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Autore: _FallingToPieces_    11/10/2017    5 recensioni
Appoggiò la lama sulle braccia esili, tremando. Non era una soluzione, lo sapeva, ma solamente un sedativo. Avrebbe vissuto qualche minuto di depurazione, con quella strana sensazione di svuotamento che le ovattava la testa.
La appoggiò e, con più forza, la spinse contro la pelle, in orizzontale, da un lato del polso all'altro.
Faceva ancora male, nonostante non fosse più la prima volta. La carne tirava, bruciava, formicolava.
Singhiozzò, gli occhi così inopportunamente asciutti, così aridi.
Il sangue affiorò lentamente da quel taglio, all'inizio sotto forma di puntini di inchiostro rosso; poi, ad un secondo sfregamento della lama, scivolò sull'avambraccio come un rigagnolo scarlatto.
Era solo un modo di punirsi, di sentirsi così paradossalmente insensibili al dolore. Eppure, quel giorno, chiusa nel bagno della scuola, aveva il pressante desiderio di tagliare più a fondo e secondo una direzione diversa, una direzione pericolosa.
Il sangue era un pretesto per piangere; quelle erano lacrime, ed erano rosse perché altrimenti non sarebbero mai scaturite dai suoi occhi.
(...)
«Farò tutto quello che posso per togliere quelle maledette parentesi prima della parola vivere e far sì che non sia più sopravvivere.»
Genere: Angst, Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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(Soprav)vivere

 
Mi sono resa conto che come stai? è la domanda più complessa di tutte. Alla fine riesco solamente a rispondere un banale “bene, e tu?” e quasi quasi rido tra me, pensando con amarezza che ormai la risposta debba essere necessariamente quella; sia per accontentare gli altri, perché dire che tutto sta andando male e che tu stai male li porterebbe soltanto a replicare con qualche frase imbarazzata o scettica, sia per non inoltrarsi in temi che so di non poter reggere, perché la vergogna è sempre dietro l'angolo e la voce lì lì per spezzarsi.
Eppure ci sono persone con le quali vorrei sfogarmi ed essere sincera, e con le quali desidererei che quell'automatico e falso “bene, e tu?” diventasse una richiesta di aiuto, una confessione.
Perché è così difficile chiedere aiuto? Perché è così difficile ammettere di stare male? Gli altri, e alla fine gli altri siamo tutti -anche noi che ce ne lamentiamo-, tendono a scansare il dolore, la tristezza di chi hanno davanti. È un meccanismo quasi imprescindibile.
 
Sei sempre triste, cupa e negativa e io non ti voglio accanto.
 
È una frase che dopotutto in molti ci siamo sentiti dire. Magari da persone a cui volevamo bene, a cui tenevamo, ma che evidentemente non ricambiavano con la stessa enfasi.
E pensare che appaio così anche se mi sforzo in maniera sovrumana per far sì che non si veda, mi rende attonita, insoddisfatta, scontenta. E me la prendo con me stessa, come se stare male fosse una mia colpa, come se il dolore lo infliggessi solo agli altri e non lo provassi in prima persona con una potenza devastante, come se non fossi io a perdere tutto ma loro.
Mentre sorrido forzatamente a quel generico “come va?”, vorrei solamente urlare che niente va bene, che la tristezza mi pervade, mi trattiene nella sua morsa ferrea, che l'ansia mi distrugge e i pensieri negativi, per qualche istante -a volte un istante così lungo da spaventarmi-, sembrano invece così positivi.
Ho provato a farla finita. O almeno lo ripeto a me stessa, quando cerco di convincermi che sono a un punto morto e non mi importa più di nulla. O quando, stupidamente, ho bisogno di conferme perché mi sento quasi in torto, come se non avessi il diritto di essere depressa.
Lo ripeto, che ho provato a farla finita, ma alla fine ho provato davvero? Lo desideravo davvero?
Probabilmente no. Probabilmente spero ancora che le cose possano risollevarsi, che la vita possa regalarmi momenti di gioia e che io, proprio io, potrò cambiare e non sentirmi più così sfiduciata, così negativa, così sbagliata.
Il problema è che, ormai, anche gli attimi lieti, sereni, non sono più in grado di tranquillizzarmi. Penso che non ne valgano la pena.
Perché un giorno ne vale la pena, il giorno dopo no. E continua così, a ripetizione, tanto velocemente che mi domando se non ci sia qualcosa di danneggiato nella mia mente, dato che cambio idee, pensieri e stati d'animo con questa facilità. Mi gira la testa, a volte, da tanto sono confusa.
Difficilmente riesco ad ammetterlo, ma vorrei smettere di vivere. Non so se effettivamente ne sarei capace, perché ho una famiglia, ho delle persone attorno per cui farei di tutto e che farebbero di tutto per me, perché...
 

Ginevra fece pressione con la penna sull'accento dell’ultima parola, macchiandolo di inchiostro; applicò più energia sull'impugnatura della biro, iniziando a disegnare cerchi concentrici su quel punto, e bucò il foglio.
Era ridicolo che non avesse altre motivazioni per non farla finita. Voleva riderne, schernirsi da sola, ma era di nuovo e ancora lì lì per scoppiare in singulti. Eppure non riusciva, non ne era capace. Teneva tutto dentro di sé, nel silenzio più assoluto, quando avrebbe soltanto voluto piangere istericamente e aggrapparsi a qualcosa, qualsiasi cosa, che le facesse sperare che non tutto per lei fosse finito.
Invece, percepiva una sensazione di vuoto perenne che le toglieva la forza di pensare.
La punta della penna tracciò una serie di parole uguali.

Sopravvivere, sopravvivere, sopravvivere.

Le scrisse con insistenza e rabbia sul suo quaderno, che era divenuto una sorta di diario. Poi, scuotendo la testa e prorompendo in una smorfia disgustata e sprezzante, racchiuse le prime sei lettere tra parentesi.
Avrebbe tanto desiderato poter vivere, dopotutto. Vivere, soltanto vivere. E non arrancare per farlo.
Ginevra si guardò quindi attorno, affondando il volto nelle ginocchia. I suoi occhi verdi avevano perso quella luce particolare che li aveva sempre fatti apparire più caldi. Ormai, erano vacui.
Quanto ancora avrebbe dovuto combattere contro l'insopportabile peso della vita? Non aveva più energie. O non le aveva mai avute. In fondo, sin dal principio aveva negato ogni attaccamento a quell'esistenza così povera.
Si morse l'interno del gomito per non urlare. Era seduta sul coperchio del gabinetto, a gambe incrociate, con il quaderno appoggiato sulle cosce e la lama del temperino stretta nella mano sinistra che oscillava inerte nell'aria.
Il desiderio di punirsi, di farsi del male e vedere nel sangue che cola: l'unica conferma dell'essere vivi. Era questo il pensiero che affollava la sua testa da giorni, mesi, anni.
Non perdonava nessuna delle persone che la circondavano, e di certo non avrebbe perdonato se stessa. C'era qualcosa di sbagliato in lei, se tutti quelli che amava finivano per andarsene e tutti gli altri la trovavano strana, inutile.
I denti affondarono con più rabbia.
Lo sguardo si posò sull'unico sollievo che avrebbe potuto provare. La sofferenza era troppa, aveva bisogno di sfogarla.
Appoggiò la lama sulle braccia esili, tremando. Non era una soluzione, lo sapeva, ma solamente un sedativo. Avrebbe vissuto qualche minuto di depurazione, con quella strana sensazione di svuotamento che le ovattava la testa.
La appoggiò e, con più forza, la spinse contro la pelle, in orizzontale, da un lato del polso all'altro.
Faceva ancora male, nonostante non fosse più la prima volta. La carne tirava, bruciava, formicolava.
Singhiozzò, gli occhi così inopportunamente asciutti, così aridi.
Il sangue affiorò lentamente da quel taglio, all'inizio sotto forma di puntini di inchiostro rosso; poi, ad un secondo sfregamento della lama, scivolò sull'avambraccio in un rigagnolo scarlatto.
Era solo un modo di punirsi, di sentirsi così paradossalmente insensibili al dolore. Eppure, quel giorno, chiusa nel bagno della scuola, aveva il pressante desiderio di tagliare più a fondo e secondo una direzione diversa, una direzione pericolosa.
Il sangue era un pretesto per piangere; quelle erano lacrime, ed erano rosse perché altrimenti non sarebbero mai scaturite dai suoi occhi.
Un rumore improvviso, seguito da un tonfo, la fece sussultare.
La lametta cadde, rotolando fino ai piedi dello zaino. Ginevra sgranò gli occhi e si rialzò con uno scatto. Alcuni ciuffi dei lunghi capelli neri scivolarono sul suo polso, bagnandosi. Il suo cuore perse un battito.
Si addossò alla porta del gabinetto, cercando di tenere sotto controllo il respiro e fallendo miseramente.
«Puoi uscire» disse una voce femminile. A giudicare da come giungeva alle orecchie di Ginevra, doveva trovarsi davanti ai lavandini. «Se ne sono già andati tutti.»
Quanto le era mancata, quella voce. Era più cupa e bassa del solito, ma aveva la stessa dolce sfumatura.
Ginevra, però, non poteva uscire. Non prima di essersi ripulita dal sangue. Non riusciva neanche ad emettere una sillaba per rispondere.
«Gin, ti prego, esci.»
Ginevra si schiarì la voce, improvvisamente frastornata e indebolita. Si passò una mano sulla fronte, poi sulle palpebre. «Non... non posso.» Le venne fuori roco, ruvido.
Delle nocche batterono comunque contro la porta. «Se non vuoi uscire, allora fammi entrare.»
Ginevra esitò. Avrebbe desiderato far vedere ad Alessandra il suo stato pietoso, chiederle aiuto senza tuttavia usare le parole. Ma non ne era in grado. «Non posso, Alex» ripeté.
E, a quella negazione, Alex capì tutto. Anche lei avrebbe voluto continuare a bussare con più insistenza, magari sfondare quella porta verde, però non ne era in grado. Aveva paura di cosa avrebbe visto. «Solo... dimmi se stai bene.»
Stare bene non era la definizione giusta. Non con tutti quei tagli sulle braccia. Ginevra fece un’altra smorfia, tirando su col naso.
«Prometto che ti starò accanto» disse Alex. «Lasciami la possibilità di preoccuparmi per te.»
Ginevra scosse il capo. Non voleva più essere un peso, essere quella da accudire e proteggere. «Non ne vale la pena» sussurrò, pregando invece che Alex pensasse il contrario.
«Perché lo decidi tu? Io so che ne vale la pena» disse Alex, più decisa che mai, sbattendo i palmi sulla porta incrostata e piena di scritte che le separava.
Fu così che Ginevra cedette. Girò la chiave e abbassò la maniglia, cercando inutilmente di occultare i tagli sulle braccia e appiattendosi alla parete umida.
Alex entrò, spalancando l'uscio. I suoi occhi si soffermarono sul sangue, e le sue forze vennero meno per qualche secondo. Poi sollevò lo sguardo, irrigidendo la mandibola, e lo puntò in quello spento dell'altra. «Fa tanto male?»
Ginevra socchiuse le palpebre, lasciandosi scappare un verso di patimento. Quindi annuì.
«Non mi riferisco a... quelli.» Alex riabbassò lo sguardo sugli avambracci della mora. Erano ricoperti di tagli. Lunghi, corti, superficiali, profondi, cicatrizzati. «Vivere» disse. «Vivere fa così male?»
E Ginevra annuì di nuovo. Tentava di tenere chiusa la bocca e mordersi la lingua per non singhiozzare, ma il suo volto era contratto, la sua espressione miserabile. «Io non sto vivendo... Questo è solo sopravvivere. E fa schifo.»
Alex sembrò fare delle congetture mentali su quella risposta, come se in qualche secondo potesse trovare una soluzione. «Dammi quel... quella cosa.»
Ginevra capì che si riferiva alla lama del temperino e che non era in grado di pronunciarne il nome. La raccolse e gliela consegnò, tremante.
«Concedimi tre mesi, Gin. Fino all'ultimo giorno dell'anno. Farò tutto quello che posso per togliere quelle maledette parentesi prima della parola vivere e far sì che non sia più soltanto sopravvivere.» Alex le prese il quaderno dalle gambe e lo chiuse, cancellando dalla vista di entrambe tutte quelle lettere. «Se fallirò, userò questa lama su di me.»
«Cosa?» Ginevra sbatté le palpebre, tirando su col naso.
«Soffrirò insieme a te. Ogniqualvolta che soffrirai tu. Sopravvivremo insieme.»
«No, non scherzare.» E Ginevra si sforzò di alzare la voce, di smettere di bisbigliare. La gola le graffiò, secca.
«Sono seria.» Alex strinse quel piccolo oggetto appuntito nel palmo della mano e trattenne una smorfia di dolore, quando questo le incise la pelle.
«Così ti fai del male, Alex. Lascialo. Fermati, ti prego!»
Lei però non si fermò: si tagliò il palmo, stringendo i denti e indurendo i tratti.
«Perché l'hai fatto?»
Alex osservò il sangue che pizzicava la sua mano e contrasse lo stomaco in un movimento involontario e automatico. «Perché ti voglio troppo bene per perderti» sussurrò. «Sarò egoista e potrai odiarmi quanto vuoi, ma non permetterò che tu te ne vada.»
Ginevra finalmente riuscì a piangere, dinnanzi a quel viso bellissimo tempestato di lentiggini che si riempiva di tristezza e paura; versò tutte le lacrime che aveva trattenuto e soppresso per tanto, troppo tempo.
 
 

***
Un altro scritto molto personale, per quanto riguarda le emozioni, e non proprio breve. Difficilmente riesco a scrivere come mi sento davvero, nel profondo, e qui ho sentito di doverlo raccontare tramite il personaggio di Ginevra.
Non ho particolari pretese su questo testo, credo si noti anche dalla sintassi. Mi serviva idearlo, scriverlo, e l'ho fatto. Pensavo che avrebbe chiarito la confusione nella mia testa, invece sembra averne portata di più.
Comunque, per molti versi, potrà sembrare senza capo né coda. Me ne rendo conto. Spero che tuttavia siate riusciti a leggerlo.
Le dinamiche tra i due personaggi sono inventate, ovviamente. Ma erano necessarie per poter scrivere ciò che sento in questo momento.
_FallingToPieces_
  
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