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Autore: _happy_04    10/11/2017    1 recensioni
Killua ha sedici anni e una passione, oltre che un talento innato, per l'arte. Tuttavia, quando si è gli eredi di una famiglia di assassini professionisti come gli Zoldyck è richiesto che si sacrifichi la propria vita a questo impegnativo e crudele mestiere, ed è necessario mettere da parte tutti se stessi per riuscire.
Che fuggire da casa sia l'unica soluzione possibile? E se ci fossero anche ulteriori e inaspettati risvolti positivi ad attenderlo fuori dalle mura della residenza?
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Killua si sedette ad un tavolino, senza neanche togliersi il cappotto nero e tirando un sospiro. Era da quella mattina che non faceva una pausa, e si sentiva leggermente stanco. A pensarci bene, non aveva neanche pranzato. Però, quando si è in fuga da casa con la consapevolezza che se non si è abbastanza furbi si finisce per essere acchiappati e riportati indietro, mangiare è decisamente l’ultima cosa che viene in mente. Soprattutto quando la famiglia in questione è completamente formata da assassini professionisti che vogliono lo stesso per te.
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Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Shonen-ai | Personaggi: Gon Freecss, Killua Zaoldyeck
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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--filo e carboncino--
 



 

Entrato nella caffetteria, facendo un leggero cenno di saluto ai dipendenti, Killua si sedette ad un tavolino, senza neanche togliersi il cappotto nero e tirando un sospiro. Era da quella mattina che non faceva una pausa, e si sentiva leggermente stanco. A pensarci bene, non aveva neanche pranzato. Però, quando si è in fuga da casa con la consapevolezza che se non si è abbastanza furbi si finisce per essere acchiappati e riportati indietro, mangiare è decisamente l’ultima cosa che viene in mente. Soprattutto quando la famiglia in questione è completamente formata da assassini professionisti che vogliono lo stesso per te.
Certo, probabilmente un locale frequentato da tanta gente non era proprio il nascondiglio migliore, ma la ragione era che non aveva pianificato bene il tutto. Non aveva idea di come mangiare, dove dormire, come tirare avanti in un qualsiasi modo. Tuttavia, aveva la sicurezza di non voler per nessun motivo al mondo rimanere in quella casa; ne aveva fino al collo di addestramenti e allenamenti. “Ti conviene farlo”, gli diceva sempre suo padre, “se vuoi diventare davvero il grande assassino che il tuo potenziale permette”. Molto probabilmente, però, non gli era mai passata neanche per l’anticamera del cervello l’idea che lui potesse non volerlo.
Sbuffò. Non era decisamente il caso di compiangersi così, o non sarebbe andato proprio da nessuna parte.
Tastò le tasche del grosso giaccone; tutto quello che trovò furono un carboncino, un blocchetto di post-it colorati, un paio di fogli accartocciati (naturalmente già usati), un filo e qualche centinaio di yen – non era granché, ma poteva bastargli, almeno per il momento. Appuntò mentalmente di cercare, in seguito, qualcuno che gli affidasse qualche lavoretto semplice, in modo da racimolare almeno lo stretto indispensabile.
Quando un cameriere gli si accostò per raccogliere le ordinazioni, il ragazzo chiese un lecca-lecca, giusto per mettere qualcosa sotto i denti, poi, nell’attesa, prese ad abbozzare qualcosa su un post-it con il carboncino. Dopo appena pochi minuti alzò la testa, sistemandosi la forcina a croce sulla tempia destra e tormentandosi il choker di stoffa, perplesso. Come spesso gli capitava quando disegnava senza pensare, si era ritrovato a realizzare un disegno dallo stile decisamente gore, rappresentante il primo piano di un ragazzo con diversi cerotti e uno spillo ad attraversagli la testa, con un’espressione che pareva chiedere “perché mi sta accadendo ciò?”.
«Maledetto Illumi.» borbottò, trasformando lo spillo in un coltello con una smorfia. A furia di punirlo infilandogli aghi nella carne fino a farlo sanguinare per ogni errore, il fratello maggiore aveva instillato in Killua una bizzarra mania per gli spilli: questi gli provocavano un senso di ribrezzo, ma allo stesso tempo lo attiravano in modo quasi ipnotico, come una lampada con uno sciame di falene. Una volta, anzi, per la verità parecchie volte, si era ritrovato a praticare del body stitching sulle proprie braccia – il filo usato di solito era di un bel fucsia, forte anche se poco vivace – e a dirla tutta era anche diventato abbastanza bravo.
Rimosse il post-it e lo posò sul tavolo, riprovando a schizzare qualcosa, qualcosa qualsiasi. Stavolta, il soggetto era il logo dei FalKKonE, riempito con una fantasia in stile mandala, il tutto ovviamente sovrastato dal fulmine del simbolo e il nome della band, scritto in una calligrafia spigolosa e un po’ gotica.
Per fortuna, niente spilli in quest’altro disegno.
Posò il carboncino, accettando il lecca-lecca che il cameriere appena arrivato gli porgeva e portandosi le mani dietro la nuca. La sua intenzione, ora, era di fermarsi, tranquillo, senza fare nulla, e cercare di raccogliere le energie per riprendere a camminare appena finito il pranzo.
Macché.
Nel giro di neanche cinque secondi, aveva già di nuovo il carboncino in mano e prendeva a scarabocchiare su un terzo post-it, le mani che parevano quasi muoversi da sole. Era così, o lo si metteva a fare qualcosa oppure lui cominciava a disegnare, era più forte di lui.
Ad un certo punto, una voce gli arrivò alle orecchie, chiedendogli cordialmente se il posto davanti a lui fosse libero. Alzando lo sguardo appena per un istante, Killua annuì distrattamente, tornando praticamente subito sul proprio foglio senza neanche mettere a fuoco il viso della persona in questione.
All’improvviso, quando il ragazzo ebbe finito anche l’ennesimo schizzo, l’individuo che gli si era seduto davanti esclamò, con un’aria sorpresa e leggermente meravigliata: «Ehi, ma quello sono io!»
«Mh?» Killua guardò la figura che aveva realizzato, rendendosi conto di ciò che aveva effettivamente rappresentato: il soggetto era un giovane, (fortunatamente) dalle fattezze completamente normali e il sorriso smagliante, sulla cui maglietta era riportata la scritta “punk rock addicted” in lettere tutte maiuscole, con un effetto come di qualcosa di liquido che cola. Alzando lo sguardo, poi, notò che il viso del protagonista del disegno corrispondeva veramente quasi a perfezione con quello del ragazzo che aveva davanti – gli stessi tratti morbidi, gli stessi capelli protesi verso l’alto quasi fossero sottoposti a qualche scarica elettrica e gli stessi occhi, grandi ed incredibilmente espressivi. Probabilmente, nel momento in cui, poco prima, aveva alzato lo sguardo su di lui, il suo volto era in qualche modo rimasto impresso nel suo inconscio, portandolo a renderlo anche sulla carta. «Ah… Beh, così pare…»
«Wah, ce ne sono altri!» Lo sconosciuto osservò gli altri disegni di Killua, compresi quelli sui due fogli (quelli che il ragazzo aveva aperto nella speranza di trovare disponibili per passare un po’ di tempo), realizzati con tecniche decisamente più ricche rispetto al semplice carboncino – per esempio, acquerelli o matite colorate. «Wow, sei bravissimo!»
«Ah, ehm…» L’albino arrossì violentemente, sia per l’eccessiva vicinanza del compagno di tavolino che per i complimenti. Non era sicuro di come comportarsi, anche perché non gli avevano mai fatto congratulazioni per i suoi disegni. L’intera famiglia riteneva che quella sua passione fosse solo una perdita di tempo e una distrazione dal suo addestramento come migliore assassino dell’ultima generazione nonché erede della famiglia Zoldyck. Perciò, si limitò a balbettare un «Non… Non sei un po’ troppo vicino?», nella speranza di non aver fatto figuracce.
L’altro tornò a sedersi più o meno correttamente, grattandosi la nuca imbarazzato. «Oh, hai ragione, scusa.»
Rimasero per un attimo in silenzio, Killua che rifiniva i tre disegni e il giovane sconosciuto che lo osservava affascinato, finché quest’ultimo domandò, con fare allegro: «Ehi, tu come ti chiami?»
L’albino sollevò nuovamente gli occhi dal post-it, sistemandosi il lecca-lecca tra i denti. «Uhm… Io sono Killua.»
«Piacere di conoscerti, Killua!» Il moro posò il mento su una mano, aprendo le labbra in un grande sorriso. «Il mio nome è Gon, Gon Freecss!»
Davanti a quel volto così pieno di energia e gioia di vivere, per un attimo il ragazzo rimase quasi pietrificato a fissarlo. C’era qualcosa di bellissimo in quel Gon, un qualcosa di trascinante, travolgente, come un uragano di luce. Quasi involontariamente, si ritrovò a sorridere a propria volta.
Quando Gon richiamò l’attenzione di un cameriere per chiedere il suo, di pranzo, e chiese a Killua se lui avesse già ordinato, il giovane percepì come un gemito provenire dal suo stomaco, dal momento che evidentemente (e giustamente) il lecca-lecca non sembrava soddisfarlo, ma declinò l’offerta, più che altro per non rendere necessario che qualcuno spendesse dei soldi per lui. Non gli piaceva l’idea, anche se neanche lui era sicuro del motivo. Fu allora che Gon notò il suo braccio: «Eh? Che hai lì?»
«Oh? Questo?» Dopo un attimo di incertezza, Killua capì a che cosa si riferisse – ovvero i fili che sul suo braccio tracciavano come il grafico di un battito cardiaco. «È body stitching. Non fa male, davvero.» si affrettò ad aggiungere, intercettando l’espressione perplessa e vagamente turbata dell’altro. «Anzi, se vuoi ti posso anche far vedere.»
«Davvero?» Il viso del moro si illuminò di curiosità, mentre si sporgeva nuovamente sul tavolo.
Killua annuì, con un sorriso. «Certo. Però non ho aghi con me, né acqua ossigenata.»
Con grande sorpresa dell’albino, in risposta, Gon si girò, prendendo un piccolo zaino e posandolo sul tavolo, per poi tirarne fuori un set da cucito nuovo di zecca, completo di aghi, filo e tutto il resto, e una bottiglina di acqua ossigenata. «Questi vanno bene? Mia zia Mito mi ha chiesto di comprarle un paio di cose, tornando da scuola, per questo le ho in cartella.» spiegò, intuendo la domanda che l’altro gli avrebbe fatto.
Dal canto suo, Killua era rimasto piuttosto sorpreso da questa coincidenza, doveva ammetterlo. Probabilmente parlare di destino era eccessivo, ma aveva avuto fin da subito l’impressione che tutto quell’incontro non fosse del tutto casuale. In ogni caso, il ragazzo fece cenno a Gon di porgli il braccio destro, pulendo nel frattempo uno degli aghi. «Per il filo come vuoi fare per il colore? Io ho solo magenta.»
«Qui ce ne sono altri, se vuoi.» propose Gon, tirando alcuni rocchetti di diverse tinte dal suo “magico” zaino.
L’albino annuì, infilò un pezzetto di filo verde nella cruna dell’ago pulito e prese nella mano libera il braccio che l’altro gli porgeva. Ebbe come un fremito nelle dita nel toccarlo; la sua pelle era liscia e morbida, come soffice seta. Killua non ricordava di aver mai visto una pelle così, abituato com’era fin da piccolo a rendersi duro e resistente dalla testa ai piedi. Quasi gli dispiaceva dovervi cucire, a dirla tutta.
Mentre faceva scivolare l’ago sopra e sotto lo strato più superficiale della pelle del compagno di tavolo, con un sorriso vagamente divertito realizzò che, per la prima volta, lo stava facendo sul braccio di qualcuno che non fosse se stesso; a dirla tutta, fino a pochi minuti prima non avrebbe mai creduto di potersi trovare in una situazione del genere, ma doveva ammettere che non era per niente male.
C’era un che di rilassante in tutto ciò, i gesti delicati ma sicuri, le proprie dita sul suo braccio, e Gon che lo osservava curioso e un po’ affascinato, ma paziente, silenzioso. C’era un’armonia tale, una vera e propria pace in quell’istante, e forse anche un pizzico di magia, che avrebbe potuto farci volentieri l’abitudine.
Dopo un po’, quando Killua era più o meno a metà del lavoro, il moro ruppe il silenzio, parlando piano, quasi avesse paura di rompere l’attimo. «Killua, posso farti una domanda?»
«Certo.» rispose il ragazzo, senza alzare lo sguardo dal proprio lavoro.
«Ma tu perché disegni? Voglio dire… Quei disegni sui fogli grandi erano meravigliosi. Non sono disegni fatti, come dire, “così”.»
L’albino si mordicchiò il labbro inferiore, indeciso. Era vero, fin dal primo momento in cui lo aveva visto aveva percepito qualcosa di speciale in lui, come se gli infondesse senso di tranquillità di cui non aveva mai avuto idea, ma era anche abbastanza sicuro del fatto che sbandierare al mondo il fatto che i suoi genitori e tutta la sua famiglia fossero assassini professionisti e che stessero facendo i salti mortali per insegnare il mestiere anche a lui non fosse esattamente un colpo di genio.
«Ecco… Come dire…» mormorò, soppesando le parole con attenzione – senza ovviamente distrarsi dall’opera che stava pazientemente realizzando sul braccio di Gon. «Diciamo che i miei hanno già pianificato tutta la mia vita, il mio lavoro, le mie compagnie, tutto quanto, e hanno delle grandi aspettative per me… Ma io non riesco a sopportarlo. Insomma, chi è che vorrebbe che siano gli altri a decidere per loro? È per questo che disegno. Ho bisogno di trovare una maniera per essere me stesso, in qualche modo, in qualsiasi modo.»
Tacque, rendendosi conto di aver dato voce a quello che aveva tenuto represso dentro di sé per tutti quegli anni. Quel desiderio di riscatto, di libertà, di sentirsi “qualcuno”, lui lo aveva forte nel petto, come un fuoco ardente e implacabile. Con tutti gli allenamenti, le torture, gli addestramenti, la sua famiglia aveva cercato di spegnerlo, sopprimerlo, ma non ci riuscivano, e mai ci sarebbero riusciti. Tutto quello che facevano era alimentarlo, farlo diventare più forte. Quel fuoco lo teneva in vita, gli impediva di arrendersi e lo spingeva a continuare a lottare, calpestando con la propria arte le parole di tutti coloro che avrebbero provato a fermarlo.
Nel non sentire la risposta di Gon, alzò appena lo sguardo, incrociando i suoi occhi, e per un attimo rimase folgorato da ciò che vi vide. Non sapeva perché, né come, ma era sicuro che avesse capito tutto quello che gli era passato per la testa, anche quello che non aveva detto, anzi, soprattutto quello che non aveva detto.
Rimase così, per un attimo, incatenato a quegli occhi che gli avevano letto dentro come un libro aperto e senza barcollare neanche un attimo sotto il peso di quelle emozioni. Però, Killua non riuscì a reggerli, quegli occhi, e tornò sul proprio lavoro, cercando di ignorare la capriola che il suo cuore aveva appena fatto nel suo petto.
Dopo pochi altri minuti, il ragazzo fermò il filo sul braccio di Gon e rimise a posto l’ago, tornando ad appoggiarsi allo schienale. «Finito. Allora?»
«Waah!» Il moro alzò il braccio, fissando entusiasta la cucitura a croci, simile come disegno ai lacci delle scarpe, sul proprio braccio, quasi fosse chissà quale stravagante trovata. «Avevi ragione, è fortissimo, e non fa nemmeno così male!»
L’albino lo guardò sfogare la sua euforia, vagamente intenerito da quella gioia innocente per una cosa da nulla, neanche fosse un bambino che riceve le caramelle dalla mamma. Gli sembrava quasi impossibile che un attimo prima quello stesso ragazzo lo avesse guardato con un’intensità tale da costringerlo ad abbassare lo sguardo.
«Killua?» La voce di Gon richiamò d’improvviso la sua attenzione. Si era nuovamente sporto appena verso di lui, puntando i gomiti sul tavolo. «Grazie!»
L’altro rimase interdetto per un attimo, ancora una volta impreparato sul da farsi. Grazie, che bel disegno, sei bravissimo; erano tutte cose che non era mai stato abituato a sentirsi dire, né tantomeno gli era stato insegnato come reagire in queste situazioni. Le stava scoprendo tutte insieme, in un solo colpo e con una sola persona. Tutto quello che riuscì a fare, per quanto si sentisse impacciato, fu avvampare, distogliendo lo sguardo da lui. «Per così poco…»
A salvarlo dall’imbarazzo arrivò un cameriere, che portava il panino di Gon, il quale insistette per fare a metà con Killua finché questo non cedette quasi per esasperazione – o almeno, questo fu quello che diede a vedere. La verità era che era la prima volta che qualcuno si comportava così con lui, e non gli dispiaceva affatto, ma era proprio questo il problema: cosa avrebbe fatto poi? Era altamente probabile che la sua famiglia lo ritrovasse, e allora sarebbero stati guai per lui. Avrebbe sentito la mancanza di quel pranzo passato in allegria e serenità, e avrebbe sofferto. Avrebbe sentito le catene pesanti come non mai, perché adesso sapeva e conosceva la sensazione di calore al cuore, quella che gli faceva così bene da parer curare tutta la solitudine di quindici lunghi anni. Una ferita che si riapre è più dolorosa di una nuova. Perciò, la domanda era, ne valeva la pena?
Quando ebbe finito la sua metà di panino, Gon richiuse lo zaino, se lo mise in spalla e si alzò in piedi. «Killua, tu che farai?»
Il ragazzo alzò i gomiti, unendo le mani dietro la nuca. «Non lo so. Attualmente sono ufficialmente in fuga da casa, quindi devo vedere come trovarmi una sistemazione. Ma credo che mi inventerò qualcosa…»
«Puoi venire a stare da me!»
L’albino aveva praticamente perso il conto delle volte in cui quel ragazzo era riuscito a lasciarlo senza parole negli ultimi trenta minuti. «Io… No, davvero, non voglio dare fastidio a nessuno…»
«Ma no, nessun fastidio! Del resto, non puoi certo stare per strada, ti pare? Anzi, sono sicuro che Mito-san sarà felicissima di avere un mio amico a casa!» esclamò Gon, aprendo le braccia con un grande sorriso.
«Amico…?» balbettò Killua, sentendosi improvvisamente incapace di formulare un qualsiasi pensiero con una parvenza di filo logico. A casa gli avevano sempre detto che gli amici, come il disegno, erano solo un’inutile perdita di tempo, che non servivano a nulla se non a distrarsi dal proprio obiettivo; di conseguenza, non sapeva neanche di preciso cosa fosse un amico. Però, se la cosa gli permetteva di rimanere insieme a Gon gli andava bene. Si sentiva incredibilmente attratto e incuriosito da quel ragazzo, quella sua energia ma allo stesso tempo con qualcosa di nascosto, come una doppia personalità dalle mille sfaccettature; e poi, il suo sorriso. Killua si era sentito subito conquistato da quel sorriso, pieno di gioia, come un raggio di sole, generoso e disponibile a trasmettere tutta la propria luce a chiunque ne avesse bisogno.
Beh, di una cosa era certo: se fino a pochi istanti prima non aveva idea di come rispondere, adesso era abbastanza sicuro su cosa volesse fare. Aveva persino trovato una risposta alla propria stessa domanda: sì, ne valeva assolutamente la pena.
Con un leggero sorriso, si alzò a sua volta, infilando tutti i propri averi nelle tasche del giaccone e avviandosi verso l’uscita della caffetteria. «Se proprio insisti, allora verrò con te. Non ti preoccupare, ti darò fastidio solo finché non troverò qualche altro modo per cavarmela da solo, poi ti lascerò in pace.»
Era di spalle, quindi non poteva vederlo, ma sentì Gon che esultava sottovoce e posava i soldi sul bancone della cassa, per poi trovarselo nuovamente camminare di fianco a lui. «Beh, allora fa’ con comodo!»
Mentre si avviavano verso la sartoria della zia, più Gon e Killua stavano insieme, più l’albino era certo della propria scelta. Forse aveva sbagliato, forse stava facendo l’ennesimo errore della propria vita, ma, ne era certo, non avrebbe rimpianto quella scelta. Chissà, forse quell’incontro era veramente stato dettato dal destino.


------Angolo dell'autrice
Ma ciao a tutti!
Sì, lo so: è strano. Me ne rendo conto. Io per prima, da patita ossessiva quale sono degli AU ne ho viste, lette e scritte di tutti i colori: scuola di balletto, shogun (?), scolastico, fantasy, horror, "no Nen" (?x2) e chi più ne ha più ne metta. Ma un Killua artista giuro che non lo avevo mai visto. Quindi sì, mi rendo conto benissimo che è decisamente strano. Non so neanche io come ci sono arrivata. È che mi è venuta una fissa per l'immagine che trovate sotto il titolo, e ormai dovreste saperlo, la mia povera mente malata di fangirl è capace di qualunque cosa. Perciò, l'idea è arrivata, la mia beta reader di fiducia aka mia sorella era d'accordo, ed eccoci qua.
And, ora credo di poter dare un po' di note. lo so che non tutti siete pigri come me, le note le faccio perché sì
- I FalKKonE sono una band di symphonic metal che ho scoperto abbastanza di recente grazie alla cover di Suna no Wakusei (originale by Hachi e Miku); fanno prevalentemente cover, e molte sono decisamente dei pezzi importanti per gamer "filoNintendo", per esempio c'è la Canzone della Tempesta di TLoZ Ocarina of Time, o il tema musicale di Lavander Town di Pokémon RGB. Vi consiglio di farci un salto, perché potrebbe essere davvero interessante!
- Il body stitching è una forma di body art che, come dire, esiste davvero, e in determinati casi mi piace anche parecchio. Un esempio chiaro e famoso nel mondo degli anime e manga è Juuzo Suzuya, da Tokyo Ghoul (che sicuramente avete già visto pur non essendo fan dell'anime/manga).
- Il gore è uno stile che personalmente apprezzo nelle forme del disegno anime in tinte pastel o "fluo", anche se solo quando non è troppo "spinto" (per esempio, lo stile di quello realizzato da Killua mi piace parecchio, ahah). Un'artista che potrebbe fare da esempio e che io ADORO è Shiroi Room, che con molti lavori rende perfettamente l'idea di quello che intendo.
Eeee credo di aver finito, ma al 99,9% avrò dimenticato ancora qualcosa, quindi sorry :"
Poi niente, spero di non essere caduta nell'OOC per sicurezza ho messo l'avvertimento, non si sa mai , e ora che ho finito siete liberissimi di prendermi a pomodori in faccia. *si nasconde in un angolino*
Bacioni,
-Happy-

   
 
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