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Autore: _Polx_    15/11/2017    8 recensioni
Il suo non era un animo credente: di rado gli capitava di pregare e mai offriva oblazioni agli Dèi. Quel giorno, tuttavia, decise di seguire un antico rito nella disperata speranza d'ottenere ascolto. Incise un lieve taglio sul palmo della propria mano e lasciò che il sangue spillasse nel piatto di rame, poi pregò in silenzio perché, sebbene gli risultasse tremendamente difficile da ammettere, cominciava a temere per la vita di quel bambino.
Genere: Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Piccole anime infelici'
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Un terribile morbo si propagò per le terre settentrionali e colpì più crudelmente di qualsiasi altra malattia, poiché le uniche vittime che reclamava erano bambini e giovinetti.
Caddero a centinaia e nessuno ne pareva immune.
Entro breve si diffuse l'insidiosa voce che ne fosse stata trovata una cura, ma essa era riservata ai pupilli d'alto lignaggio, mentre il popolo vedeva i propri figli morire nell'inezia e nell'indifferenza del potere regnante.
Questo fu ovviamente motivo di grandi sommosse e ribellioni e le forze militari del paese vennero dispiegate non più con l'ordine di scacciare i predoni orientali o i mercenari occidentali, bensì di ammutolire la plebe e punire le madri che si opponevano ai carri colmi di cadaveri su cui i monatti desideravano caricare anche i loro figli, perché venissero gettati in una delle molte fosse comuni nella campagna, anziché conceder loro degna sepoltura.
Gli Ufficiali dell'esercito furono costretti ad accantonare temporaneamente i grandi piani di guerra per prodigarsi nella gestione della frenesia crescente. Coloro che di essi avevano famiglia non tardarono ad allontanarla, avendone modo e libertà, perché i loro figli non subissero il contagio. Fece eccezione un Comandante delle legioni orientali, Asor della Prima Stirpe, che, pur avendo un erede, non se ne curò. Il figlio, cui aveva negato la legittimazione, non era infatti riconosciuto dalla legge della nazione e, dal giorno della sua nascita, avvenuta ormai otto anni prima, non aveva causato che fastidi al suo grado e gettato vergogna sul suo nome.
Il bambino viveva in una modesta, ma dignitosa dimora al di là del fiume, sorvegliata dalla folta selva a meridione e circondata dalle campagne a levante. A occuparsene era la madre, una graziosa ancella dall'animo virtuoso, che fu tuttavia sollevata dal proprio incarico quando la signora presso cui prestava servizio seppe che in lei cresceva il seme dello scandalo.
Asor non permise che lei e il figlioletto vivessero di stenti e non di rado faceva loro visita, seppur in segreto e con immensa discrezione.
Diamante era il nome di lei. Era giovane, più di quanto lui non fosse, ma tale disparità non era semplice da cogliere, poiché Asor discendeva dalla Stirpe più antica, un popolo di uomini forti e nobili, cui la natura aveva donato vita effimera, ma pur sempre meno breve dell'esistenza toccata alla più tenera Sorella.
Non solo per l'immensa abilità in battaglia, ma anche per le sue illustri origini Asor veniva guardato con grande rispetto ed era un vanto per l'esercito della nazione sfoggiare il suo nome tra i propri Ufficiali: sarebbe stato elevato a rango di Generale con grande anticipo, se solo non avesse macchiato il proprio nome con l'odiosa pecca d'un figlio bastardo.
Il piccolo Astar, così era conosciuto, rassomigliava molto al popolo del padre e, sebbene sua madre avesse chioma e occhi di pece, i capelli di lui erano pallidi come neve e il suo sguardo smeraldino.
Era bellissimo, il piccolo Astar, ma nessuno all'infuori di Diamante osava ammetterlo apertamente.
Asor non negava che per lungo tempo avesse sperato in un qualche dono del destino che gli permettesse di allontanare la propria carriera dalla sua ombra, talvolta, nei momenti di maggior sconforto, rivolgendo persino odiose preghiere alle divinità, perché ciò accadesse a prescindere dalle conseguenze e dai mezzi necessari. Tuttavia, non riusciva a odiare quel bambino e avrebbe richiesto il trasferimento suo e della madre, se solo ciò non avesse significato una compromettente esposizione del loro nome e del legame che essi avevano con lui.
Così, sebbene molti sapessero del bastardello, non ne fecero parola ed Asor finse che non vi fosse interesse in lui per l'epidemia e i rischi che il piccolo Astar correva.
Poche settimane dopo la diffusione del morbo, tuttavia, gli fu consegnata una missiva. Diamante ne era il mittente e lui la aprì quando fu certo d'esser solo, nel proprio alloggio, così da evitare sguardi indesiderati. La sua fronte si aggrottò leggendone il contenuto, perché pareva che il piccolo Astar si fosse ammalato, com'era più che prevedibile. Tuttavia i sintomi erano lievi e Asor ne fu in parte inorgoglito, poiché era certo che il sangue della Prima Stirpe non si sarebbe lasciato soggiogare da una sciocca affezione.
Non diede molto peso al messaggio, convinto in qualche modo che fosse irrilevante, e tornò presto alle proprie questioni.
Quattro giorni dopo giunse una seconda lettera da parte di Diamante: domandava perdono per il persistente disturbo, tuttavia non si tratteneva dal richiedere l'assistenza di uno dei medici ufficiali perché il piccolo Astar venisse visitato.
Non era da lei avanzare simili pretese e Asor ne fu a tal punto insospettito che decise di recarsi da loro, nonostante il gran trambusto che in quei giorni scuoteva il governo locale e la difficoltà per un Ufficiale d'assentarsene con discrezione.
La stessa Diamante parve sorpresa se non turbata di trovarlo alla propria porta, almeno quanto lui fu turbato di trovar lei tanto affaticata e tesa.
La donna si sporse oltre la sua figura: “vi è un medico con te?”.
“No” rispose come fosse cosa ovvia “scomodare un medico ufficiale per un piccolo inconveniente ufficioso non è certo questione da poco. Desidero constatarne di persona la necessità”.
Senza nascondere la propria avversione, Diamante gli permise di entrare.
Astar sedeva a letto, una tazza fumante tra le esili dita, il volto pallido, gli occhi cerchiati da aloni lividi, un velo di sudore freddo a imperlargli la fronte.
“Salve” salutò allegramente, scorgendo Asor sulla soglia.
“Ciao, piccolo infermo. M'è stato detto che hai osato ammalarti” replicò l'altro con bonaria ironia.
“Ammalarsi è più facile che guarire”.
Asor ridacchiò e gli si sedette accanto: “dunque, come ti senti?”.
“Freddo e caldo al tempo stesso. Tremolante. Assetato”.
Il Comandante scrollò le spalle: “mi paiono i sintomi di una normale influenza e le influenze passano”.
Astar annuì con convinzione. Provava affetto per Asor poiché era sempre stato gentile con lui, ma gli riservava anche grande rispetto e vi riponeva immensa considerazione: se questo il Comandante diceva, dunque questa doveva essere la verità.
 
  
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