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Autore: EffyLou    03/11/2017    2 recensioni
Londra, Inghilterra. 1888.
«[...] Se siete qui è perché siete individui curiosi, coraggiosi, bramosi di scoprire nuovi mondi. E noi, umili artisti e fenomeni da baraccone, siamo al vostro più totale servizio Ma badate bene: non lasciatevi sopraffare dalle regole della società. Nel perimetro dell'Imaginaerum... non bisogna opporre resistenza. Potreste fronteggiare cose inspiegabili, magiche forse. Non fatevi domande, perché non avrete risposte»
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La compagnia circense Imaginaerum è sulla bocca di tutti e genera emozioni contrastanti nel popolo e nell'individuo singolo: provocano curiosità per la ventata di novità e il tocco osé, ma al contempo vengono disprezzati per i loro azzardi.
Quando Jack lo Squartatore comincerà ad infestare Whitechapel, Scotland Yard dovrà far fronte anche alla misteriosa scomparsa di bambini per mano di colui che viene chiamato il Pifferaio Magico. L'Imaginaerum finisce sotto i riflettori: non è possibile che quell'accozzaglia di straccioni non c'entri niente.
Genere: Dark, Mistero, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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PREMESSA

 Piccole ispirazioni da: ParnassusITStranger Things, Kuroshitsuji/Black Butler.
→ Per il nome del circo (Imaginaerum) ho preso in prestito il nome dell'album dei Nightwish.

Io non sono particolarmente fan del circo. Senza remore vi dico che non è per via degli animali, ma perché sento come un'atmosfera triste e oscura dietro tutta quell'ostentata allegria. Un'atmosfera che, tuttavia, mi ha sempre inquietato e affascinato al contempo.
Mio nonno scappò col circo, quand'era giovane, e ogni qualvolta tornava a casa si portava dietro un animale (un boa, un piccolo leone, un canguro). Ma non ho idea di come sia la vita dei circensi dietro gli spettacoli. In questo mi ha aiutata il contesto storico in cui ho deciso di imbucare la storia: l'età vittoriana.
Cercherò di renderla un'opera corale, ma vedremo che tutto sommato i protagonisti sono delineati. Ci sono alcuni personaggi che non avranno un volto o perché è coperto da maschere per tutta la storia oppure perché sono semplicemente nominati.

Beh... buona lettura! ♥

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SPOTLIGHTS


Prologo



 
Brema, Germania. 1824.

Prese un’altra boccata dalla pipa, sdraiato sui comodi sofà della fumeria. Era quello il momento migliore per ideare nuove storie: il corpo e la mente si rilassavano, oscillava tra la veglia e il sonno, e le idee arrivavano.
Fare il cantastorie non era un lavoro semplice come credeva la gente. Bisognava pensare a favole da narrare senza rischiare di copiarne altre più antiche e conosciute, bisognava pensarle per un pubblico di bambini e quindi tenere conto della loro volubile attenzione. Lui era sempre stato bravo, sempre munito da incredibile fantasia e uno spiccato carisma con gli infanti. Riceveva sempre monetine in più anche dalle madri, al punto che guadagnava abbastanza da potersi permettere un posto comodo in una fumeria e una buona dose di oppio, almeno una volta alla settimana.
Teneva le sue storie raccolte in un taccuino rovinato dall’acqua e dall’inchiostro sgocciolante, ma tutte le favole più vecchie le aveva pubblicate con una casa editrice di Brema, da un paio d’anni.
Le idee gli arrivavano come intuizioni, le appuntava sul taccuino e poi, con calma, le sviluppava.
Gli piacevano i bambini. Vedevano il mondo con occhi innocenti, deformavano la realtà per renderla divertente e fantasiosa, più sopportabile. Un bastoncino poteva diventare una bacchetta magica, una lunga nave per le formiche; le foglie diventavano ombrellini per le fate o barchette da far navigare sulle pozzanghere. Vedevano il gioco in ogni situazione, in ogni oggetto.
Erano qualità magiche, concesse solo a chi aveva il cuore puro e gli occhi innocenti. Per questo, da adulti, si perdevano e si dimenticavano. Un adulto poteva tornare ad assaggiare l’animo fanciullo solo con la spinta delle sostanze stupefacenti. I bambini non ne avevano bisogno.
Era sempre stato bravo a fare il cantastorie. Si metteva seduto sul bordo della strada con un carillon e i bambini nei dintorni si avvicinavano pronti ad ascoltare.
Ma da qualche tempo, ormai, nessun bambino si avvicinava più e non sapeva spiegarsi del perché.
Aveva cercato lavoro altrove, ma la dea bendata non sembrava essere dalla sua parte in quel periodo. Aveva avuto il suo momento d’oro, forse era ora di farsi da parte.
Eppure non aveva intenzione di uscire di scena, non ancora. Aveva giurato di raccontare storie ai bambini fino alla fine, per preservare quella loro purezza. Il mondo non sembrava essere d’accordo.
Si era buttato a capofitto sull’alcool e l’oppio, aumentando le quantità, in cerca di nuove storie accattivanti da poter raccontare. La fortuna non aveva ancora intenzione di girare nella sua direzione. Decise che forse era quello il suo momento, la fine della sua vita.
E aveva deciso di terminarla in una fumeria d’oppio, su un comodo sofà di velluto porpora.

Sbuffò il fumo, gli occhi fissavano il soffitto di legno. Poteva vedere un piccolo ragno divorare una zanzara. Pensò che fosse una cosa triste e macabra, proprio come la vita stessa.
Forse quella zanzara aveva avuto il suo momento di gioia, succhiando sangue ovunque come un maledetto vampiro, ma aveva incontrato il predatore più cattivo e spietato ed era stata sopraffatta.
Pensò che era la metafora della sua vita: lui divorato dalla realtà.
Chiuse gli occhi per smettere di fissare la scena e inspirò altro oppio.

«Non vorrai mica lasciarti morire con quella schifezza?» domandò una voce scettica.

Il cantastorie aprì faticosamente gli occhi appannati per guardare il suo interlocutore. Era un uomo di età indefinita che sembrava stranamente lucido, nonostante i fumi dell’oppio e si trovasse in una fumeria – in cui il più sobrio fissava il vuoto.
La carnagione pallida a tal punto che s’intravedevano le venature indaco sulla pelle, gli occhi cerchiati dalle occhiaie, come fosse malato di tubercolosi. Portava un cilindro a cui erano incastrate piume di pavone, e un completo nero che faceva spiccare più del dovuto quel suo pallore malato.

«Che t’importa? Non ci conosciamo neppure» rispose flebilmente.
«Io ti conosco. – replicò, scaltro. – Sei il cantastorie che gira in piazza, sotto la statua dei Musicanti. Ti conosco abbastanza da sapere che stai fallendo con la tua attività»

L’altro strinse appena gli occhi, cercando di metterlo a fuoco con scarso risultato. Alla fine rinunciò e tornò a guardare il soffitto. Il ragno era sparito.

«Non voglio parlarne»
«Nemmeno se ti dicessi che ho un metodo per farti risollevare gli affari?»
«Non mi fido di te, non so chi sei»

Quello allora si tolse il cappello facendo un plateale inchino. «Jorgen. Ora non siamo più sconosciuti. Mi ascolterai?»
Il cantastorie lo guardò con circospezione, ma alla fine annuì stancamente. Non aveva voglia né forze per fare altre domande. In quel momento avrebbe fatto qualunque cosa pur di racimolare qualche soldo. La fumeria l’aveva pagata con gli ultimi risparmi.

«Tu credi nella magia, non è vero? – proseguì Jorgen. – Ebbene, io posseggo un oggetto magico. Ma non me ne faccio niente e mi sembra sprecato tra le mie mani, quando persone come te potrebbero utilizzarlo molto meglio. Si tratta di uno specchio. Io lo chiamo lo Specchio dell’Altrove, oppure la Porta. Conduce in luoghi che non appartengono a questo mondo.»
Il cantastorie ebbe la forza di aggrottare le sopracciglia: «Non sembra un oggetto sicuro. Quanto verrebbe a costarmi?»
«Niente! In più guadagnerai poteri magici, sai? L’unico prezzo è tenerlo, assumersene le responsabilità qualunque cosa accada»   «È un prezzo molto alto, il peso delle responsabilità su un oggetto magico» borbottò, stropicciandosi gli occhi.
«Che cruda e terribile verità, amico mio. Ma t’invito a concentrarti su tutti gli aspetti positivi che incontrerai tenendolo con te. E dunque? Affare fatto?»

Il cantastorie vide il suo interlocutore chinarsi su di lui, con la mano guantata tesa e pronta alla stretta. Un sorriso che, a causa della distorsione dovuta all’oppio, sembrava disturbante, diabolico.
Cercò di mettere a fuoco Jorgen, ma la vista proprio non voleva saperne di inquadrare i suoi lineamenti.
Pensò che avesse ragione, gli aspetti positivi di quello specchio sarebbero stati molti e valevano la pena di prendersene la responsabilità. Non dubitò neanche per un momento del fatto che quello specchio fosse, effettivamente, magico. Non mise in dubbio quelle parole, come chiunque altro avrebbe fatto. Forse per l’oppio, forse per il suo ostinarsi a cercare di vedere il mondo come un bambino.
Alla fine annuì, e gli strinse la mano.

«Affare fatto.»
   
 
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