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Autore: AveAtqueVale    12/11/2017    2 recensioni
Alexander Lightwood è un giovane uomo di ventitré anni costretto dai suoi genitori a frequentare, settimanalmente, un noto psicologo che in qualche modo gli capovolgerà l'esistenza.
Magnus Bane è un brillante e ricercato psicologo incapace di affezionarsi ai propri pazienti -per lui semplici casi da comprendere e rimettere in sesto come fossero puzzle da ricostruire- che si ritroverà ad avere Alexander in cura, ritrovandosi spiazzato dalle loro stesse sedute.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Isabelle Lightwood, Magnus Bane, Maryse Lightwood, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Non voleva assolutamente essere lì. No, meglio: non avrebbe dovuto essere lì.

Non si era mai sentito così a disagio e nervoso in tutta la sua vita. Seduto su quel divanetto di pelle in attesa che quella porta si aprisse solo perchè un qualche vecchio noioso matusalemme lo invitasse ad entrare ed accomodarsi per parlargli di ciò che sentiva dentro. Il solo pensiero lo mandava nel panico. Non era nella sua indole parlare di sé, non era capace di esternare a voce i propri pensieri o sentimenti. Non era qualcosa fatta per lui, nessuno avrebbe potuto mai capire il casino che aveva dentro. Ad essere totalmente sinceri non ci capiva niente neppure lui, come poteva credere che potesse capirci qualcosa chiunque altro?

Il ragazzo sbuffò dalle narici stringendo la mascella, i denti premuti gli uni contro gli altri mentre, tenendo strette le braccia al petto, lanciava occhiate nervose qua e là per la piccola sala d'attesa. La giovane segretaria seduta alla scrivania stava controllando la lista di appuntamenti sull'agenda del suo capo mentre lui cercava di rallentare il battito cardiaco. Sentiva il cuore battere all'impazzata per l'agitazione, la gola chiudersi mentre una violenta nausea gli saliva alla bocca. In questo momento stava odiando i suoi genitori per quella loro stupidissima scelta di volerlo mandare da uno strizzacervelli. Lo faceva sentire fuori luogo, inadeguato. Sbagliato. Come se avesse una qualche sorta di malattia che volessero trattasse, come se semplicemente il suo carattere chiuso e introverso fosse un difetto da cambiare e non una parte di sé, come poteva esserlo un braccio od una gamba.

Si sentiva ferito. E arrabbiato. Sentimenti che ultimamente stava provando fin troppo spesso, sentimenti che lo stavano colmando e riempiendo a ondate pericolosamente violente e improvvise. Schioccò la lingua contro il palato cercando di scacciare quelle considerazioni dalla sua mente. Non voleva pensare a come si sentiva, quasi come un atto di ribellione nei confronti del luogo in cui si trovava. Non aveva bisogno di essere lì. Poteva gestire da solo i suoi pensieri, senza l'aiuto di qualcuno che gli dicesse cosa era giusto che provasse e cosa no.

Sollevò lo sguardo per portarlo sulla porta dello studio.

Una porta di mogano scuro, lucida, in gran parte composta da una lastra di spesso vetro opaco attraverso la quale non si poteva vedere realmente la stanza, solamente ombre sfumate e confuse, colori sbiaditi che si mescolavano e mischiavano fra loro quando c'era abbastanza luce. A lettere cremisi ed eleganti c'era stampato sul vetro il nome dello psicologo: Magnus Bane. Il ragazzo aggrottò le sopracciglia prestando solo ora attenzione a quello strano nome. Non particolarmente incoraggiante, non sembrava neanche un nome vero. Quale madre avrebbe mai chiamato suo figlio “Magnus”? Sembrava più un nome d'arte o un soprannome. Magari in realtà era straniero. No, improbabile: i suoi genitori non erano mai stati particolarmente aperti di mentalità, ed era assai difficile che avessero abbastanza considerazione di un extracomunitario per mandarglici in visita il proprio primogenito.

Mentre questi pensieri presero a girare per la sua mente la porta si aprì rivelando la figura di una donna piuttosto in là con l'età dall'aria piuttosto turbata. Le sue gote erano asciutte ma tinte di un rosa acceso mentre i suoi occhi erano gonfi e arrossati, leggermente lucidi. Non degnò il ragazzo di una occhiata, tirando dritto verso l'uscita della sala d'attesa stringendosi nella sua giacca a vento. Non era esattamente il luogo nel quale piaceva farsi guardare, immaginò lui.

«Può accomodarsi» disse dunque la voce della segretaria dai lunghi capelli scuri. Il giovane la osservò e sentì il cuore balzargli in petto. Era ora.

Stringendo i denti e sentendosi improvvisamente travolto da una ondata di panico, si alzò dal divano con le mani infilate nelle tasche del giubbotto nero e la testa alta. Annuì con fare rigido prima di muovere i propri piedi e dirigersi all'interno dello studio.

La segretaria si alzò a sua volta sorridendogli con aria accomodante, come se volesse farlo sentire a suo agio, quasi volesse dirgli “Non preoccuparti, vedrai che non è niente di che” e richiuse la porta alle sue spalle una volta che lui ne varcò la soglia. Era una stanza semplice, luminosa, con una grande finestra che dava sulla strada sottostante e dalla quale si poteva vedere in lontananza la distesa verde del Brooklyn Bridge Park. Il pavimento era in resina di un bianco sporco con venature grigie simili a scie di olio in una bacinella d'acqua. Delle piante in vaso erano poste agli angoli della stanza mentre alle pareti non occupate dalla grande finestra e da una fornita libreria in legno scuro, c'erano quadri dagli stili svariati e quasi agli antipodi. La modernità di un quadro privo di reali disegni quanto di semplici macchie di colore si succedeva ad un rilassante paesaggio sulle rive di una spiaggia all'alba o alla rappresentazione di una Venere senza veli ma per niente volgare.

Il giovane cercò di studiare la stanza per evitare di posare lo sguardo sull'elemento che, alla fine avrebbe dovuto inevitabilmente studiare. A poca distanza dalla libreria, a poco più di mezzo metro dal muro, c'era una scrivania in ebano lucido dietro la quale era comodamente seduto il suo nuovo strizzacervelli. Alec sentì il cuore impennare mentre realizzava che non poteva più tirarsi indietro. Deglutì una, due, tre volte cercando di mandare giù quel grumo presante che gli bloccava il respiro, ed alla fine si arrese alla spiacevole sensazione di sentirsi le vie aeree ostruite. Si abbandonò sulla poltroncina piazzata di fronte alla scrivania per accogliere i pazienti del medico e quindi sollevò lo sguardo per incontrare finalmente la figura dell'uomo che avrebbe tormentato tre dei suoi pomeriggi ogni settimana.

Quando i suoi occhi azzurri si posarono sulla figura di Magnus Bane, il ragazzo si paralizzò.

E' uno scherzo, pensò.

 

*

 

Lo sguardo annoiato di Magnus scivolò sull'agenda sulla sua scrivania non appena l'orologiò trillò la fine dell'ora a disposizione per la signora Milligan. La donna tirò su col naso ricomponendosi e asciugandosi il viso mentre Magnus cercava di ricordare chi fosse il prossimo paziente della giornata.

Alexander Lightwood.

Oh. pensò lui inarcando appena le sopracciglia, tamburellando un paio di volte con l'indice destro sul nome del giovane scritto sulla carta. Sarebbe stato il loro primo appuntamento, quello, e non sapeva un bel niente di lui. Erano stati i suoi genitori a presentarsi alla sua porta, a chiedergli di parlarci, di aiutarli a sbloccare il loro bambino. In realtà loro non era la parola più opportuna da utilizzare; Robert Lightwood sembrava essere stato trascinato lì dalla dirompente impazienza di sua moglie per scoprire cosa ci fosse che non andava in loro figlio. L'apprensione della donna nel descrivere il tipico atteggiamento di un qualsiasi adolescente sulla sua strada per l'età adulta fece venire in mente a Magnus un paio di possibili motivi per il carattere chiuso e introverso del suddetto ragazzo.

Magari suo figlio non parla perchè lei sembra già parlare abbastanza per entrambi, signora Lightwood, gli sarebbe piaciuto dirle mentre lei continuava a sciorinare preoccupazioni comprensibili solo fino a un certo punto. Ah. Il triste destino dei primogeniti tanto attesi. Invece Magnus mostrò solamente un'espressione comprensiva e disponibile e diede loro appuntamento per quel giorno a patto che il ragazzo decidesse da sé di venire in quello studio e che non fosse obbligato o ricattato in alcun modo. Sapeva che quella doveva essere una speranza vana, ma ci aveva provato a risparmiare a quel povero ragazzo l'incombenza di dover venire fin lì per quella che poteva semplicemente essere la sua normalissima crescita.

D'altro canto era persino contento dell'appuntamento con questo giovane, sventurato ventenne: la sua parcella non era esattamente alla portata di tutti ed ogni nuovo cliente era una bella fetta di stipendio in più che si sarebbe portato a casa a fine mese. Hurray.

La signora Milligan lasciò lo studio e Magnus ebbe modo di inspirare a fondo e raddrizzarsi sulla sua poltrona, bevendo un sorso d'acqua dalla sua bottiglietta. La rimise nel piccolo frigobar sotto la scrivania appena in tempo per veder entrare nello studio un ragazzo alto e longilineo dall'aria avvilita e combattuta. Aveva scomposti capelli neri e la pelle chiara come l'avorio; indossava abiti che probabilmente avevano vissuto più lavaggi di quanti non ne meritassero a giudicare dai colori sbiaditi, ed una giacca nera aperta su di una vecchia maglietta di un blu stinto ormai più simile al grigio. Questo ragazzo non aveva la minima intenzione di essere guardato dagli altri, non aveva la minima voglia di essere osservato. Magnus non era certo che questo dipendesse da un semplice desiderio di pace e solitudine o dalla mancata consapevolezza delle sue reali possibilità. Gli sarebbe bastato davvero poco per poter rivoluzionare la sua aria ordinaria e sciatta con una più accattivante e seducente. Aveva un bel fisico da quello che poteva vedere attraverso i vestiti e i lineamenti del volto sembravano essere piacevoli. Magnus si chiese che tipo di sguardo gli avrebbe visto indirizzargli una volta che avesse trovato la forza di alzare il capo.

Come era consuetudine la prima cosa che scintillò negli occhi del paziente non appena posò il proprio sguardo su Magnus fu sbigottimento. Alexander risultò basito quando vide il volto del suo medico e non tentò in alcun modo di dissimulare la sorpresa. In un primo momento. Sgranò i suoi grandi occhi azzurri portando lo stesso strizzacervelli a fare la medesima cosa in uno spasmo involontario.

Aveva degli occhi indimenticabili. Puliti, brillanti, trasparenti, di un azzurro così chiaro da ricordargli la sfumatura del mare alle prime luci dell'alba quando i raggi rosati del sole nascente ne baciavano la superficie.

Magnus si ricompose in pochi secondi tornando alla consueta espressione rilassata e imperturbabile, intrecciando le dita dinnanzi a sé sulla scrivania e tenendo fisso lo sguardo in quello del paziente.

«Benvenuto, Alexander.» sorrise lui con fare semplice e accomodante. «Io sono Magnus»

   
 
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