le labbra.
- Allora...ti va di fermarti a pranzo? Faccio dei buoni toast con il burro di arachidi...
 
II. [Violet]
 
Violet Larabee aveva aspettato sua sorella maggiore all'uscita della scuola per più di mezz'ora, invano. Non si erano date un appuntamento, ma a casa Larabee da dieci anni a quella parte vigeva una regola marziale: non rientrare prima delle sette di sera. Così, le tre sorelle Larabee si aspettavano sempre fuori da scuola perché trascorrere il pomeriggio insieme non solo era meno noioso, ma aiutava anche a prepararsi psicologicamente per l'inizio del coprifuoco.
Lei e Louisa non erano mai state molto legate. Violet voleva bene a sua sorella e credeva che anche Lou ne volesse a lei, ma non erano sulla stessa lunghezza d'onda. Una volta, c'era Marion a fare da collante fra loro due. Lei sì che era brava. Poi però Marion aveva mollato la scuola, a casa non c'era mai e anche i rapporti fra loro tre si erano incrinati.
Quando le era stato chiaro che Lou non sarebbe venuta, Violet si era rassegnata a trascorrere il pomeriggio da sola. Era andata in biblioteca e aveva buttato giù il suo discorso per la trasmissione di venerdì sera – sperando che una volta a casa nessuno le rompesse le palle; aveva preso un bicchiere di latte al cacao e aveva gironzolato senza meta per la città ascoltando i Nightwish con il lettore musicale.
Da due anni, Violet aveva fatto l'abitudine alla gente che per strada si voltava a guardarla.
La maggior parte dei suoi beneamati concittadini la evitava. Per loro vigeva il binomio borchie uguale bestia di Satana, anche se qualche compassionevole e assiduo frequentatore della parrocchia la domenica sosteneva che poverina, con tutto quel che sta passando conciarsi così è solo una disperata richiesta di attenzione.
Che andassero un po' tutti a farsi fottere.
Violet si vestiva così perché le piaceva. Si sentiva a suo agio in nero, piena di piercing e bracciali, e aveva già deciso che per il suo diciottesimo compleanno si sarebbe tatuata la scritta BITCH, I'M FABULOUS a caratteri cubitali e con tanto di teschio sulla schiena. Era il suo modo per esprimersi. Come se avesse voluto dire andatevene tutti affanculo, io sono così e sto bene così.
E poi faceva incazzare Roy. Ma Roy aveva paura di lei. Non lo ammetteva e cercava di fare il gradasso, ma Violet sapeva che aveva una paura dannata che lei lo strangolasse nel sonno con una catena mentre era troppo ubriaco per reagire.
Il capolinea dell'autobus era anche la sua fermata. Erano quasi le sette e mezza di sera, e Violet era rimasta l'unica passeggera.
Quando il signor Larabee era ancora vivo, la sua famiglia viveva in un appartamento in affitto nei pressi del centro di Everbrooke, vicino alla scuola, ai locali e al cinema. Da circa dieci anni, invece, loro quattro si erano dovute trasferire a casa di Roy, una villetta a un piano nella periferia della città.
Quella zona di Everbrooke era lo stereotipo vivente della periferia malfamata dei film americani: Outback Road, così si chiamava la via in cui vivevano la signora Larabee, il suo compagno e le tre figlie, era a soli due chilometri dal bosco, era sporca, poco illuminata, e in genere ci abitava chi non poteva permettersi un affitto superiore ai duecentocinquanta dollari mensili.
Violet, Lou e Marion avevano posto come coprifuoco le sette di sera proprio perché dopo neanche un'ora sarebbe stato troppo rischioso muoversi per quelle strade, che al calare del sole puntualmente pullulavano di spacciatori, prostitute e ladri. Violet percorse la distanza che la separava dalla fermata dell'autobus a casa di Roy tenendo lo zaino in spalla e uno spray al peperoncino stretto nella destra e seminascosto dalle pieghe della gonna e delle maniche.
Vide la bicicletta di Louisa parcheggiata e fermata con una catena accanto a quella di sua madre, entrambe poggiate contro il muro lercio della casa. Nessuna abitazione in Outback Road poteva dirsi del tutto decente, ma Violet aveva sempre pensato – e detto – che quella di Roy facesse veramente vomitare a spruzzo. Era squadrata, scassata, nel giardino l'erba le arrivava fino alle ginocchia e non si potevano fare due passi senza inciampare in lattine di birra e bottiglie vuote, per non parlare dei mozziconi di sigaretta. Una finestra aveva il vetro rotto: il suo patrigno ci aveva lanciato contro una pentola quell'aprile. Voleva colpire Marion, ma lei si era scansata e la pentola aveva fracassato il vetro. I soldi per sostituirlo ancora non li avevano cavati fuori, così Karen l'aveva sigillata con un pezzo di cartone e del nastro adesivo, in modo da evitare che entrassero gli spifferi notturni e le gocce di pioggia.
Quella soluzione andava bene per la primavera e l'estate, ma Violet non aveva idea di che si sarebbe inventata sua madre, ora che stavano entrando nell'autunno.
La porta era aperta. Violet entrò e si diresse verso il fascio di luce proveniente dalla cucina, da cui proveniva il rumore della TV.
L'interno della casa faceva schifo come tutto il resto. Karen ogni giorno si affannava a pulire – sua madre teneva molto all'ordine e alla pulizia; non era maniacale, ma le piaceva che tutto avesse un proprio posto e che non ci fosse polvere o sporcizia in giro –, ma ogni volta che Roy rientrava tutto tornava sudicio e incasinato. C'erano solo quattro stanze: la cucina, che fungeva anche da salotto, il bagno e due camere da letto.
Violet trovò sua madre da sola, in cucina. Karen indossava un paio di pantofole e una vecchia tuta smessa della sua primogenita. Era in piedi di fronte al tavolo e stava triturando delle carote, mentre alla televisione davano Casablanca con Humphrey Bogart. Sua madre aveva una passione smodata per i film in bianco e nero che raccontavano tragiche storie d'amore, oppure gialli intricati ambientati in un'epoca in cui le signore non usciavano mai senza gioielli e i signori si presentavano a cena abbigliati con un frac. Roy, neanche a dirlo, detestava tutte quelle puttanate, e così Karen per guardare un po' di TV era costretta ad aspettare che il compagno non fosse in casa.
- Ehi...- salutò Violet a mezza voce, lasciando cadere lo zaino sulla soglia della porta.
Karen alzò lo sguardo. Era una donna alta, magra e nervosa, con i capelli castani e mossi che portava sempre raccolti sul capo. Aveva gli occhi verdi e grandi come quelli di Marion e Lou, e sul suo volto c'era già qualche ruga di vecchiaia. Ma era ancora piacente, per avere quarantacinque anni, e ogni volta che Violet pensava che stava sprecando il suo tempo appresso a una testa di cazzo ignorante come Roy, si sentiva ribollire di rabbia.
- Ehi, ciao!- Karen ricambiò il saluto e tornò a triturare la verdura.- Come è andata a scuola?
- Bene.
- Voti? Novità?
- Niente. Lou è tornata?
- Sì, sta di là in camera...ha detto che non si sentiva tanto bene e che non aveva voglia di cenare. In effetti è da un paio di settimane che si lamenta di avere i capogiri e la nausea, non vorrei averle passato l'influenza...ora penso che dorma, stai attenta a non svegliarla quando vai di là - Karen accennò con il capo alla porta chiusa alle spalle della sua terzogenita.- Cambiati e lavati le mani, fra mezz'ora è pronto.
- Roy?
- In birreria.
Nell'aria aleggiò un sospiro di sollievo che però nessuna delle due si lasciò sfuggire dalle labbra.
Quando Roy era in birreria allora significava che non sarebbe tornato prima delle tre o delle quattro del mattino. Di solito erano i suoi amici di sbornia a riportarlo a casa, perché lui era talmente ubriaco da non riuscire neanche a reggersi in piedi. Una mattina, Karen l'aveva trovato addormentato sugli scalini dell'ingresso.
Roy era quasi sempre ubriaco, e quando non lo era se ne stava tutto il tempo seduto sulla poltrona in cucina, davanti alla TV, a imprecare contro il football, o in camera da letto a ronfare. Naturalmente non lavorava: di tanto in tanto trovava un impiego da qualche parte, per lo più muratore, facchino od operaio, ma immancabilmente finiva per farsi cacciare perché litigava con i superiori, attaccava briga con i colleghi o si presentava sul posto di lavoro sbronzo marcio.
L'unica che lavorava a casa era la mamma. Karen faceva la segretaria presso la centrale di polizia di Everbrooke. Era stato il suo primo impiego dopo quasi quindici anni.
Karen Larabee non aveva mai preso il diploma. Aveva avuto un'infanzia non troppo rosea: sua madre era morta quando era piccolissima, e suo padre era un uomo rigido che, in fondo, non aveva mai voluto diventare genitore. Era scappata di casa a diciotto anni per sposarsi con un ragazzo che suo padre non approvava. Si erano stabiliti a Everbrooke, avevano preso in affitto un bell'appartamento e, mentre il marito lavorava come aiuto panettiere, Karen era rimasta a fare la casalinga e a crescere le loro tre figlie, Marion, Louisa e Violet.
Violet non ricordava granché di suo padre. Di lui aveva solo qualche fotografia: era un uomo basso e con un ventre prominente, con i capelli biondi e radi, la barba e un sorriso gentile. Era sicura che Louisa e Marion lo ricordassero meglio, ma lei aveva quattro anni quando era morto, e ricordava solo sensazioni e momenti: il gioco del “dondolino cavalluccio” sulle ginocchia del signor Larabee, suo padre che guardava i cartoni animati insieme a loro...e poi, un giorno, era arrivato un cancro e se lo era portato via.
Da lì erano cominciate tutte le disgrazie. Sua madre aveva dovuto trovarsi un lavoro, e a trentacinque anni e senza nessuna esperienza, il massimo che era riuscita a ottenere era un infimo contratto come segretaria alla centrale di Everbrooke, senza indennizzi per malattia, ferie e retribuzione a ore lavorative. Naturalmente il suo stipendio non bastava quasi per le spese basilari, figurarsi per pagare l'affitto, ed era stato proprio a tre mesi dallo sfratto che Karen aveva conosciuto Roy.
Un tempo, sua madre ancora provava a difendere il suo compagno. Faceva finta di nulla di fronte alla sua perenne disoccupazione, al fatto che fosse perennemente sbronzo, e non diceva niente nemmeno quando le gridava contro o le alzava le mani. Alle proteste delle sue figlie, rispondeva che Roy era stato loro molto utile e che dovevano solo avere pazienza e non farlo arrabbiare. Ora non ci provava neanche più, e nemmeno fingeva di esserne innamorata. A lui andava bene così: Roy voleva una cameriera e una colf, e Karen voleva un uomo con una casa di proprietà che ospitasse lei e le sue ragazze.
Con il tempo, Violet e le sue sorelle avevano capito perché Karen si ostinasse a stare con Roy. Non era perché lo amava. Non ne era mai stata innamorata e non aveva mai voluto veramente rifarsi una vita dopo la morte del primo marito, come aveva cercato di far credere loro i primi anni.
Aveva conosciuto Roy durante una serata in un locale per single. Il signor Larabee era morto da sei mesi, lei era ancora disoccupata e avevano lo sfratto. In tutto ciò, le vicine di casa e le amiche di Karen continuavano a ripeterle che aveva poi solo trentacinque anni, era ancora giovane, era quasi un suo dovere rifarsi una vita. Così, una sera, esasperata, era andata a una serata per single, aveva incontrato Roy e in capo a due settimane tutte e tre si erano trasferite a casa sua.
Marion l'aveva detto sin dal primo istante:- Quello è un idiota.
E aveva avuto ragione.
Roy non lavorava. Beveva. Bestemmiava. Quando si arrabbiava – e succedeva spesso – si sfogava contro qualsiasi cosa gli capitasse a tiro: mobili, muri, Karen...spesso sua madre si metteva in mezzo per evitare che Roy colpisse le sue figlie. A Roy piaceva prendersela, chissà per quale motivo, oltre che con la sua compagna anche con Marion.
Violet pensava che fosse perché Marion gli rispondeva per le rime. Lou si eclissava e si chiudeva in camera ogni volta che il patrigno dava fuori di testa, e lei, Violet, semplicemente lo ignorava – senza contare che Roy veramente pensava che lei fosse una qualche adepta di una setta satanica, quindi non si sfogava granché su di lei.
Era per questo che Marion dormiva letteralmente al lavoro.
- Perché non lo molli?- aveva domandato Lou una sera, quando erano loro tre – lei, Violet e Karen – sole a cena. Sua madre aveva un livido all'altezza dell'occhio e un altro all'angolo del labbro, e non le aveva risposto.
La verità era che con il solo stipendio di Karen non ce l'avrebbero fatta, nemmeno ora che si era aggiunto quello di Marion – che peraltro sua madre puntualmente rifiutava perché lei i soldi di una baldracca non li voleva. Roy era il proprietario della casa, e dal momento che lui e sua madre non erano sposati, si sarebbero ritrovate tutte e quattro in mezzo a una strada.
Violet si assicurò che sua madre non avesse segni o lividi. In volto non ce n'erano, ma era pallida.
- Come ti senti, oggi?- chiese.
- Meglio, grazie. Molto meglio. Domani torno al lavoro - Karen gettò i pezzi di carote nella pentola sul fornello.- Forza, spicciati. E dai un'occhiata a tua sorella, quando vai in camera...
- Marion torna?
- Non penso.
Violet andò in camera sua. Erano due metri per tre occupati da un letto a castello e da una brandina, in mezzo ai quali trovava spazio una scrivania con sedia e computer. Vide la sagoma di sua sorella Louisa sdraiata sotto le coperte, sul materasso superiore del letto a castello, faccia al muro. Non si muoveva.
- Come va?- chiese Violet, dopo aver richiuso la porta.- Febbre? Non ti ho vista oggi a scuola...non sei venuta di nuovo?
Lou non si mosse. Stava dormendo.
Violet si avvicinò alla scrivania, si tolse i bracciali e recuperò una penna che infilò in una tasca della gonna insieme al piccolo taccuino che si portava sempre dietro.
La camera da letto era accanto al bagno. Violet ci scivolò dentro, chiuse la porta e iniziò a struccarsi. Fu quando si chinò per gettare il cotone imbevuto nel cestino della spazzatura che se ne accorse.
Nascosto malamente sotto cotton fioc usati, salviette struccanti e batuffoli di cotone, c'era un bastoncino bianco e blu. Violet lo riconobbe subito. Spostò la spazzatura e lo estrasse.
Non era naive come sua madre e Louisa credevano, e nemmeno come parecchie sue compagne di classe. Sapeva riconoscere un test di gravidanza, quando ne vedeva uno.
Il cuore di Violet fece un tuffo nel suo petto quando vide le due lineette rosse che indicavano la positività del test. Si sentì crollare il mondo addosso.
Sua madre era incinta di Roy.
 
III. [Roxy]
 
Le luci rosse e blu del Bearskin lampeggiavano a intermittenza gettando ombre scure e variopinte sulle pareti, i tavoli, gli avventori, e i corpi sinuosi delle ballerine. La musica era così alta da risultare assordante, ma come dicevano sempre tutti non si andava in quel posto per ascoltare, ma per vedere.
Roxy piegò un braccio dietro alla schiena. In una frazione di secondo sganciò la chiusura, e la parte superiore del costumino di scena volò via. Fece appena in tempo a vederlo scomparire nel garbuglio di braccia e mani dei clienti ai piedi della pedana sopraelevata dove lei e le altre nove ballerine del Bearskin, prima di voltarsi e ammiccare in direzione dell'uomo che da più di due minuti le stava toccando la gamba nuda.
Il cliente le allungò una banconota da cinquanta dollari.
- Sei bellissima!- urlò con la voce impastata. Roxy prese la banconta, la infilò nel filo del tanga del costume di scena e schioccò le labbra nella direzione dell'uomo.
- Troppo gentile, tesoro...!
Le ballerine continuarono a muoversi e a spogliarsi al ritmo di musica fino a che questa non cessò. Roxy guardò l'orario: erano quasi le dieci di sera; il lunedì era il giorno in cui finiva più presto; il suo turno era terminato.
Balzò giù dalla pedana ignorando i fischi e gli sguardi dei clienti in direzione del suo seno coperto solo dalle ciocche di capelli, mentre la musica di sottofondo riprendeva. La imitarono anche le altre ballerine, e tutte e nove scesero dalle pedane per il quarto d'ora di pausa che era loro concesso.
Sette, osservò Roxy. Oltre a lei, a esibirsi c'erano solo altre sette ballerine, invece di nove.
Roxy si fece strada fra la folla di clienti e raggiunse lo spazio relativamente tranquillo del bancone. Si stupì di non trovare Charlie come al solito, bensì solo gli altri due baristi. Si sedette su uno sgabello accanto a un uomo che se ne stava chino sul suo drink, e appoggiò le braccia nude sul ripiano del bancone.
- Un Godmother, grazie - ordinò a uno dei ragazzi, il quale la squadrò con un sopracciglio inarcato e non si mosse.
Roxy ricambiò lo sguardo.
- Che c'è? Sei quello nuovo? Ascolta, se Charlie non te l'ha spiegato qui le ballerine hanno diritto alla consumazione gratis. E sì, è normale che io abbia addosso solo i tacchi e...
- Sei Roxanne Randall?- la bloccò quello.
- Sì. Perché?
- Devi guidare stasera?
- Che t'importa?
- Charlie ha detto di non darti da bere alcolici, se devi guidare.
L'uomo seduto sullo sgabello a fianco di Roxy aveva seguito lo scambio di battute con attenzione. La ragazza alzò gli occhi al cielo.
- Torno a casa in autobus, okay? Contento? Sgancia quel Godmother, adesso.
Il barista sembrò convinto; le preparò il drink, che Roxy cominciò a bere mordicchiando l'estremità della cannuccia.
- Tipico di lui - borbottò a denti stretti.- Farsi gli affaracci propri, no?
Il cliente seduto accanto a lei posò il suo Whisky Sour e la guardò quando la sentì parlare. Roxy sfoderò un sorrisino ebete e girò la cannuccia nella vodka.
- Tranquillo, amico. Non ce l'ho con te. Da queste parti va di moda insultare il proprio capo.
- Sei amica di Charlie?
La domanda la colse di sorpresa, lasciandola spiazzata. Roxy sbatté più volte le palpebre e cercò di ricomporsi. Esaminò meglio l'aspetto del tipo: era un uomo sui ventotto anni, sbarbato, dai tratti del viso regolari e un po' infantili, i capelli lunghi e di un colore biondo sporco che gli coprivano il collo, gli occhi castani e una cicatrice all'altezza del sopracciglio destro. Era alto almeno quanto lei e molto magro.
Le luci al neon e le ombre nel locale nascondevano in parte il suo abbigliamento, ma Roxy riuscì comunque a scorgere una giacca blu scuro che aveva conosciuto tempi più prosperi e una camicia bianca e stirata alla perfezione, niente cravatta.
Si riprese quando un attimo di esitazione in più l'avrebbe fatta sembrare una completa cretina.
Fece spallucce e assunse un'espressione noncurante come se il tipo le avesse chiesto l'ora.
- E' il mio capo - ghignò.- Ma in ogni caso...sì, diciamo pure che siamo amici. Lo conosci?
- Abbastanza bene, a dire il vero - l'uomo allontanò il proprio drink da sé e le tese la destra aperta.- Will Rainer.
Roxy accettò la stretta.
- Roxy Randall. Rainer, hai detto?- “Rainer” era il cognome di Charlie; Roxy lo aveva scoperto per sbaglio due anni prima quando il suo capo aveva dimenticato il portafoglio al Bearskin e lei lo aveva tenuto un intero week-end prima di rivedere il ragazzo e restituirglielo.- Tu e Charlie siete parenti?
- Noi...
- Che ci fai qui?
Entrambi trasalirono e si voltarono di scatto quando udirono la voce di Charlie. Il ragazzo era a pochi passi da loro, non con addosso il grembiule e la canotta di quando stava dietro al bancone, ma con un paio di jeans, una maglia bianca sotto una giacca in pelle nera e un paio di stivali. Con il buio e la musica, nessuno dei due l'aveva visto o sentito arrivare.
I suoi occhi scuri e penetranti erano furibondi.
- Ehi!- salutò Roxy, ma Charlie la ignorò quasi del tutto. Sembrava concentrato sullo sconosciuto.
- Che ci fai qui?- ripeté.
Will Rainer terminò di bere il Whisky Sour in un sorso, e posò il bicchiere vuoto sul bancone.
- E' da un po' che non ci vediamo - constatò con tutta la calma di questo mondo; Charlie era palesemente nervoso, ma Rainer non sembrava condividere il suo stato d'animo.- Come te la passi?
- Bene, senza te in mezzo alle scatole.
- Ho saputo...
- Non qui - Charlie accennò a Roxy. La ragazza si sentì punta sul vivo, anche se non avrebbe saputo dire perché. Naturalmente gli affari privati di Charlie erano fatti suoi, ma le dava fastidio che lui la escludesse così palesemente da una questione che – tutto lasciava intendere ciò – doveva essere abbastanza spinosa per lui.
- Tutto okay?- buttò lì, nella speranza di cavare qualcosa come spiegazione.
- Tu che fai ancora qui?- Charlie le pose la domanda in modo brusco.- Il tuo turno è finito dieci minuti fa. E per l'amor di Dio, copriti!- sbottò, accennando al torace nudo della ragazza.
Roxy si sentì ancora di più colpita sul personale.
- E che cavolo, rilassati!- sbuffò; bevve un altro sorso di Godmother.- Stavo bevendo qualcosa prima di andare, d'accordo? Finisco e mi tolgo dalle palle. Ti sei alzato con la luna storta?
- Scusami, Roxy, ma non mi va di perdere troppo tempo con le moine. Non è serata. Finisci di bere e tornatene a casa - tornò a rivolgersi a Will Rainer.- Vieni. Cerca di non farti notare troppo.
Rainer le rivolse un cenno del capo in segno di saluto, poi si alzò e seguì Charlie. Roxy sorseggiò con calma mentre li guardava andarsene.
Quando fu certa che fossero abbastanza lontani, mollò a metà il Godmother e li seguì tenendosi a distanza in modo da non essere notata. Charlie e tale Will Rainer fecero il giro del bancone, s'infilarono nel corridoio che conduceva alla stanza rossa e al camerino delle ballerine e salirono lungo la scala che conduceva all'appartamento del proprietario del Bearskin. Roxy si aggrappò allo stipite della porta e si sporse per vederli salire. Fin lì la musica non arrivava se non ovattata e lontana. Charlie fece entrare Will in casa e lo seguì. Poco dopo, Roxy sentì la chiave girare nella serratura.
 
Entrò nel camerino e arraffò la prima vestaglia disponibile, solo per accorgersi mentre la stava indossando di non essere sola.
Marion Larabee, una delle ballerine che non erano presenti sul palco, era seduta di fronte alla specchiera e si stava struccando. Il mascara le era un po' colato lungo le guance, e aveva i capelli raccolti in due trecce ai lati del volto.
- Ciao - la salutò, guardandola dallo specchio.
- Ciao - Roxy si allacciò la cintura della vestaglia intorno alla vita.- Hai già finito stasera?
- Sì. Ho mal di testa, così ho chiesto a Charlie di staccare prima. Tu?- Marion appallottolò la salvietta struccante; Roxy aprì la bocca per rispondere, ma un rumore secco e acuto la fece sobbalzare. Entrambe le ballerine si voltarono verso la porta semichiusa che conduceva alla seconda stanza del camerino. Roxy non si era accorta che ci fosse qualcun altro.
Questo qualcuno non doveva aver avuto una buona giornata. Una voce femminile imprecava e bestemmiava in sottofondo, prendendosela con una certa puttanella e con un lurido bastardo; il tutto condito da oggetti che venivano spostati e fatti cadere a terra, e quando quest'ultima cosa succedeva si andavano ad aggiungere altre bestemmie.
Roxy cercò di identificare la sagoma che passava nervosamente su e giù di fronte alla fessura della porta, e alla fine ci riuscì.
- Chloe?- sillabò a mezza voce.
Marion annuì.
- Charlie le ha dato il benservito - sussurrò.
- L'ha licenziata?
L'altra ballerina annuì ancora. Roxy era stupefatta: era la prima volta in cinque anni che Charlie licenziava qualcuno. A dirla tutta, non lo credeva neanche capace di una cosa del genere. Con lui le regole erano poche, e non era neanche troppo difficile rispettarle. Bastava rigare dritto ed eri a posto. Certo, quando era di malumore ti regalava qualche urlata in più del solito, ma mai niente di tragico.
- Stasera. Non so il motivo - aggiunse Marion.- L'ha chiamata appena prima che iniziasse il primo numero. Li ho sentiti discutere, poi lei ha iniziato a urlare e lui anche. E alla fine ho sentito che lui le gridava di non farsi più vedere o avrebbe chiamato la polizia...che dici, forse stavano insieme?
Roxy fece cenno di no con il capo. La teoria di Marion non era da buttare, e così riservato com'era Charlie non sarebbe stato strano che nessuno di loro si fosse mai accorto di una eventuale relazione fra lui e Chloe. Solo che il ragazzo non le sembrava proprio il tipo da lasciare una donna giovane senza lavoro così, di punto in bianco, solo perché fra loro due non aveva funzionato.
- Non credo. Charlie non è il tipo - disse infatti.- E poi, anche se fosse...perché chiamare la polizia?
Marion fece per dire qualcos'altro, ma la porta da socchiusa si spalancò di colpo. Chloe Miller incespicò reggendo fra le braccia il borsone con dentro tutte le sue cose, i capelli biondi sciolti e spettinati e lo sguardo furioso.
- Che cazzo hai da guardare?!- abbaiò diretta a Marion, quando la scoprì a fissarla. L'altra ragazza si affrettò a distogliere lo sguardo. Chloe diede una spallata a Roxy nell'uscire, e se ne andò sbattendo la porta così violentemente che i trucchi sulla specchiera tremarono.
Marion tirò un lungo sospiro.
- Credo che non lo sapremo mai - mormorò.
- Già, credo anch'io. A proposito di misteri...tu conosci un certo Will Rainer?
Marion ci pensò un po' su, poi scosse il capo.
- Sinceramente no. Però...ora che ci penso...c'è quell'agenzia, no?- all'espressione perplessa di Roxy, si affrettò a precisare:- Qui a Everbrooke, in Outback Road. C'è un'agenzia di sicurezza. Mi pare che si chiami...oddio, non ricordo, ma so che c'entra il cognome “Rainer”...
- Di che si occupa?
Marion alzò le spalle.
- Sicurezza, so solo quello. Non mi sono mai veramente interessata. Credo...qualcosa come guardie del corpo o roba simile...
- Quello aveva tutto meno l'aria della guardia del corpo.
- “Quello”, chi?
- Un tizio che era al bancone poco fa.
- Non l'ho visto - Marion si alzò in piedi, massaggiandosi le tempie.- Hai un'aspirina?
- In borsa. Te la prendo. A che ora hai l'autobus?
- Alle undici, tu?
- Idem. Se ti va possiamo fare la strada insieme. Non ho tanta voglia di andarmene in giro per Outback Road di notte da sola.
- Già, nemmeno io. Ci vediamo all'uscita.
Marion entrò nella parte del camerino dove prima c'era Chloe, e chiuse la porta. Roxy prese a cambiarsi: indossò di nuovo il reggiseno e infilò i jeans con cui era arrivata, poi raccolse i capelli in una coda di cavallo; stava per mettersi la maglietta, quando la borsa di Valentino vibrò.
Roxy estrasse il cellulare. Sentì un tuffo al cuore quando vide il nome sullo schermo, ma si ricompose subito. Controllò che Marion fosse ancora nel camerino, quindi si sedette e accettò la chiamata.
- Ciao...- sussurrò, senza smettere di lanciare occhiate alle due porte chiuse.
- Ti ho già chiamata tre volte - ammonì la voce truccata all'altro capo del telefono.
A Roxy faceva sempre un certo effetto sentirla. Non era molto diversa rispetto a quella naturale, ma parlare a una cornetta e parlare di persona erano due cose molto differenti.
- Scusa. Stavo lavorando.
- Puoi parlare?
- Sì, ma dobbiamo fare in fretta. Sono nel camerino.
- Ti ho vista sul giornale.
Roxy chiuse gli occhi e inspirò a fondo. Aveva saputo sin dal primo istante che lui sarebbe venuto a saperlo, e senza neanche scavare così a fondo. Ci aveva pensato l'Everbrooke News Mirror a servirgli il piatto direttamente in tavola.
- Devo venirle a sapere da un giornale, queste cose?- ringhiò la voce all'altro capo.
- Ma non è successo niente!- protestò Roxy.- Abbiamo visto la ragazza scomparsa e abbiamo chiamato la polizia. Tu c'entri qualcosa?- inquisì.- Con Kathryn Torrance...
- Non io. Non strettamente.
- Qualcuno legato a te?
- Non voglio dirtelo per telefono.
- D'accordo. Capisco. Quando...quando posso venire da te?- Roxy si morse il labbro inferiore e si attorcigliò la ciocca rosa intorno all'indice.- Mi manchi - aggiunse.
- Preferisco tu ne stia fuori.
Era categorico. Roxy lo conosceva bene. Sapeva che quando era così c'era poco da fare.
Tentò comunque.
- Mi dirai almeno cosa sta succedendo?
- Se mi prometti di non immischiarti...
- Ma perché non mi devo immischiare? Riguarda Amos, vero? O ti è successo qualcosa?
- Stai facendo troppe domande. Ricordi cosa avevamo pattuito?
- Sì - Roxy sentì che le erano salite le lacrime agli occhi; se li strofinò con il dorso della mano per cacciarle via.- E' solo...sono preoccupata per te. Tu fai sempre tutto da solo e non dici mai niente a nessuno. Lo so che te la sai cavare e che...beh...lo sai. Vorrei aiutarti.
- Mi aiuti già così. Con la polizia in giro non possiamo vederci, per il momento. Devono calmarsi le acque.
- Quanto pensi che ci vorrà?
- Un mese, forse due. Ti hanno chiesto qualcosa, quando hai visto quella ragazza?
- Solo come si erano svolti i fatti.
- Hanno preso il tuo nominativo?
- Sì.
- Dannazione!
Si era innervosito, più di prima. Roxy cercò di gettare acqua sul fuoco.
- Forse non collegheranno le due cose.
- Le collegheranno di sicuro, se non sono dei completi incapaci.
- Sai come procedono le indagini?
- So che ieri due poliziotti sono stati a Rose Manor, e so che hanno fatto delle domande a Sebastian, Blanche e a tua madre. Stamattina c'è stata un'ispezione alla Schreave Inc., sto analizzando i dati disponibili in questo momento, ma ci vorrà qualche giorno prima di avere un quadro completo.
- Cosa faccio se risalgono a me?
- Niente. Rispondi alle domande che ti fanno su Amos con sincerità, tu non c'entri niente. Per tutto il resto, attieniti alla verità ufficiale: tu non sai nulla di eventuali contatti e azioni illegali e Adam Schreave è morto nel dicembre 2004 a diciassette anni.
- Certo, è ovvio. Hai...- Roxy si umettò le labbra.- Hai già...insomma...ti sei fatto un'idea di chi potrebbe essere stato?
- Di sicuro non è stato il Lupo.
- Quindi secondo te...- Roxy udì i passi di Marion avvicinarsi alla porta.- Devo andare! Ci risentiamo. Ti voglio bene...
La chiamata venne chiusa dall'altro lato, ma Roxy non spostò il cellulare dal proprio orecchio. Si schiarì la voce e iniziò a declamare a gran voce:- Certo, zia. Certo, ovvio che passo a trovarti questo fine settimana...! Hai bisogno che ti faccia un po' di spesa? Come va la schiena?- vide con la coda dell'occhio Marion che usciva dal camerino e recuperava la propria borsa.- Okay. Certo, anche tu mi manchi. Ci vediamo domenica, ciao!- chiuse la chiamata e spense il cellulare. Recuperò dalla borsa di Valentino l'aspirina e la porse a Marion.- Ecco. Sei pronta? Possiamo andare?
 
Marion Larabee abitava in Outback Road come lei. Roxy l'aveva scoperto quando si era trasferita a sua volta nel monolocale in quel quartiere dopo aver ricevuto lo sfratto. Marion, le aveva detto, invece viveva lì da circa dieci anni. Le loro case non erano vicine – fra l'una e l'altra si passavano almeno tre chilometri e dieci minuti buoni di auto –, ma l'autobus era lo stesso, e quando avevano il medesimo orario di uscita da lavoro capitava che facessero la strada insieme.
Marion parlava poco, e i suoi argomenti si esaurivano sul tempo, sul lavoro, su qualche cliente particolarmente buffo o particolarmente porco, sull'ultima sfuriata di Charlie, su cinema e attori. Era una new entry al Bearskin: aveva cominciato a lavorare come ballerina e spogliarellista al locale da circa un anno, e aveva soffiato a Roxy il primato di più giovane fra le spogliarelliste: Marion aveva solo diciannove anni.
Come Roxy, il suo volto era di una bellezza tiepida, niente di eccezionale, con il naso piccolo e a patatina, i tratti regolari e un po' spenti, gli occhi piccoli color verde sporco, labbra sottili e perennemente screpolate e capelli color castano chiaro lisci e lunghi fino alla vita, che spesso Marion portava annodati in una treccia o due, come quella sera. Quell'acconciatura infantile non faceva altro che accentuare la sua giovane età e a darle un'aria da adolescente. A differenza di Roxy, tuttavia, il suo fisico non era niente di mozzafiato: Marion Larabee, anche con addosso i tacchi alti, arrivava a malapena all'orecchio delle altre spogliarelliste; aveva un corpo burroso, dalle curve morbide, tendente a ingrassare; il seno era piccolo, decisamente sottosviluppato; a ballare non era quel granché: era impacciata, poco sinuosa, spesso sui tacchi traballava e aveva costante bisogno di tenersi aggrappata al palo della passerella; spogliarsi davanti a decine di sconosciuti e ballare mezza nuda la imbarazzava, era evidente, tanto che spesso era costretta a buttare giù due o tre bicchieri di vino prima di salire sul palco.
I primi tempi, tutte le altre spogliarelliste – Roxy compresa – si erano domandate che accidenti ci facesse lì. Roxy lo aveva chiesto a Charlie.
- Perché l'hai assunta?
- Ha bisogno di lavorare. Come te cinque anni fa.
Roxy era giunta alla conclusione che molto probabilmente Marion era arrivata al Bearskin strisciando e aveva implorato Charlie di farle fare qualcosa. Lui in fondo non era lo stronzo senza cuore che cercava sempre di apparire, e l'aveva assunta come ballerina. Il vero mistero era come ci fosse finita una ragazza così giovane a fare quel lavoro. Roxy sapeva che di solito erano le disastrate ad accontentarsi di un lavoro del genere per portare a casa uno stipendio; lei stessa poteva essere considerata parte della categoria, in più di un senso.
La risposta l'aveva avuta con il tempo. E gliel'avevano data i graffi e i lividi sulle gambe e le spalle di Marion.
- Chissà cosa è successo con Chloe...- disse quest'ultima dopo diversi minuti di camminata in silenzio, distogliendo Roxy dai suoi ricordi riguardanti la telefonata di poco prima.- Parlo della faccenda della polizia.
- Sei sicura di aver sentito bene?- chiese Roxy, stringendosi nel giubbotto.
- Sicura. Charlie sembrava veramente arrabbiato.
Erano arrivate a pochi metri dalla fermata dell'autobus. C'erano due vie per raggiungerla: una, più breve, attraversava un lungo sottopassaggio che sbucava direttamente dall'altro lato della strada a pochi passi dalla fermata dell'autobus; l'altra, più lunga, prevedeva di attraversare la strada con tre semafori e percorrere un altro tratto a piedi fino alla panchina davanti alla quale l'autobus si sarebbe fermato.
Roxy non aveva idea di che preferenze avesse Marion; lei di solito usava il sottopassaggio. Nessuna delle due si consultò con l'altra, ed entrambe si avviarono verso il tunnel; Roxy cominciò a scendere i primi gradini, ma si accorse subito che qualcosa non andava.
Il sottopassaggio era sempre illuminato, sia di giorno che di notte; quella sera, invece, nessuna delle tre lampade era accesa.
Marion si avvicinò a Roxy e si sporse per vedere meglio. L'interno del tunnel era completamente buio; da dove si trovavano riuscivano a vedere solo il fondo delle scale, non il resto del sottopassaggio, ma pareva proprio che non ci fosse alcuna luce.
- Che facciamo?- Marion si torse l'orlo del giubbotto.- Non si vede niente...
- Lo senti anche tu, questo?- bisbigliò Roxy. Marion scese un altro gradino fino a trovarsi alla stessa altezza dell'altra ragazza. Dal fondo del tunnel provenivano strani versi. Gemiti soffocati. Un po' di trambusto sommesso.
Marion cominciò a sudare freddo.
- Che cos'è?
- Non ne ho idea.
- Dici che dovremmo controllare?
Roxy esitò. I rumori erano cessati.
- No - disse infine.- Torniamo indietro. Prendiamo l'altra strada.
- Okay...- Marion la seguì mentre si allontanavano dal sottopassaggio; restò in silenzio fino a che non furono quasi alla fermata dell'autobus.- Però forse dovremmo chiamare qualcuno. Tipo la polizia, perché facciano un controllo...
Roxy ripensò nuovamente alla telefonata. Si era già esposta abbastanza. Rischiava di smascherare anche lui, realizzò. L'ultima cosa che voleva era la polizia fra i piedi.
- Lascia stare. Non era niente. Probabilmente erano solo due fidanzatini che pomiciavano. Dai, andiamo, perdiamo l'autobus...
 
IV. [Ella]
 
La TV accesa stava mandando in onda una puntata registrata del The Oprah Winfrey Show. Ella finì di piegare la biancheria intima e la ripose nell'armadio, poi andò a socchiudere la finestra della camera da letto per far uscire i residui di fumo.
Lily Woods, seduta sul letto sotto le lenzuola e con il dorso e il capo poggiati contro una massa di cuscini, le scoccò un'occhiata di rimprovero quando la vide sollevare il posacenere dal comodino e gettare i residui dei mozziconi nel cestino della spazzatura.
- Che fai?
- Basta sigari per stasera, signora Lily - disse Ella.- Devo chiudere la finestra.
- Lasciala aperta.
- Non fa più così caldo, l'aria notturna non le fa bene.
- Rompipalle - sbuffò Lily.
Ella ridacchiò. Seguirono diversi minuti in cui gli unici suoni nella camera da letto furono quelli della voce della conduttrice e degli ospiti e quelli sommessi di Ella che si aggirava per la camera rassettando le ultime cose. Sbirciò fuori dalla finestra, e poi la richiuse.
Lily sospirò.
- Non ti avevo dato la serata libera?
- Lavo i vetri della finestra in cucina e me ne vado.
- Lascia perdere i vetri, puoi farlo anche domani mattina. Sono già le dieci e mezza di sera. Se ti dai una mossa fai ancora in tempo a vederti un film o a prendere da bere in un pub...
- Lo sa che non bevo, signora Lily.
- Hai capito cosa intendo, non fare la finta tonta. Sei incredibile. Qualsiasi ragazza di vent'anni alle parole serata libera si sarebbe scapicollata verso la porta lasciandosi alle spalle vecchia e carrozzina. Tu oltre ad aver lavorato tutta la domenica ti sei fermata qui fino a notte fonda. Sembra quasi che tu non abbia voglia di tornare a casa...
Ella non rispose. Lily Woods le aveva detto che se ne sarebbe potuta tornare a casa alle sei del pomeriggio, lei se la sarebbe cavata, ora che c'era suo figlio. Invece, Ella era rimasta ben oltre le sei: aveva preparato la cena per Lily ed Erik, mangiato insieme a loro, fatto la lavatrice e steso i panni sullo stendibiancheria in corridoio, pulito il pavimento e il tavolo della cucina, lavato i piatti, preparato il divano per il figlio della signora Woods e guardato il telegiornale con entrambi, per poi aiutare Lily a cambiarsi per andare a letto e a stenderla sul materasso.
Aveva finito tutto e ora non aveva più nessuna scusa per perdere tempo.
- Lo faccio volentieri - buttò lì.- Ieri mi sono divertita. Mi aveva detto che era preoccupata per l'incontro fra sua nipote e i suoi figli, ma è andata bene.
- Sì, ma io aspetterei a cantare vittoria troppo presto - bofonchiò Lily, cupa.- Mia figlia ci sta mettendo tutta la sua buona volontà, ma quella ragazza non ha visto sua madre per sei anni. Ci credo che pensi che l'abbia abbandonata.
- Sono sicura che tutto si risolverà - disse Ella, non sapendo che altro dire.
- E la tua?
- Come ha detto, signora Lily?
- Tua madre dov'è, Ella? E' rimasta in Romania? Non mi parli mai della tua famiglia...
Ella si schernì.
- Oh, non è una storia interessante!- cambiò velocemente discorso.- Ha preso le medicine, signora Lily?
- Naturalmente.
Dopo sei mesi, Ella conosceva la canzone. Si avvicinò al comodino e aprì il cassetto, trovando la scatolina con ancora dentro le due pastiglie che aveva preparato un'ora prima.
Lily sbuffò, infastidita.
- Hai poca fiducia nei miei confronti.
- E faccio bene - Ella versò dell'acqua nel bicchiere che aveva preparato precedentemente, poi lo diede a Lily insieme alle due pastiglie.- Non capisce che è per la sua salute, signora Lily?
- Salute un corno!- Lily Woods ingoiò entrambe le pillole di malavoglia.- I dottori sono tutti dei boia, l'ho sempre detto. Ci riempiono di queste porcheria perché non gli rompiano le scatole, in attesa che tiriamo le cuoia.
- Lo sa che non è vero.
- Come fai a essere così maledettamente accondiscendente?- Lily guardò la ragazza.- Sei così di natura o lo sei diventata a furia di stare con i rimbambiti come me?
- Di natura, credo. E lei è la prima signora che accudisco.
- Sul serio? E che facevi prima?
- Pulizie. Lavoravo per tre famiglie.
- E in Romania?
- Niente di speciale...
Lily Woods comprese che non era il caso di insistere su quel punto, non quella sera. Stava per regalare a Ella un complimento, poi però la vide perdere tempo aggiustando le pieghe delle coperte e cambiò idea.
- Ma che fai?!- diede un calcio alle lenzuola per allontanarla.- Seriamente, sembra quasi che tu non te ne voglia andare. Fuori, non voglio vederti più fino a domani mattina...!
Ella rise di nuovo, anche se aveva voglia di piangere. Salutò Lily e le augurò la buona notte.
- Buona notte anche a te. Ah, prima che mi dimentichi...!- la richiamò un attimo prima che la ragazza chiudesse la porta della camera da letto.-Sulla cassapanca in corridoio ci sono i soldi di questa settimana. E ho aggiunto un extra per l'autobus.
- Grazie, signora Lily, ma non occorre. Ho la bici.
- Lasciala qui e prendi l'autobus. E' tardi, e con quel...Lupo in giro è meglio essere prudenti.
- Non si preoccupi. Ci vediamo domani mattina.
Lily Woods rimase ad ascoltare i passi della badante allontanarsi lungo il corridoio fino a che non udì la porta d'ingresso aprirsi e richiudersi. Tornò a concentrarsi sul talk show, e si stava per appisolare quando suo figlio entrò in camera senza neanche bussare.
La donna gli lanciò un'occhiata in tralice.
- E' questa l'educazione che ti ho insegnato?
- E' andata via?- domandò Erik Woods, con addosso i pantaloni di una vecchia tuta di suo padre e una canottiera; non gli era riuscito di recuperare neanche uno straccio di pigiama.- La badante, intendo.
- Tanto per cominciare, le persone hanno un nome e tale nome va usato. E' un po' come se io anziché chiamarti Erik mi rivolgessi a te come “deficiente”. In secondo luogo, sì, Ella è andata via. Hai bisogno di qualcosa?
- Ho sentito che parlavate. E' sempre così abbottonata?
- Non va in giro a seno scoperto, di sicuro.
- Intendevo, è sempre così restia a parlare di sé? Le hai fatto delle domande sulla sua vita in Romania, e lei non ti ha risposto.
- Saranno affari suoi. Se non ne vuole parlare, nessuno la costringe.
- Cosa sai di questa ragazza? L'hai scelta tu?
- Claire. E ne so abbastanza. All'agenzia ci hanno fornito un'ottima presentazione, ed è una persona deliziosa, oltre che in gamba. E ora, fai un favore a me e a te stesso, piantala di fare insinuazioni e tornatene a dormire, prima che ti ci spedisca io a calci in culo...
 
Ella non aveva seguito il consiglio della signora Woods. Aveva riposto i soldi nella tasca sinistra dei jeans, mentre due sole banconote erano nella tasca destra. Aveva preso la sua bicicletta e aveva iniziato a pedalare verso casa.
Everbrooke di notte era una città fantasma. Il sabato e la domenica si ravvivava un po', e in centro città si trovavano diverse persone uscite per fare due passi, guardare le vetrine o prendersi una Coca Cola. Ma nei giorni settimanali non c'era nessuno in strada. E adesso che in giro c'era il Lupo, nessuno o quasi metteva il naso fuori casa dopo le otto di sera.
L'aria autunnale notturna era fredda, e quando finalmente Ella Radescu arrivò a Rosewood Boulevard aveva le guance gelide e arrossate.
Ogni volta che qualcuno – pochi – le domandava dove abitasse, Ella rispondeva sempre in modo vago ed evitava alla fine di dare qualsiasi indirizzo. Non solo per privacy, ma anche perché nessuno avrebbe mai creduto che una badante abitasse in un quartiere come Rosewood Boulevard.
Anche se Villa Cenuşȃ non aveva nulla a che vedere con quell'ambiente e le persone che ci vivevano.
Ella aprì il cancello di metallo quel tanto che bastava per potersi insinuare insieme alla bicicletta, quindi lo richiuse con il chiavistello.
Villa Cenuşȃ era stata costruita seguendo il modello di un maniero medievale. O di un castello delle favole, come era sempre sembrato a Ella. I mattoni grigi e rosi dal tempo e dalla pioggia erano impilati l'uno sull'altro a formare una costruzione di due piani articolati in un blocco centrale e due torri ai lati.
Alcuni lo avrebbero trovato fiabesco e romantico, Ella invece aveva sempre pensato che fosse pacchiano e di cattivo gusto. Soprattutto nelle condizioni in cui era abbandonato, con l'erba alta e incolta, le aiuole morte, la muffa fra le crepe dei mattoni.
Ella attraversò il vialetto e abbandonò la bici contro la parete. Le luci all'interno di Villa Cenuşȃ erano tutte spente, e quello per lei non poteva essere che un bene. Girò le chiavi all'interno della serratura ed entrò.
Prima che lo zio Carol morisse, l'interno della casa era arredato con i mobili che suo padre e lo zio avevano importato da Bucarest. Ora, a causa dei debiti, la contessa aveva venduto tutto, e l'interno era più spoglio che mai. I tre salotti erano vuoti, così come anche l'atrio e quasi tutte le camere. Le uniche cose che la contessa si era rifiutata di vendere erano il lungo tavolo in sala da pranzo – dove lei e le sue due figlie consumavano ogni pasto – gran parte del mobilio della cucina e i tre letti a baldacchino occupati dalla contessa e dalle contessine, oltre a naturalmente gli specchi e gli accessori per la toeletta. Ella accese la luce della cucina: era la stanza più arredata di tutta la casa e quella in cui la ragazza passava la maggior parte del suo tempo quando staccava dal lavoro.
La lampadina sospesa sopra il tavolo non emanava abbastanza luce per illuminare l'intera stanza, ma Ella vide che i piatti di sabato erano ancora abbandonati nel lavello, e sul tavolo c'erano i residui dei piatti pronti di cui la ragazza riforniva la credenza ogni fine settimana.
Si tolse il giubbotto e iniziò a lavare i piatti.
Perse la cognizione del tempo, e non aveva idea di quanto tempo fosse passato quando uno scalpiccio la raggiunse alle sue spalle.
- Quando sei arrivata?- berciò Dorina Dragoş.
- Un'ora fa, credo.
- Ti fermi a dormire? Che palle!- Dorina si sedette al tavolo della cucina.- Già che ci sei, preparami del latte con il miele. Non riesco a dormire.
- Va bene.
Ella prese il latte dal frigo mentre Dorina giocherellava con le proprie dita. Sua cugina non le somigliava per niente, sebbene sua madre e il padre di Ella fossero sorella e fratello. Dorina era molto più bassa di statura, più snella e più carina, con i capelli biondi e il naso all'insù. Ella fece scaldare il latte nel microonde e ci aggiunse due cucchiai di miele.
Dorina le strappò quasi la tazza di mano.
- Non ci avevi detto che tornavi.
- E' stata una cosa improvvisata. La signora Lily mi ha dato la serata libera, ma domani mattina torno al lavoro.
- Vado a svegliare la mamma - Dorina posò la tazza sul tavolo e si alzò in piedi. Ella la trattenne per una manica della camicia da notte.
- No, non c'è bisogno...
- E lasciami!- Dorina scrollò malamente il braccio.- Ci pulisci il culo della vecchia con quelle mani, non voglio che mi tocchi.
Ella indietreggiò di un passo.
- Non serve che chiami la zia - disse.- Lasciala dormire. Le telefono io domani per salutarla.
Dorina la guardò come se stesse parlando con una povera mentecatta, poi girò i tacchi e corse al piano di sopra a svegliare sua madre. Ella chiuse gli occhi e si passò una mano fra i capelli.
Finì di lavare i piatti e di sistemare la cucina, per poi pulire il pavimento nell'atrio e nella sala da pranzo. Era stanca e avrebbe preferito farlo venerdì, ma sapeva che la contessa le avrebbe ordinato di farlo comunque, quindi tanto valeva portarsi avanti.
Dopo mezz'ora, sua cugina Dorina si affacciò alla balaustra delle scale.
- La mamma ha detto che puoi andare da lei - annunciò, per poi marciare via e tornarsene in camera sua. Ella si tolse le scarpe da ginnastica e le abbandonò in un angolo, e prese a salire faticosamente le scale. Si rese conto solo in quel momento di avere male ai muscoli delle gambe.
Il piano superiore era spoglio come quello inferiore. A ogni passo, Ella poteva quasi rivedere i mobili e le suppellettili che erano state sistemate nei vari angoli quando ancora lo zio Carol era vivo, e che erano state vendute quando anche tutta l'eredità era stata spesa.
La porta della camera della contessa era socchiusa, e da essa fuoriusciva il fascio di debole luce creato dalla abat-jour accesa. Ella bussò comunque.
- Entra pure - le concesse la voce della contessa, in romeno.
Ella scivolò nella camera da letto come un'ombra silenziosa. La contessa soffriva di emicranie, non si sapeva mai quando arrivavano e quali rumori la infastidissero.
- Che fai lì sulla soglia? Avanti, non ho tutta la notte...- la contessa parlava solo in romeno, sia con lei che con le sue figlie; Ella sospettava non conoscesse l'inglese, o che lo conoscesse solo in modo molto approssimato; d'altra parte, non uscendo mai di casa, non aveva bisogno di utilizzarlo.
Entrò; la contessa Ioana Dragoş le fece cenno di avvicinarsi. Anche appena sveglia, e seminascosta dalla penombra, Ella poteva comunque osservare quanto sua zia fosse bella. Sembrava che i quarant'anni e i colpi della vita non l'avessero toccata. I lunghi capelli fulvi erano sciolti sulle spalle, la pelle perfetta, e adagiata contro i cuscini e in camicia da notte bianca, al buio, sembrava quasi un etereo angelo vendicatore.
- Sei tornata. Posso sapere per quale motivo?
- La signora Lily mi ha concesso la serata libera. Come sta, zia?- chiese Ella.- Le fa ancora male la testa?
- Va decisamente meglio. Mi sistemeresti il lenzuolo? Proprio in quel punto...
Ella lisciò la piega indicata dalla contessa.
- Hai novità da raccontarmi?
- No, zia, nessuna.
- La vecchia ti ha pagato i soldi di questa settimana?
- Sì, zia.
- E cosa aspetti a darmeli?
Ella estrasse dalla tasca sinistra la mazzetta di denaro e la consegnò nelle mani della contessa.
- Brava ragazza. Manca del denaro?
- No, zia.
- Quanto ti fermerai?
- Solo stanotte. Torno al lavoro domani mattina e sono di nuovo a casa venerdì.
- Meglio così. Non è bene che tu stia troppo in casa. Crei invidie e zizzanie fra le mie bambine. Già che sei qui, dai una pulita la piano di sotto...
- L'ho appena fatto.
- Brava. Prima che tu vada a letto, gradirei una tazza di té.
- Gliela porto subito, zia.
- E non fare rumore. Le piccole si saranno appena assopite.
- Certo.
Ella scese al piano di sotto e preparò il té. Dopo averlo servito a sua zia, aspettò che terminasse di bere, poi le augurò la buona notte e scese di nuovo in cucina a lavare tazza, cucchiaino e teiera. Preparò la colazione per la mattina seguente e poi salì in camera sua.
La contessa aveva disposto che lei dormisse nella stanza in una delle torri, quella di destra, che lo zio Carlos usava come ripostiglio. Occorreva salire una scala a chiocciola che portava a una stanza dal soffitto spiovente, in cui era stata sistemata una brandina e una cassapanca dove Ella teneva i vestiti, i libri e qualche fotografia di quando ancora abitava in Romania.
La ragazza si tolse i jeans e il maglione e infilò il pigiama; estrasse le due banconote dalla tasca destra dei pantaloni, quindi si chinò sul pavimento e sollevò un'asse di legno smossa del pavimento. Nascose i soldi insieme ad altre banconote già presenti, per poi rimettere a posto l'asse e sdraiarsi sopra la brandina. C'era una finestra sola nella stanza, che si affacciava sul giardino dei loro vicini di casa. La villa adiacente era chiamata Rose Manor.
Ella chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi. Si stava per addormentare quando sentì dei colpi secchi contro il legno della ringhiera al piano di sotto. Sospirò e si mise a sedere sul materasso.
- Che c'è?- domandò ad alta voce.
- Aurelia ha mal di schiena - fece Dorina dal fondo delle scale.- Vieni a farle un massaggio, così riesce ad addormentarsi.
Ella si alzò dal materasso e scese al piano di sotto.
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Ciao a tutti! Grazie per aver letto fino a qui :).
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. So che al momento la storia è molto lenta, ma è perché il tutto sta prendendo avvio. Alcune interazioni fra i personaggi possono apparire nonsense, ma vi assicuro che avranno senso in futuro.
Due parole su “Cenerentola”: mi rendo conto che al momento sembra assolutamente la creatura passiva e sottomessa della fiaba originale, ma vi assicuro che c'è un motivo per cui si comporta così, e più in là verrà svelato.
Il prossimo capitolo vedrà la giornata di martedì 10 settembre, con alcune considerazioni in merito alle indagini sul Lupo.
Come sempre, le recensioni, anche critiche, sono molto gradite :).
A presto.
Un bacio,
 
Beauty
 
P.S. Faccio un piccolo appunto qui perché okay svelare le cose di volta in volta ma in questo caso mi sembra opportuno darvi la possibilità di inquadrare due cose: le sorelle Violet, Louisa e Marion Larabee sono rispettivamente Riccioli d'Oro, la figlia del mugnaio e la moglie di Barbablù. 
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Favola / Vai alla pagina dell'autore: Beauty