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Autore: Nadja_Villain    03/11/2017    0 recensioni
Prima che il mondo intero iniziasse ad appassire, Trish era solo un'adolescente turbolenta, cresciuta nei bassifondi della stessa città dei Dixon, tra piccola criminalità e svaghi al limite del legale.
Nel presente ha perso anche sé stessa. Quando Negan l'ha trovata era ridotta ad uno straccio, sia a livello fisico che mentale.
Era convinta che sarebbe riuscita a smettere di soffrire se avesse chiuso le porte alle emozioni. Era convinta che fosse rimasta sola, che tutti coloro che conosceva fossero morti, ma non è così...
Riuscirà il ritrovo con Daryl ad aiutarla a ritrovare qualcosa per cui lottare?
Genere: Azione, Drammatico, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Spazio autrice introduttivo:

Le vicende di questa storia si svolgeranno in base a due piani temporali: passato pre/post-apocalittico e presente. La storia verrà raccontata in ordine cronologico rispetto al piano temporale del presente: partiamo da uno scorcio dall'ultimo episodio della 6a stagione in avanti, gettando un occhio verso le precedenti, tutto attraverso gli occhi della protagonista (segue più o meno la strada del gruppo di Rick, ma in tempi diversi, infatti non si incontreranno mai durante tutta la migrazione). I flashback esploreranno occasionalmente gli episodi evocati nei dialoghi e da parallelismi.

Il personaggio di Trish Dahanam e la sua storia, si evolve tra le omissioni e i punti ciechi della trama televisiva, ciò significa che non ci saranno vigorose modifiche nel filone narrativo principale, se non qualche dettaglio legato alle interazioni con gli altri personaggi.

Sono presenti scene tratte dalla serie televisiva, sebbene con alcune dinamiche alterate dalla presenza della protagonista, senza che sia stata modificata la trama principale.

Alcuni dettagli, tra cui caratteristiche fisiche secondarie o il piano temporale di scene non di risalto nella trama principale, potrebbero essere stati modificati a scopo narrativo.
 
Le scene sul passato dei fratelli Dixon sono puro frutto della mia immaginazione, in quanto la serie non ne fa alcun riferimento.

Se vi piace ciò che scrivo mi trovate anche su Wattpad col nome di @Nadja-Villain :)

 

 Ringrazio anticipatamente chiunque abbia deciso di spendere il proprio tempo leggendo questa storia ❤ 


*.+  B  U  O  N  A    L  E  T  T  U  R  A  !    +.*

Nadja Villain


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Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

Prologo : Immobile

Presente

Presente

La spugna grondò ancora acqua bruna dopo la terza strizzata. Era gonfia di quel lerciume fetido, tanto rosso che pareva ancora pulsare. Gonfia di una vita, che non sgorgava più stretta tra tubi, ma libera gocciolava e si sparpagliava ovunque per poi coagularsi come lava fredda.

Il fusto andava pulito accuratamente. Solo un panno morbido, acqua calda e d'aceto. A volte rimanevano sporche le ferite che segnavano l'usura: venuzze finissime che si otturavano velocemente. A quel punto serviva solo dell'olio di gomito e uno stuzzicadenti.
Il filo spinato era difficile da pulire nodo per nodo, allora toccava lasciarlo in ammollo. Stava iniziando ad arrugginire. Entro poco si sarebbe ramato completamente.

Il getto d'acqua spazzò via l'ultimo alone schiumoso. La superficie tornò a splendere sotto il panno pulito. Il legno era ancora umido: andava fatto asciugare. Lo avrei lasciato sul termosifone per tutta la notte prima di arrotolarci cautamente il filo attorno, seguendo i vecchi segni lasciati dalle punte di metallo.

Era bella. Compatta, sinuosa, equilibrata. Comprendevo la passione che il suo padrone avesse per lei. Non era semplicemente un'arma, era una firma, un'identificazione, una compagna. Silenziosa, ma cruenta. Scenica, come il suo possessore.

Infilai il guanto in lattice, sollevai il filo dall'acqua calda su cui rimasero galleggianti dei capelli neri e rossicci e una grossa quantità di frammenti molli di cervella che dovetti recuperare ad uno ad uno dalla grata perchè non si intasasse lo scarico. Gettai i rimasugli nel secchio a mano piena, dove già aveva occupato il fondo un ritaglio di cute ancora ricoperto di peluria e di liquido vischioso.

L'odore metallico aveva invaso la stanza. Le narici ci avevano fatto l'abitudine ormai. Dovevo stare attenta a tenere la porta chiusa, altrimenti l'odore di morte sarebbe corso fuori e si sarebbe confuso con l'odore di marcio, di umido e di fogna che proveniva dai corridoi. Forse non era un grande disturbo, pensato così. Ero consapevole che fosse solo una mera scusa. Nessuno doveva assistere all'operazione cui ero maestra, nemmeno per sbaglio. Era un rito. Qualcosa di trascendente.

"È come un trucco di magia: se viene svelato, non ci crede più nessuno."

Non mi ero mai posta, fino ad allora, il dubbio sul fatto che fosse giusto o sbagliato ciò che succedeva dentro quelle mura. Non avevo mai avuto motivo di oppormi. A tutto il sangue che veniva versato, avevo sempre dato un valore pari alla sporcizia. Che fosse per il bene o per il male, poco importava. Che fosse per sopravvivenza o per diversione, era poco rilevante. Ma quella notte era stata diversa. Quella notte avevo rischiato che il sangue corrente verso il buco delle fogne, non fosse anonimo.

Mi ero convinta che sarebbe stato più facile se non avessi avuto nulla da perdere. Pensavo fosse un po' come staccare la corrente. Pensavo che tutti i problemi, le paranoie, i rimorsi, il dolore, la paura sarebbero svaniti in un lampo. E per un po' così era stato. Non provavo più niente. Ero diventata invulnerabile, un mostro imbattibile se non da sé stesso. Quando premi quel bottone e ti lasci andare, incateni la vocina che scalpita al tuo interno per impartiti lezioni moraliste. Diventa davvero tutto più semplice. È come camminare a piedi nudi su un terreno fatto di foglie secche, ramoscelli, spine, schegge di vetro e sassi appuntiti, ma non sentissi nulla oltre al tuo peso colpire il suolo. È come avere i piedi intorpiditi e non percepire le dita strusciarsi tra loro. È come quando sogni di correre, ma non sei accaldato e non hai il fiatone. A quel punto puoi correre quanto ti pare, anche per sempre, senza fermarti. E se ti trovassi davanti a un burrone potresti provare a gettarti: non ti accorgeresti nemmeno della caduta, come se non arrivassi mai al fondo, precipitando all'infinito in uno spazio senza atmosfera. Allo stesso modo, avrei fatto sì che ogni reazione affettiva, ogni stimolo di empatia si separasse da me, anche a costo di annullarmi completamente e svanire in una sorta di suicidio mentale. Non mi importava avere dei sentimenti. Alla fine, non avevo alcun motivo di essere me stessa, perchè non avevo più nessuno con cui condividermi. Dovevo immaginarlo che la pacchia non sarebbe durato a lungo. Ero dannata, destinata a soffrire in eterno.

Un ottimo modo per far tacere la mente, brillava nella bottiglia trasparente che mi aspettava sul tavolo. Me ne ricordai solo quando avevo finito il mestiere, quando iniziai a sentire di nuovo il senso di vuotezza che mi si espandeva come un palloncino nello stomaco. Che fosse fame o senso di inutilità la sostanza non cambiava. Non facevo più differenze da tempo.

Posai la mazza gocciolante sullo scolapiatti adoperato appositamente allo scopo. Lavai i guanti e mi ciondolai verso il gioiellino liquido che ero riuscita a racimolare dal bottino di una spedizione. Stappai il cilindro di sughero e l'etanolo sbuffò dal capo in una nuvola invisibile.

Scomposta su una sedia, i piedi sul tavolo, una sigaretta che si fumava da sola tra le dita e il contenitore cristallino che lentamente si svuotava, decisi che quella sera mi sarei lasciata un po' andare. Me l'ero meritato, dopo tutto quel lavoro di scrostatura. Ma a un quarto di contenuto alcolico nelle vene, dovetti iniziare ad ammettere che forse quella mia armatura d'invulnerabilità non mi calzasse poi così a pennello. Avevo sempre pensato che semmai fosse sbucato un affetto dal passato per ricordarmi chi fossi davvero, non avrei avuto idea di come comportarmi. Avevo immaginato che gli sarei andata incontro correndo, forse l'avrei stretto per legarlo a me e non perderlo più, forse gli avrei permesso di farmi ritornare, avrei persino accettato di soffrire di nuovo in onore dei ricordi che, in quel momento, erano tornati a insistere sull'orlo delle cornee bagnate.

Cacciai con una mano le immagini di fantasie dettate dallo sconforto, della solitudine e dall'autoreclusione che mi era imposta per non recare altro danno né all'esterno, né a me stessa. Perchè ogni volta che concedevo alle emozioni di riaffiorare, di affondare i denti avvelenati nella mia coscienza, perdevo il controllo. A quel punto non potevo fare altro che chiudermi in me stessa. Meditavo, per ricongiungermi al mio segreto ideale di perfezione apatica.

Tuttavia non bastò la mia volontà per impormi di non provare quel senso di colpa opprimente. Mi attaccai a canna per affogarlo. Mi ero illusa di aver toccato il fondo, ma ancora mi mancava qualche metro. Perchè quella notte avevo rischiato di assegnare al sangue che avevo lavato via come semplice terriccio, ai fili sottili che avevo strappato dai nodi del metallo aggrovigliati ai pezzi di carne che galleggiavano sul pelo dell'acqua giallastra, un nome, un volto conosciuto. Perchè nella conta mortale era stato messo in gioco anche l'ultimo tassello del passato che credevo di aver perso... E io non avevo fatto niente per modificare il suo destino.

Dovevo essermi veramente trasformata in ciò a cui avevo aspirato: avevo fatto appassire il cuore, mi ero costruita una barriera di anticorpi per fortificarmi, ma qualcosa era andato storto: la barriera si era scheggiata. Così, adesso, non avevo più scuse per mentire a me stessa, non potevo più fingere. Non ero più legittimata ad oppormi ai miei demoni. Era troppo lampante la realtà per essere sviata.

Ero un mostro. Nient'altro.

Capii perchè mi meritassi quella vita di stenti. Mi meritavo tutto il male del mondo.

Con un gesto impetuoso gettai a terra tutto ciò che stava sul tavolo: non meritava nemmeno quello di rimanere in piedi. La mia rabbia si scaraventò sul pavimento, sulle pareti, sui mobili, sul letto, su me stessa. Mi riempii di nuovo, riacquistando a dondolii l'equilibrio. Percepii il liquido insediarsi anche tra le trame dei vestiti. Degluitii ancora finchè non percepii il cervello palpitare, come faceva ancora e ancora, nella mia mente, quella mazza contro il terreno, contro il fango impastato col sangue e le cervella, ormai tramutate in una mistura indistinguibile. Mi imbottii di nuovo di quel liquido inebriante fino a che non mi sentii scoppiare, finché tutto ciò che mi ero imposta di essere e stagnava dentro di me disomogeneo dal mio vero animo come olio nell'acqua, non riaffiorò dal bordo per straripare.

Arrancai verso il bagno, nonostante il pavimento avesse preso a dondolare come il ponte di una nave. Un conato mi sorprese prima di arrivare al vaso e sparpagliò sul pavimento quel poco di energie che mi era rimasto nello stomaco.

Fu in quel momento, mentre me ne stavo aggrappata allo stipite della porta, una mano a tenermi il bruciore interno che la malattia infettiva del cuore prese il sopravvento. Lasciai che le mie gambe cedessero, seguendo la verticalità della parete, le ginocchia a terra, emulando le vittime della mezzaluna mortifera della notte precedente. Rimasi immobile, come la notte prima dietro la prima cornice degli uomini che facevano da recinto al bestiame da macello inginocchiato alla presenza del carnefice, senza fiatare, accettando il verdetto sanguinario. Esattamente come allora, me ne stavo immobile, a fissare il mio rigurgito insediarsi tra le fughe delle piastrelle, afflosciata come uno stelo d'erba sotto il peso del nubifragio. Decisi per l'ennesima volta di non combattere. Tant'era vero che la vocina della coscienza emerse più pungente, d'un tratto. Era davvero questo l'atteggiamento che avrebbe dovuto rendermi invincibile? O stavo solo assorbendo passivamente la volontà della sorte? Magari avrei dovuto rimettermi in piedi, fiondarmi verso la cella in cui era rinchiuso un pezzo ancora caldo del mio cuore e resettare tutto, ricominciare da capo, ma non ero pronta per quel passo.

Tuttavia, pensandoci bene, - mi sentivo un po' più lucida - trovai l'eventualità che fosse tutto frutto della mia sempre fervida immaginazione. D'altronde ero ubriaca fradicia.

Che idiota! Mi ero fatta prendere da degli stupidi sentimentalismi... Eppure, la sensazione che mi aveva pervasa incrociando quel paio di occhi spauriti, ma ancora combattivi, costretti al livello dei piedi del Re, era stata talmente penetrante che mi era rimasta intrappolata nel petto e non riuscivo a liberarmene.

Non l'avevo notato subito

Non l'avevo notato subito. Non mi era nemmeno passato per la mente che potesse essere lui. Mi era sembrato solo un altro povero stronzo che sarebbe finito male. Se non si fosse alzato per far valere la sua eroicità in una mossa stupida e sconsiderata, - dettata prevalentemente dall'ira cieca e orgogliosa, tipica di una mente che avevo conosciuto bene - e se quell'uomo, il capo del gruppo, non avesse urlato il suo nome per chiamarlo catturando la mia attenzione, allora non mi sarei nemmeno incuriosita. Non mi sarei fatta spazio tra la gente per conoscere il volto di chi portasse quel nome che non mi suonava affatto nuovo.

Non credo che mi avesse notata

Non credo che mi avesse notata. Le teste spappolate dei suoi compagni erano un pensiero più significante dell'apparizione di una vecchia amica.

Non sapevo nemmeno se volessi espormi. Facevamo parte di due fazioni opposte. Per una riconciliazione, uno dei due avrebbe dovuto tradire. Ma forse non era questo ciò che mi turbava di più. Forse non sarei stata in grado di affrontare il suo giudizio.
Non sapeva cos'ero diventata. Non sapeva che cos'avevo fatto per sopravvivere. Io non ero più la ragazza che conosceva.

Non ero più nessuno.

Ero solo Negan.

 

 

   
 
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