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Autore: Francine    17/10/2017    3 recensioni
Tutti abbiamo degli scheletri nell'armadio, segreti che non vorremmo che mai e poi mai fossero rivelati, giusto? Bene. Anche Milo di Scorpio ne ha uno. E bello grosso, pure. Che proviene dritto dritto dal suo passato. E che salta fuori, all'improvviso, da un anonimo quaderno con la copertina bordeaux...
[Baby!Gold Saint!]
Genere: Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aquarius Camus, Aries Shion, Scorpion Milo
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Scripta Manent'
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Quando si è molto tristi si amano i tramonti
(Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe, 1943)


 
C’era una volta una bellissima ragazza che faceva girare la testa a tutti quando passava per la strada. Bella, solare, spigliata, con tutte le curve al posto giusto. Un vero peperino. E, da bravo peperino, amava gironzolare attorno agli uomini, ma solo a quelli belli, giovani e forti. E nell’antica Grecia – almeno stando ai film americani – di maschi prestanti e gagliardi, a malapena coperti da fazzoletti che spacciavano per pepli, ce n’era a scatafascio. Un mare pescosissimo dove gettare le reti e tirarle su stracolme di deltoidi, pettorali, tricipiti e bicipiti. C’era solo l’imbarazzo della scelta, potremmo dire; ma lei, di imbarazzo, non ne aveva mai provato. Nemmeno sapeva cosa fosse. Era nata in una notte senza luna né stelle, e da suo padre aveva imparato a ridere delle debolezze di tutti, senza curarsi dei cuori in cocci che si lasciava alle spalle.
Ma anche la nostra ragazza aveva una debolezza, oltre agli uomini: le piaceva bere il loro sangue. Sentirlo caldo contro le labbra, invaderle la bocca, rotolare sulla lingua e scenderle nella gola fino a lasciare lei inebriata e le sue vittime dissanguate.

Ma la vita chiede sempre il conto delle nostre azioni, presentandoci il saldo quando meno ce lo aspettiamo. E in una bella sera d’estate, poco dopo il tramonto del sole, mentre la luna che giocava a nascondino con le stelle, un pellegrino si fermò a dormire per strada. La notte era calda, i grilli tenevano un concerto strepitoso e quest’uomo aveva troppo vino ad appesantirgli le gambe e ad annebbiargli la vista per proseguire oltre. Oramai era tardi. Anche se fosse arrivato al villaggio più vicino, dietro le montagne, chi l’avrebbe accolto? A quale porta avrebbe bussato?
Così, raggiunto un crocicchio isolato, l’uomo si fermò, posò il suo bastone per terra e usò la propria bisaccia come guanciale. S’addormentò all’istante, le palpebre pesanti e il fresco dell’erba sulla pelle.
E fu allora che la nostra ragazza emerse dalle tenebre della notte e si avvicinò, pregustando sulle labbra il sapore del sangue di quell’uomo.
Era bello. Bello e alto e forte, con una gran massa di riccioli scuri ed una folta barba ad incorniciargli la mascella decisa. E quelle spalle… E quelle braccia… E quelle gambe… br />
Oh, si disse la fanciulla, il suo sangue sarà de-li-zio-so. E ghiotta, si avvicinò al pellegrino che, ignaro del pericolo, dormiva della grossa. Gli accarezzò i capelli, la barba e scese con le dita alla ricerca della giugulare sul collo possente. La ragazza non resistette, e si chinò su di lui.
La sua pelle era salata. Calda. Invitante. Lei sorrise. I suoi canini affondarono. La notte e i grilli trattennero il fiato. E la luce esplose dietro alle sue palpebre, il sangue le invase le labbra e un fulmine squarciò il nero della notte.
Lei si ritrasse, spaventata da quella svolta imprevista. Chi era quello sconosciuto? Chi aveva incontrato sul suo cammino? Un dio, forse?
«Sei tu un dio?», chiese a fil di voce la donna, tremando come se una folgore l’avesse centrata in pieno e lasciata stecchita sul sentiero polveroso.
L’uomo non rispose: si sollevò, massaggiandosi il collo, un’espressione truce ad offuscargli gli occhi di un azzurro intenso, e l’apostrofò dicendo: «Qualcuno, qui, ha bisogno di una lezione». La sua voce rimbombò nella notte e i cieli si aprirono. «Peccato davvero. Sei bella, davvero; ma il tuo, è il cuore di un’asina. Forse dovremmo porvi rimedio, non credi?»
E l’uomo schioccò le dita.
Una folgore squarciò il nero della notte e si schiantò su di lei. Ci fu un lampo e la vallata s’illuminò a giorno. La ragazza non vide altro che una luce bianchissima e svenne.
Quando si riebbe, il suo corpo era ancora attraversato da tante piccole scariche elettriche, ma era ancora viva. Aveva incontrato un dio ed era sopravvissuta.

Accidenti, pensò. Poteva andarmi peggio, si disse, osservandosi le mani e le braccia con la vista accora annebbiata. C’erano segni scuri, di bruciature forse, e un paio di unghie erano annerite, ma niente che un po’ di riposo ed un bagno caldo non avrebbe potuto sanare. Quello che le bruciava era di non aver riconosciuto un dio.
L’ichor non è qualcosa con cui scherzare, pensò. Avrebbe potuto ucciderla. Maledetti gli dei, e la loro mania di mischiarsi coi mortali per ammazzare l’eternità, pensò sollevandosi in piedi, ma le ginocchia le cedettero. Si puntellò contro il tronco di un faggio e abbassò lo sguardo ai suoi piedi. Le sue belle gambe non c’erano più. Al loro posto, un paio di zampe equine e malferme la sorreggevano a stento, come fosse un puledro appena nato.
No. Le mie gambe!, pensò la ragazza. Poi spostò lo sguardo sulle mani mentre il sole si avvicinava all’orizzonte e la sua vista si andava schiarendo, e scoprì delle dita magre, arcuate come una falce e dalle unghie affilate come rasoi.
«Madre!», urlò, ma nessuno accorse in suo aiuto, né la Falce, né il Biasimo, e a lei non restò altro da fare che cercare rifugio nei recessi più oscuri della terra, in attesa che calassero le tenebre e che un altro, incauto viaggiatore si attardasse nottetempo ad un crocicchio solitario…


 
A Rémy piaceva raccontare quella storia, magari in una di quelle notti cupe e lugubri che solo l’inverno sa regalare. Lui ascoltava, impassibile, seduto a gambe incrociate sul letto, il pigiama indosso e i denti lavati; ma dentro aveva una fifa blu. E se un’Empusa avesse deciso di non attendere la sua vittima ai crocicchi – chi è che oggigiorno viaggia ancora a piedi? – ma di andarsela a prendere nottetempo, nemmeno stessimo parlando di un paio di baguette?
Rémy diceva che quelle erano le Lamie, non le Empuse.
«Sono parenti, in un certo qual modo», e a volerla dire tutta, la mitologia greca assomigliava a quelle riunioni familiari piene zeppe di gente pronta a tradirti, pugnalarti e avvelenarti per poi chiederti se vuoi un’altra fetta di torta, come diceva Maman Louise; epperò, a Étienne non interessava quale grado di parentela intercorresse tra Empuse e Lamie: quello che a lui interessava era che quelle sì che esistevano, non come i fantasmi, gli spiriti e gli spettri.
«Possono esistere», lo correggeva Rémy, prima che Maman tossisse dall’altra stanza la sua disapprovazione. Non occorreva mettere strambe idee nella testa di quel bambino dall’immaginazione più che fervida, altrimenti si sarebbe alzato lui, Rémy, per consolarlo quando si sarebbe svegliato piangendo per un brutto sogno. E a Rémy non andava di rischiare. «Dovrebbero essere estinte, oramai. Dubito che ti capiterà di incontrarne mai una.»
E invece, eccola lì davanti a lui, un’Empusa in carne, ossa e zampe d’asina, più che viva e più che disposta a cavargli gli occhi, prima di banchettare con lui e col suo sangue. E con quello di Milo. Milo che se ne resta a terra, come una bambola di stracci abbandonata al suo destino.

Poi facciamo i conti, pensa Étienne senza staccare gli occhi dal nemico. Lo sta fissando con intenzioni tutt’altro che piacevoli. Gli occhi, da quel verde impossibile, sono mutati in rosso vinaccia poco allettante. I canini spiccano contro le labbra gonfie come un frutto maturo. E quelle gambe d’asina, con quell’assurdo color bronzeo, assomigliano a delle protesi.
Avrà un’andatura zoppicante?, prega Étienne. Milo è troppo vicino a lei, per i suoi gusti. Potrebbe prenderlo in ostaggio, o usarlo come scudo umano. E sembra proprio questa l'idea che sta attraversando il cervello dell’Empusa.
Legge nel pensiero?
«Ma tu guarda che bel bambino coraggioso che abbiamo qui», dice, piegando la testa da un lato. «Facciamo così. Io adesso mangio il tuo amico, tu sarai il dessert.»
«Non penso proprio.»
«Oh. Le pulci hanno la tosse, eh?»
Pelagia – sempre ammesso che sia questo il suo nome – ride di lui, le mani sui fianchi e l’espressione scettica e canzonatoria che mette su Rémy quando Antoine vomita minacce agitando per aria il suo bastone da passeggio con la testa di cavallo in avorio. Ma Pelagia non ha la stoffa di Rémy; né incute lo stesso timore, purtroppo per lei.
E anche se ha ancora parecchie pagnotte da mangiare prima di essere come Rémy, Étienne sa che buon sangue non mente. E il piccolo Aquarius solleva il mento, fissa quello sguardo color del vino e ribatte: «Scommettiamo che questa pulce ti fa il culo?».

Qualcosa nell’aria cambia, e non solo per la temperatura che precipita di colpo, come se quell’angolo assolato di Grecia fosse piombato all’improvviso nel cuore del freddo inverno siberiano. Il ghiaccio ricopre con la sua patina le rocce e le tamerici. Sembra correre, come se avesse vita propria, e puntare alle gambe della creatura che, all’ultimo momento, scarta e si salva con un salto.
«Che diamine…», borbotta Pelagia. «Si può sapere chi sei, marmocchio?»
«Camus dell’Aquario. Santo di Athena.»
Étienne lo scandisce come fosse un titolo nobiliare, le spalle diritte e la testa alta. E sembra funzionare.
Pelagia soffia, come fosse un gatto extra-large. Si accuccia sulle gambe e poi salta, raggiungendo Milo. Lo afferra per il collo e se lo porta difronte in un baleno.
Merde!!
«D’accordo, pulce. Ma non vorrai colpire anche il tuo amico, no?», gli domanda Pelagia accarezzando con un dito la gola di Milo. Perché non si sveglia? Che razza di sonno ha, quell’impiastro?! «Quindi, adesso sai che facciamo? Tu mi lasci andare e io ti lascio vivo.»
«Nemmeno per sogno.»
«Ma come? Non hai paura che il tuo amico ci vada di mezzo?»
Sì, Milo potrebbe andarci di mezzo. Anzi, quasi sicuramente dovrà occuparsi anche di lui, dopo, sempre se non finirà a fare la bella statuina a meno duecento sotto zero.
Però, a quel punto, sai che quiete ci sarebbe, al Santuario?

Ed Étienne pensa che forse al Sacerdote non dispiacerebbe affatto un po’ di calmo e tranquillo silenzio a rimbalzare sui marmi e le colonne del Santuario, invece della voce squillante di Milo. La tentazione è forte. Allettante, come le crêpe della Candelora. Ma non può lasciare Milo a Pelagia. Non si può.
È una mia responsabilità.
Prende fiato, la posizione dell’oplita si trasforma nella croce. La temperatura precipita ulteriormente. Il cosmo di Étienne si amplia. Sadalmelik è lassù, sulle loro teste, pronta a raggiungerlo e a riversare nelle sue braccia tutto l’immane potere dell’Aquario. Le caviglie di Pelagia sono sottili. Troppo, per sostenere un corpo in posizione eretta. Eccolo, il tuo punto debole, pensa, rilasciando il suo potere e concentrandolo sui piedi dell’Empusa.
Pelagia grida dal dolore, mentre il ghiaccio si propaga sulla sua carne di bronzo, correndo fino alle ginocchia ed ancorandola a terra.
«Fermo!», grida, terrorizzata, tenendo Milo per lo scollo della maglia, nemmeno fosse un gattino sonnecchiante. «Fermo, o lo getto di sotto!»
Étienne abbassa le braccia. Merde. È un bel volo. E se Milo si sarebbe sfracellato sugli scogli da sveglio, figuriamoci addormentato. Senza contare che potrebbe approfittarne per colpirci entrambi, quando mi sarò tuffato per recuperarlo, pensa.
«Mettilo giù e ti lascio andare», le propone Étienne. Pazienza. Spiegherà lui, al Sacerdote, che quello era l’unico modo per salvare Milo. Milo che è stato così scemo da farsi abbindolare da un’Empusa.
«Come vuoi, zuccherino.»
E Milo compie una parabola elegantissima descrivendo una perfetta semiellisse che termina nelle acque dell’Egeo con un plonf attutito.
«NO!»
Étienne si precipita a guardare, le mani ben strette sulle rocce che fanno da parapetto. La superficie del mare non sembra essersi accorta del tuffo di Milo. Un paio di cerchi a pelo dell’acqua e poi basta, le onde sono tornate al loro incessante lavorio di battere e levare, battere e levare.
«Milo!!», grida Étienne, le mani a coppa attorno alla bocca. Ma Milo non risponde, non risale in superficie. Solo il vento soffia sulla sua testa, scompigliandogli i capelli come una carezza gentile, come ad alleviargli la sua pena. «MILO!!»
È morto. Cazzo, è morto, si dice Étienne, lo sguardo spalancato dal terrore. E adesso, che gli racconto al Sacerdote?
«Che c’è, zuccherino?» si sente chiedere da Pelagia. «Mi hai detto tu di lasciarlo andare…»
Guarda il lato positivo. Adesso puoi massacrarla senza pietà, gli suggerisce la voce di Rémy. Così Étienne si volta. Piano, pianissimo. Solleva entrambe le braccia sopra la sua testa ed espande il suo corpo. Sadalmelik risponde e scarica su di lui una potenza ancora più devastante. E l’Empusa conosce la forza dell’Aquario mentre un’armatura di ghiaccio eterno la ricopre. Pelagia grida, urla, impreca, gli ordina di smetterla, ma Étienne non commetterà lo stesso sbaglio una seconda volta.
Così insiste, insiste fino a quando le sue braccia e le sue spalle non gridano pietà e il corpo di Pelagia non è diventato una statua di ghiaccio. E alla fine, quando è sicuro che Pelagia non possa più nuocere a chicchessia, il giovane Aquario crolla in ginocchio.
Cazzo. Cazzo, cazzo, cazzo, cazzocazzocazzo…
Ricapitolando: la missione è andata a puttane; il suo compagno è morto portandosi dietro la missiva di Saga per il Sacerdote; e lui è stanco come se un esercito di elefanti si fosse fatto una passeggiata su tutte e duecentosei le ossa del suo corpo. E deve ancora tornare al Santuario.
Una cosa per volta, si ordina Étienne, facendo mente locale su quali siano le sue priorità, adesso. Occorrerà recuperare il corpo di Milo. Poi lo isserà fin sulla scarpata, lo porterà da Saga e gli chiederà di aiutarlo a seppellirlo. Sirena o non sirena. E gli chiederà di riscrivere la missiva per il Sacerdote. Il suo compagno è morto, giusto? Il dio in terra potrà anche riscrivere una missiva, no?
Una cosa per volta.
Étienne si sporge oltre il bordo degli scogli. Niente. Il corpo di Milo sembra essere andato a fondo come fosse un sasso. Con un sospiro di frustrazione, rabbia e sfinimento, Étienne inizia la sua discesa verso un’acqua violacea, col cuore gonfio di tristezza e il sole sulla linea dell’orizzonte, senza accorgersi che qualcun altro ha assistito alla battaglia, tenendo celata la propria presenza dietro una fila di scogli aguzzi.
 

«Che solenne camurria», mormora Death Mask – perché è di lui che si tratta – avvicinandosi all’Empusa cristallizzata. Ieri pomeriggio è arrivata una missiva da Saga: il Santo dei Gemelli segnalava al Reverendissimo Sacerdote la presenza di un’Empusa nella zona attorno a Capo Sunio. E a chi è toccata la patata bollente? Ma a lui, ovvio. Perché il Nooooobileeee Saaagaaa, che sta ad un tiro di schioppo, non poteva certo muovere le chiappe e risolvere la questione schioccando le dita. Nossignore.
Non sia mai, pensa il Cancro osservando la scultura di ghiaccio davanti a lui. Ma perché uno coscienzioso come Saga non ha avvisato questi due del pericolo?.
«Hai capito, il piccoletto», mormora, un dito sotto il mento.
La creatura è ancora viva, ma quel tanto che basta per darle una spintarella – piccina picciò – è farla piombare nella Bocca dell’Ade, magari con uno di quei lamenti disperati che piacciono tanto a lui. Avrebbe preferito sentirla urlare ed implorare pietà, ma pazienza. Quando a tordi e quando a grilli, come diceva Tonio.
Si sporge oltre la chiostra di scogli affacciati sul precipizio. Camus sta ancora scendendo per andare a recuperare Milo, senza essersi accorto che il vero Milo è qui sopra, sano e salvo, che dorme come un angioletto nascosto dietro uno scoglio.
«Mica scema a gettare ai pesci la cena. Vero, signorinella?», commenta Death Mask riservando un sorriso sghembo alla statua di ghiaccio. È… era un predatore anche lei, a modo suo. E i predatori amano conservare le proprie prede, dopo aver faticato per catturarle; un po’ come fa lui, con i volti dei suoi avversari. E forse, forse potrebbe conservare quello di questa creatura tra gli altri trofei. Farebbe una bella coppia con la Melusina che ha sconfitto qualche tempo fa. Ma deve scegliere un angolo discreto, ché il Sacerdote avrà da ridire – come al solito – e a lui toccherebbe togliere tutto.
Va bene. Ci penserò più tardi, pensa; quei due mocciosi si sono dimostrati utili, ma deve chiudere la questione, una volta per tutte. Porto a casa la giornata senza muovere un muscolo, conclude, posando una mano sull’Empusa congelata e ritirandola quasi all’istante.
«Cazzo. Brucia!»
Soffia sui polpastrelli, scuote la mano, niente. Ha perso sensibilità.
Questa me la paghi, mangialumache dei miei stivali, pensa, stendendo un angolo del proprio mantello sul braccio dell’Empusa e stringendovi le dita della mano sinistra attorno.
«Andiamo, bellezza. Abbiamo un tavolo riservato, tu e io…», e così dicendo, il Santo del Cancro schiocca le dita e s’incammina verso la Valle dell’Ade, lasciandosi alle spalle un tramonto da urlo, un ragazzino addormentato e un altro che rischia di rompersi l’osso del collo ad ogni, singolo passo.


 




Aggiornamento regolare!
Alla fine, la creatura che hanno incontrato Milo e Camus a Capo Sunio è... era un'Empusa. Figlie di Nix e di Momo, erano ancelle del bizzarro corteo di Ecate. E avevano il vizio di abbordare incauti viaggiatori (masculi, ça va sans dire) ai crocicchi, per bere loro il sangue e occasionalmente papparseli.
Bellissime donne, rivelavano la magagna solo quando si era abbastanza vicini da accorgersene, rivelando particolari bizzarri, come una gamba di bronzo, o di sterco d'asina.
Come vedi, Avalon9, non ci sei andata troppo lontana! Secondo alcune versioni, poteva avere anche le sole zampe d'asino, oppure sfoggiare anche una coda equina. Insomma, sotto al chitone nascondevano la sorpresa!

Death Mask si trova in zona per abbattere proprio questa Empusa. Vi avevo avvisato qui, ricordate?
Prima o poi, tutti i fili arrivano al pettine. O quelli erano i nodi?

Alla prossima!!
   
 
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