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Autore: Kuruccha    15/11/2017    5 recensioni
E ci ripensa quando è ormai sera, mentre lava le ciotole, con le mani a mollo nell’acqua calda e il ciarlare spensierato dei clienti nelle orecchie: in fondo - poco importa della sabbia che ancora infesta gli angoli della sua tenda, o del fatto che non sia più riuscito a guardare una piastra senza sentire un bruciore fantasma tra l’indice e il palmo - dai momenti che ha passato con Ukyo ha tratto solo cose buone, buone sul serio, un po’ come quell’allegria che lo riscalda ora all’idea di non essere più per strada a vagare da solo.
Genere: Generale, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ryoga Hibiki, Ukyo Kuonji
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Tanto per cambiare, le note iniziali!
Questa fic è il seguito diretto de La risacca e temo che, senza le dovute premesse che ci trovate dentro, molti presupposti alla base di questa storia siano ben poco comprensibili.
L'onda 
è ambientata dopo il finale del manga, pur prendendosi parecchie libertà rispetto alla storia originale. Tipo che non esistono né Akari né Konatsu, per intenderci, e proprio questo è il motivo alla base dell'avvertimento what-if
Ho sempre un grande debito con gli incoraggiamenti fangirlistici di Mana, perciò anche questa fanfiction è per lei.
Buona lettura! 

 




L'onda


 

Se lo ritrova davanti a fine giornata, in una sera d’inizio estate, quando esce dal locale per recuperare l’insegna luminosa già staccata dalla corrente.
Vedendolo da lontano lo crede un miraggio: perso nel buio del vialetto di fronte col solito zaino pesante in spalla, dopo mesi interi che non le capitava di incontrarlo, Ryoga ha stampata in viso la più perplessa delle espressioni.
«Chi non muore si rivede!» gli dice, tutta allegra, e lui sembra ancora più confuso.
«Ukyo?» chiede. «Dove siamo?»
«Ma che domanda è?»
«Questa non è Nerima» continua, disorientato, guardandosi attorno. «Cioè, almeno credo. Sempre che la strada non...»
«Fermo, fermo» gli dice, sventolando le mani. «Hai ragione tu. Siamo a Nagoya.»
Lo vede contare sulle dita le sillabe dei nomi delle due città. «Beh, ci sono andato vicino» lo sente borbottare.
«È passato così tanto tempo che quasi m’ero scordata del tuo problema» gli dice, un’inaspettata allegria a scaldarle la pancia. «Ti chiederei qual buon vento ti porta, ma...»
«Molto divertente.»
«E dai, scherzavo» replica, sorridendo quasi di sottecchi, le mani ora posate sui fianchi. «È bello rivedere una faccia nota, ogni tanto.»
Tentenna, poi rilassa le spalle. Sorride anche lui.
«Già. Quanto tempo.»
 
 
«Ti dico che non c’è bisogno di preoccuparsi!»
Ryoga abbassa la testa sotto la tendina d’entrata al locale: capisce subito che Ukyo deve aver appena finito di rassettare. Osserva il pavimento lavato di fresco e gli sgabelli in equilibrio instabile sul bordo del bancone, poi studia mentalmente il percorso da fare per lasciare meno impronte possibili.
«Dai, avanti, entra pure» la sente dire, ma la sua voce è ovattata, schermata da uno degli sportelli delle dispense nella zona piastre. «Hai già mangiato? Devo ancora cenare anch’io.»
Non ottiene risposta, perciò riemerge dall’armadietto e cerca la figura di Ryoga, ancora impalato all’ingresso. «Beh, che fai? Prendi una sedia e mettiti comodo!»
«Sì» le risponde, come riscuotendosi. Si toglie lo zaino di dosso e lo appoggia contro il muro, chiedendosi se lì dov’è darà fastidio.
«Nel retro c’è una specie di giardino. Se non hai già trovato di meglio puoi piantare lì la tua tenda per stanotte, e domattina ti farò il trentacinque per cento di sconto sulla colazione» continua, assolutamente convinta dell’appetibilità della proposta.
Ryoga, ora seduto all’altro lato del bancone, è ancora zitto. «Ehi, va tutto bene?»
Lo vede scuotere la testa. «Sì» dice, «Scusa. Devo essere stanco.»
Non indaga oltre. «Hai fame? Ti preparo qualcosa.»
«Ah, aspetta» la interrompe. «Cioè, sì, vorrei mangiare. Ho una cosa per te» continua, recuperando lo zaino per rovistarci dentro. Ripesca dal fondo una serie di fogli stropicciati, li distende meglio che può e poi glieli porge. «Scusa, li conservo da un po’. Sono tutti menù» spiega, «Di vari ristoranti di okonomiyaki. Così puoi studiare la concorrenza.»
«Grandioso!» risponde, sgranando gli occhi. «Cioè, non che abbia bisogno di suggerimenti da altri cuochi, ma… Aspetta, stai dicendo che a Iriomote ci mettono dentro l’ananas
«Sì. Ma il gusto non è niente di che, se posso dirlo.»
«Come ci sei arrivato fino a Iriomote?»
«Mi piacerebbe saperlo. Però sono rimasto lì per un po’» spiega, «L’isola è carina, tutto sommato. Fa caldo. Ed è piena di gatti selvatici.»
«E senti qua? A Furano ci mettono dentro il formaggio da bere!»
«Suona strano, ma in piccole dosi nella pastella sta davvero molto bene.»
«Che roba. Non mi sarebbe mai venuto in mente di provare.»
«Il capo era uno un po’ fuori di testa, ma sapeva il fatto suo» annuisce Ryoga.
Ukyo solleva per un attimo la testa dai menù. «Il capo?»
«Sì, ho lavorato lì. Ma solo per un po’, perché poi una mattina mi ha mandato a comprare le uova e mi sono ritrovato a Hiroshima» risponde, sollevando le spalle, come a sottolineare l’inevitabilità della cosa.
Sa che non dovrebbe, eppure le viene da ridere. «E subito dopo Hiroshima sei piombato qui a Nagoya.»
«Non subito, però pare di sì. Anche se non pensavo certo di trovarci qualcuno che conosco.»
Ukyo glissa l’argomento sperando di sembrare del tutto naturale. «Quindi in questi mesi hai continuato a cucinare gli okonomiyaki» dice, sfogliando ancora i volantini che ha tra le mani.
«Sì. Cioè, no. Circa» le risponde, e per qualche strana ragione arrossisce. «Non sono molto bravo, ma ogni tanto me lo lasciavano fare.»
«Ma è fantastico!»
Ryoga diventa paonazzo, poi si gratta una guancia abbassando gli occhi. «Non è niente di che.»
«Idea! Senti qua» gli dice. «Potresti rimanere per un po’, prima di ripartire verso Nerima!»
«Io non...»
«Dai!» insiste, senza sapere bene il perché. Non ha sul serio bisogno di aiuto per mandare avanti il locale, né sta pensando di aumentare il giro d’affari a tal punto da aver bisogno di un altro cuoco. Però le secca l’idea di lasciarlo già andare via. Le secca almeno quanto potrebbe seccarle l’idea di essersi fatta sfuggire un’offerta speciale sui cavoli freschi. Forse anche di più. Insomma, le ha addirittura portato dei menù, perciò la sua dedizione al lavoro è assolutamente ammirevole. «Ovviamente ti pagherò, e puoi avere lo sconto del trentacinque per cento su ogni pasto. Anzi, venticinque. Trenta!»
Ryoga apre la bocca per dire qualcosa, ma viene subito interrotto.
«Senti, pensaci. Ok?» gli dice, tutta entusiasta. «Intanto ceniamo, e stanotte ci ragioni.»
 

 
*
 
 
Alla fine rimane davvero, anche senza darle mai una risposta vera e propria.
Si risveglia nella tenda piantata nel minuscolo cortile di Ukyo e riesce ad arrivare fino a dentro il ristorante senza perdersi. Non fa nemmeno in tempo a sedersi al bancone che la sua colazione è pronta davanti a lui.
Ukyo è raggiante, al punto tale che Ryoga non può fare a meno di chiedersi cosa l’abbia resa così felice di primo mattino, soprattutto in virtù del fatto che il ristorante è ancora chiuso e che perciò i soldi non possono essere la motivazione.
«Senti» le dice alla fine, appena riesce a infilarsi in uno dei suoi discorsi. «Sono totalmente al verde, quindi se per te va bene lo detraggo direttamente dalla paga» conclude, indicando il piatto ormai vuoto.
Ukyo si dice assolutamente d’accordo e ricomincia a parlare e parlare e parlare - non se la ricordava così loquace, e non sa cosa pensare al riguardo - ma le sembra felice, anzi, quasi più felice di prima, al punto tale che arriva a pensare fin troppo coraggiosamente di essere lui stesso la ragione di quel buonumore.
Arriva l’orario d’apertura e insieme al grembiule Ukyo indossa anche la sua migliore espressione da ristoratrice, quella serena e competente che Ryoga conosce bene e che, in quell’estate di lavori forzati che gli hanno fruttato abbastanza esperienza da permettergli di cavarsela quasi in ogni situazione, a tratti ha imparato a temere.
E ci ripensa quando è ormai sera, mentre lava le ciotole, con le mani a mollo nell’acqua calda e il ciarlare spensierato dei clienti nelle orecchie: in fondo - poco importa della sabbia che ancora infesta gli angoli della sua tenda, o del fatto che non sia più riuscito a guardare una piastra senza sentire un bruciore fantasma tra l’indice e il palmo - dai momenti che ha passato con Ukyo ha tratto solo cose buone, buone sul serio, un po’ come quell’allegria che lo riscalda ora all’idea di non essere più per strada a vagare da solo.
 
 
Il suo momento preferito della giornata rimane sempre lo stesso: quando l’ultimo cliente esce dalla porta ed è troppo tardi perché ne arrivi un altro a rimpiazzarlo. Fin da subito Ryoga riprende volentieri il suo ruolo di addetto alle pulizie mentre Ukyo rassetta le piastre e conteggia gli incassi, e immediatamente ricorda perché quell’attimo gli fosse tanto caro.
Cenano insieme, e per festeggiare quella prima sera Ukyo tira fuori da chissà dove della carne pregiata da cucinare sulla piastra. Il profumo del grasso che sfrigola sulla ghisa bollente preannuncia quello che Ryoga - complici la stanchezza, la soddisfazione e la compagnia - ricorderà per un bel po’ come uno dei migliori pasti della propria vita.
Guarda Ukyo di sottecchi mentre rigira le fettine di carne, un po’ come gli capitava di osservarla a fine giornata in un tempo che sembra già lontano una vita. È un po’ cambiata dall’ultima volta che l’ha osservata per bene: ha il viso un po’ più sottile, i capelli sono diversi - più scuri, forse, o più crespi, non lo saprebbe dire - e c’è l’ombra di una nuova ruga in verticale sulla sua fronte, proprio tra le sopracciglia, ancor più marcata ora che è concentrata.
Ci ragiona anche fissando il soffitto della sua tenda, un attimo prima di prendere sonno: è un po’ cambiata ma sembra più felice.
 
 
*
 
 
«Il marito oggi batte la fiacca, eh?»
Ryoga, nel suo primo giorno libero dopo due settimane di lavoro ininterrotto, sputa un polmone nella tazza di tè verde che stava sorseggiando.
Ukyo scoppia a ridere. Non è la prima volta che uno dei clienti cerca di saggiare il terreno riguardo l’identità del suo misterioso collaboratore, ma è di certo una delle più spassose.
«Eh, cosa vuole che le dica! Le mogli a sgobbare e gli uomini a spassarsela, è così da sempre» gli risponde, facendo sorridere anche i suoi vicini di bancone.
«Piantalo in asso e scappa con me, Ukyo!» grida un uomo in fondo alla saletta, e lei si affretta teatralmente a zittirlo piantandosi l’indice sulle labbra. «Shhh! Ci scoprirà!»
Ora tutti ridono, anche Ryoga, e lo vede fissarla come se avesse fatto una magia; così, per smorzare l’atmosfera, con la mano gli lancia un bacio volante.
Ryoga torna a seppellirsi nella tazza bollente, il viso paonazzo, come se quel gesto osceno avesse minato la sua integrità morale, e Ukyo non può fare a meno di ridere di nuovo.
 
 
«Guarda che posso chieder loro di piantarla, sai» gli dice tre giorni dopo, in un raro momento del primo pomeriggio in cui sono da soli.
Ryoga, intento a pulire le piastre dai residui bruciati, scrolla le spalle. «Non è importante.»
«Lo è, se lo consideri una seccatura» risponde, sbilanciandosi a destra per dargli uno spintone. «Magari ti sto rovinando la piazza. Nessuna ragazza ti si avvicinerà più. E chissà cosa penserà Akane!»
«Senti chi parla. Dovresti essere tu quella che si preoccupa per Ranma, piuttosto.»
Ukyo rimane immobile senza dire niente per un po’, così a lungo che avverte Ryoga sollevare lo sguardo dalle piastre. Si affretta a scrollare le spalle.
«Nah. Ran-chan non è il tipo da preoccuparsi per una cosa del genere» conclude, ma avverte chiaramente che la propria voce ha qualcosa di strano - è roca, troppo ruvida per essere credibile. «E poi è divertente, no? Lasciamoli fare» aggiunge, cercando di recuperare meglio che può.
Non sa se Ryoga si sia accorto di qualcosa, ma è bravo a lasciar correre come niente fosse. Poi entra un cliente, e il turno ricomincia.
 
 
*
 
 
Ha ragione Ukyo: quel suo nuovo ruolo di marito, in fondo, dovrebbe stargli stretto.
C’è chi direbbe che del matrimonio stia vivendo solo le costrizioni e non i benefici, eppure non c’è niente che gli dispiaccia nella routine a cui si è abituato in quelle settimane. Non lo infastidiscono più neppure i perenni graffi sui polpastrelli, mai rimarginati per il continuo uso d’acqua. Quando gli capita di trasformarsi in maialino non avverte più quel fastidioso senso di inadeguatezza, quel disagio al pensiero di non poter essere un uomo come si deve: Ukyo sospira, porta pazienza, mette a bollire dell’acqua e aspetta fino a che non è abbastanza calda, così in pochi minuti Ryoga è di nuovo un ragazzo - e quella è una bella novità, per uno come lui.
Si accorge che qualcosa sta cambiando quando un tardo pomeriggio, affettando i cavoli mentre lei pulisce il bancone, rimane con gli occhi puntati per qualche secondo di troppo sul sedere di Ukyo. Se almeno in parte può dare la colpa all’orlo della divisa incastrato sull’elastico dei pantaloni, riconosce - con non poca difficoltà - che buona parte della sua attenzione è guidata da intenzioni ben differenti. Non che la sensazione gli sia nuova (è un ragazzo e anche un maiale, in qualsiasi declinazione del termine), ma gli è nuovo il soggetto; quella reazione dovrebbe turbarlo, forse, ma è così naturale che non ha nemmeno il tempo di interrogarsi sul come e sul perché.
Così continua a guardarle il sedere senza nessun senso di colpa, grato che il locale sia ancora deserto, augurandosi con tutto il cuore che lei non lo venga mai a sapere.
 
 
Alla fine succede l’inevitabile.
Un cliente distratto - un ragazzo che viene spesso a pranzare da Ucchan nei giorni di lezione all’università - dimentica l’ombrello sul bancone, e Ryoga si precipita fuori per riportarglielo. Il tempo di fare tre passi e si è già perso.
Gli piacerebbe poter dire che, vista la sua grande esperienza in termini di ripetitività d’azione, una cosa come quella è solo una bazzecola. La verità è però che ogni volta che gli succede è come se gli si aprisse davanti un universo differente: magari i punti di riferimento ci sono, là in fondo da qualche parte, perché ottimisticamente può dire di essere stato un po’ in ogni città del Giappone ed è impossibile che nessuna zona gli risulti mai familiare. Il guaio è che il suo cervello non collega insieme i pezzi: se vede il Dōjō Tendō anche solo da un’angolazione leggermente differente da quella che la sua mente riconosce, ecco che quel posto gli risulta del tutto estraneo. (Sì, ci ha ragionato sopra un bel po’, anche se non sembra proprio il tipo, e quella è l’unica spiegazione razionale che è riuscito a trovare.)
Si guarda intorno e si chiede perché, perché proprio a lui, e come ogni volta si interroga su cos’abbia fatto di male in vita sua per meritarsi una punizione del genere e sul perché una sola maledizione non fosse già sufficiente. Insomma, tutto quel genere di domande che gli si presentano in testa ogni singola volta che non trova più la strada. In quel momento, poi, non ha nemmeno lo zaino e la tenda; oltre ai vestiti che indossa ha con sé solo il camicione da lavoro dell’Ucchan e l’ombrello scordato dal cliente.
Il mondo attorno a lui è una landa ignota e avventurarsi anche solo di un altro passo in avanti sarebbe un salto nel vuoto, così si siede lì dov’è, in mezzo a quello sconosciuto vialetto. Si consola pensando che per lo meno è piena estate e che lì a Nagoya anche le notti sono calde poco meno del giorno.
Poi rimane fermo ad aspettare.
 
 
*
 
 
Ukyo lo ritrova in un tempo incredibilmente breve, poco dopo che è sceso il buio, e nel vederla gli si stringe il cuore; un po’ perché è cosa rarissima che qualcuno si prenda addirittura la briga di andarlo a cercare, e un po’ perché sa bene che è già orario d’apertura, e che per colpa sua l’Ucchan sta perdendo clienti e soldi.
«Sei qui davvero, allora!» esclama lei, e il suo tono è meno severo di quanto Ryoga si aspettasse. «Gojo-san aveva visto bene!»
Ryoga ringrazia mentalmente Gojo-san e si ripromette di pagare la sua consumazione la prossima volta che lo vedrà al ristorante. (Anche due volte. O magari tre.)
Ukyo gli tende la mano per aiutarlo a rimettersi in piedi, ma Ryoga è fermo lì da così tanto tempo che gli sembra di non essere più capace di distendere le ginocchia. Quando finalmente riguadagna un equilibrio, per quanto instabile, e fa per lasciarla andare, Ukyo stringe più forte le sue dita.
«Sopportami fino a quando non arriviamo, o finisce che ti perdi di nuovo» gli dice, come se tenerlo per mano fosse la cosa più naturale del mondo. «Mica ti vergognerai della tua mogliettina, spero!»
Nonostante l’apparente spavalderia, però, nemmeno Ukyo è del tutto indifferente alla situazione; Ryoga lo capisce da come il suo palmo diventi sempre più caldo e sempre più sudato con il passare dei secondi, e dal passo di marcia con cui si è incamminata.
Ci sono mille cose che Ryoga potrebbe fare - fingere di aver già tenuto per mano un sacco di ragazze, ad esempio, oppure spiegarle che anche per uno come lui è tecnicamente impossibile perdersi se c’è qualcuno che lo accompagna per la via - ma l’imbarazzo che prova copre tutto il resto e in un secondo gli sale alle guance il solito rossore, così riempie quello spazio con chiacchiere di circostanza sul pomeriggio di lavoro in cui è stato assente, su Gojo-san e la sua ex-moglie, sull’ombrello che era uscito per restituire e che ancora porta legato attorno al polso.
«Grazie» riesce però a dirle, quando il cuore smette finalmente di martellargli le tempie come se fosse pronto ad uscirgli dalle orecchie. Sono quasi arrivati al ristorante, oramai; la sera è calda e tranquilla. Anche Ukyo sembra più rilassata; ora camminano fianco a fianco, le dita ancora intrecciate, quasi come fosse la normalità.
«E di che?» gli risponde, accompagnando la voce con un’alzata di spalle. «So che hai un problema, perciò ti aiuto a risolverlo. Mi pare giusto così.»
«Ricambierò il favore.»
«Ma dai. Stai già facendo un sacco.»
«Non direi.»
«Mi aiuti. E mi tieni compagnia» aggiunge, con una rapida stretta. «E prima del tuo arrivo i pavimenti non erano mai stati così lucidi. Ancora devo capire come fai.»
Le risponde canzonandola. «È un segreto di famiglia.»
Un sorriso sghembo le percorre il volto. «Allora ti lascio qui» replica, con le mani sui fianchi e il mento sdegnosamente sollevato verso l’alto.
Ryoga la segue ridendo oltre il cancello d’ingresso, prima lungo la sala del ristorante e poi più in là, nel cortile che lo ospita ormai da quasi due mesi. Ritrovare la tenda lì dove l’ha lasciata è una sensazione strana, nuova, piacevole. Ukyo ha smesso di fare l’offesa; la ritrova ferma lì ad aspettarlo, in piedi con le braccia incrociate appena fuori dalla soglia.
«Posso entrare?»
Ryoga annuisce. «Fa’ come fossi a casa tua.»
Ukyo ridacchia e s’infila nella tenda e per la prima volta - la prima in assoluto da quando la conosce - Ryoga la vede come una ragazza della sua età, spensierata e totalmente diversa dall’affarista in carriera che si sforza continuamente di rappresentare.
«Che nostalgia!» gli dice, lasciandosi cadere sulla stoffa sintetica sottile che forma il pavimento. «È ancora identica!»
«Beh» commenta lui, guardandosi intorno prima di sedersi a gambe incrociate. «È pur sempre la stessa tenda.»
«Sì. Cioè, lo so, però è come se non me l’aspettassi, ecco.»
Ryoga si allunga verso la lampada a batterie per accenderla; un chiarore caldo illumina la struttura metallica sotto i teli leggeri, facendo sembrare più profondi alcuni piccoli buchi che l’usura ha formato sul lato interno.
«Dormi ancora tutto rannicchiato su un lato?» gli chiede Ukyo. «O lo facevi solo perché c’ero io?»
«Non saprei» bofonchia lui, mentre un vago imbarazzo torna a fare capolino. «Non è che sto lì a controllarmi.»
«Ma qualcuno te l’avrà pur detto, no?»
«Non ho ospiti così spesso. E di solito mi riesce complicato fermarmi a dormire da qualche parte.»
«Ma ti sarà successo, giusto? Che so, a Nerima.»
«Probabilmente sì, ma nessuno ha mai commentato il mio modo di dormire.»
«Capisco.»
Ryoga si sistema meglio; stiracchia le gambe di fronte a sé e in quel movimento il suo stomaco borbotta, reclamando del cibo dopo ore intere di digiuno. Ukyo scatta subito a sedere.
«Ti preparo qualcosa!»
«Non se ne parla» le risponde. «Figurati se ti faccio lavorare proprio ora che il locale è chiuso. Oggi sei di riposo.»
«Di riposo» ripete lei, assorta. Sta cercando di ricordare l’ultima volta in cui ha preso una serata libera, ma è successo in un tempo così remoto che le è impossibile risalire ad una data precisa. «Potrei portarti fuori a cena.»
«Non esagerare. Basterà un ramen istantaneo.»
«Ramen istantaneo!» ripete ancora, e adesso anche il suo stomaco borbotta. «Ci sto. Il ramen istantaneo è sempre buonissimo.»
«No, non direi proprio» conclude Ryoga, rovistando nello zaino che tiene dietro il sacco a pelo. «Non posso credere che ti piaccia sul serio.»
«Perché no? È...» dice Ukyo, ma il discorso rimane in sospeso, come se non riuscisse a trovare una definizione calzante.
«È cibo buono solo per le emergenze» conclude lui, porgendole due barattoli. «Puoi scegliere tra verdure e pollo piccante.»
«Non ho mai assaggiato quello al pollo piccante. Com’è?»
«Piccante, direi.»
Ukyo ride e gli lancia indietro i barattoli. «E pollo piccante sia. Vado a prendere l’acqua calda.»
 
 
«Dai, devi ammettere che era proprio buono.»
Sono seduti fianco a fianco all’ingresso della tenda. I residui della cena - i vasetti vuoti dei ramen, un pacchetto di patatine con dentro solo briciole, due lattine di birra vuote - sono ammucchiati poco distante. Alla luce della lampada a batteria si è aggiunta anche quella azzurra della lampada scacciainsetti.
«Buono, certo. Come no» le risponde lui. «Così buono che hai subito voluto fare a cambio.»
«Ehi, non è colpa mia se era piccante!»
«Io te l’avevo detto fin dal principio.»
«Ma dai, insomma, era esageratamente piccante!» ribadisce, spintonandolo con la spalla.
«Sei una femminuccia.»
«E tu sei un maiale!»
«Ehi, e questo cosa c’entra?!» protesta, voltandosi di scatto.
Ukyo si lascia cadere all’indietro, atterrando con la schiena sul fondo del sacco a pelo. La cerata è soffice e fresca. «Niente. Non c’entra niente» gli dice, passandosi il braccio sulla fronte per coprirsi gli occhi. Sul suo viso ora sono evidenti solo le guance arrossate per il troppo alcol. «Ma quando hai detto femminuccia ho pensato a Ran-chan, e così mi è uscito quel discorso. Scusa.»
«Non è molto gentile.»
«È che ogni tanto mi torna in mente anche se non voglio. Scusa davvero.»
Ryoga risponde con un’alzata di spalle. «Sono abituato a reggere il confronto.»
«Tu sei molto meglio di lui. Non c’è nessun confronto.»
«Hai bevuto troppo» commenta, anche se sorride.
«Avrei dovuto dare della birra anche ad Akane» continua, «Così si sarebbe accorta di tutto quanto!»
«Grazie per il pensiero, ma non credo che ne sarei stato molto felice.»
«Baggianate!»
Ryoga non risponde e il discorso s’interrompe, così dopo qualche secondo cala il silenzio, riempito solo dal canto notturno delle cicale.
«Si sta proprio bene, eh?» ricomincia Ukyo. Ha di nuovo il viso scoperto e il suo sguardo è fisso su una zanzara finita in trappola. «Qui a Nagoya, intendo. È un bel posto, e la gente è simpatica. Mi è piaciuta subito.»
«Sì» conferma lui. «È un’ottima casa base. E poi ci cucinano gli okonomiyaki più buoni del Giappone.»
«Ancora più buoni di quelli di Nerima.»
«Molto più buoni di quelli di Nerima. Sarà perché la cuoca qui sembra felice.»
«Ho sentito dire che è venuta a stare qui per dimenticare il suo primo amore» bisbiglia Ukyo, e poi ridacchia. «Ma non so se sia vero.»
La notizia lo coglie impreparato, e non è mai stato bravo a reggere il gioco. «Quindi è questa la ragione?»
«Devi chiederlo alla diretta interessata. Io riferisco solo i pettegolezzi» replica lei, e tanto gli basta per capire che non caverà un ragno dal buco.
Nemmeno io sono più tornato a Nerima, vorrebbe dirle, ma l’imbarazzo gli serpeggia nello stomaco e gli chiude la bocca, così non trova di meglio da fare che radunare i rifiuti un po’ più distante, calciandoli coi piedi. Ukyo è ancora nella tenda, zitta zitta.
Al diavolo, si dice poi. «Nemmeno io sono più tornato a Nerima.»
«Beh, col tuo senso dell’orientamento non ti è mai venuto facile.»
Vorrebbe rispondere - ci prova davvero, con tutto l’impegno che ha in corpo, ma le parole giuste non gli escono - così ridacchia imbarazzato, come a scusarsi, e il discorso cade nel vuoto.
«Beh, hai fatto bene» conclude lei, dopo qualche altro secondo di silenzio. «Soprattutto perché lì adesso non c’è più nemmeno il ristorante degli okonomiyaki più buoni del Giappone.»
Stavolta ride di gusto e la guarda, ancora lì distesa sul suo sacco a pelo con le guance rosse e gli occhi lucidi, e la vede bella - non solo attraente, non solo carina, ma bella; bella nella scala in cui Akane è sempre stata la misura massima, la sola misura - ed è una sensazione nuova; all’accelerazione del suo battito cardiaco per una volta non si accompagna quella solita inquietudine, quel senso di timore e vergogna, ma rimane solo un’euforia talmente forte da dargli alla testa, e si chiede se sia effetto dell’alcol o se piuttosto dovrà abituarcisi, e si dice che in quel caso non dovrà sforzarsi poi molto.
«E ora che facciamo?» domanda Ukyo, tirandosi a sedere e interrompendo involontariamente il filo dei suoi pensieri.
Per un attimo Ryoga rimane muto e boccheggiante, come se avesse disimparato il modo in cui si articola una risposta. «Uh...»
«Credo sia abbastanza tardi. Vuoi dormire?»
«Ah, dormire, sì… cioè, non-»
«Tutto bene?» gli chiede, con un’espressione più stupita che preoccupata.
«Sì. La birra, sai» risponde, ridacchiando ancora.
Ridacchia anche lei, indicandosi una guancia. «Lo stesso anche per me!»
La guarda uscire dalla tenda con un movimento veloce e incerto, mentre china appena la testa per non picchiarla contro i montanti. «Buonanotte» gli dice, fermandosi per un secondo davanti al suo viso, sorridendo ancora.
«Buonanotte» risponde lui, col battito che di nuovo accelera e lo stomaco che si attorciglia. Sarebbe così facile sporgersi in avanti e baciarla, si dice.
Poi batte due volte le palpebre e torna in sé. Sorride. «A domani.»
 
 
*
 
 
Nelle prime settimane d’agosto il locale è più affollato che mai.
Gli universitari, che di solito monopolizzano i tavoli con le piastre più grandi durante la pausa pranzo, ora riempiono la sala anche la sera; lavorano tutti al progetto per il festival estivo, o così almeno pare di capire a Ukyo dai frammenti dei loro discorsi. I pochi posti vuoti vengono occupati dai colletti bianchi degli uffici poco distanti, intenti a discutere su come chiudere i lavori prima di poter tornare a casa per qualche giorno.
Ukyo continua a osservare Ryoga e si ritrova a pensare più di una volta che da quando c’è lui qualcosa si è trasformato, nel ritmo del lavoro così come in quello delle sue giornate: se prima procedeva marciando dritta attraverso ore scandite dai doveri prestabiliti per mandare avanti la baracca, adesso si gode invece il tempo che trascorre nel locale. Non si tratta solo di abitudine nel vivere a stretto contatto con qualcuno, no; è piuttosto che Ryoga è la persona giusta con cui vivere a stretto contatto, almeno per lei. È qualcosa di complesso da spiegare, al punto tale che non saprebbe definirlo; non è certo l’amore che ha sempre provato per Ran-chan, quello no, ma non è neppure così ingenua da dissociare del tutto quelle sensazioni da ciò che prova nello scoprirsi intenta a studiare la forma della schiena di Ryoga sotto il grembiule annodato, o a indovinare il suo cipiglio severo mentre affetta i cavoli mentre è intento a pensare chissà cosa. In assenza di risposte, e senza nemmeno cercarle, lascia passare i giorni, e ogni tanto si chiede come sarà tornare alla normalità quando lui sarà ripartito.
Arriva l’obon e Nagoya si svuota, o almeno così pare nel sentire l’improvviso silenzio dentro l’Ucchan; ma non è il primo obon che Ukyo vede passare e non sarà certo l’ultimo, e ha imparato da anni a calcolare quella flessione periodica dei clienti e il suo effetto su incassi spese, così accoglie quel periodo con calma, perfino con tranquillità, quasi come fosse una specie di vacanza.
«Certo però che a volte diventa proprio noioso» dice tra sé e sé, coi gomiti posati sul bancone. Il solo rumore che si sente dall’esterno è quello del fuurin che tintinna al vento. Un residuo di pastella sfrigola sull’unica piastra rimasta ancora accesa. «Io dico che oggi non verrà più nessuno.»
«Già» conferma Ryoga, asciugandosi le mani e la fronte. Ha i capelli tutti bagnati e Ukyo pensa che l’afa debba essere una vera seccatura per chi, come lui, non può certo usare l’acqua fredda per sciacquarsi il viso. «Vuoi che mi metta sulla soglia a distribuire volantini? L’ultima volta non è andata troppo male.»
«L’ultima volta ti ho dovuto legare la caviglia alla porta con una catenella.»
«Ah, già.»
«E poi sono già le nove, e non c’è molta gente in giro» continua. «Dai, chiudiamo e basta.»
«Chiudiamo…?» chiede Ryoga, incerto, incredulo.
«Mangiamoci un gelato!» gli risponde, improvvisamente entusiasta. «Facciamo un giro veloce, fino al conbini e ritorno.»
Lo vede esitare un momento, e s’immagina che stia ragionando sulla concreta possibilità di perdersi in quei trecento metri di strada.
«Guarda che so bene come arrivarci» aggiunge con decisione. «E se non ti fidi portiamo la catenella.»
«Non è che non mi fido» risponde Ryoga, arrossendo per chissà quale motivo.
«E allora su» dice, sciogliendo il nodo del grembiule, «Dai che si va.»
 
 
Mangiano il gelato per strada, fianco a fianco, camminando; Ukyo sa che non si dovrebbe, ma le vie sono deserte e il quartiere è silenzioso, immerso nel torpore scuro della notte appena cominciata. Un tuono borbotta lontano venando il cielo di luce bianca.
«Ehi, Ryoga» chiama. Volta appena la testa per incrociare il suo sguardo. «Che cosa farai dopo questa estate?»
È evidente che la domanda lo coglie di sorpresa. «Cosa intendi?»
«Sì, insomma» risponde, addentando la cialda del cono, «Stavi andando da qualche altra parte, prima di arrivare a Nagoya? Perché ci pensavo proprio l’altro giorno» continua. «Ti ho fatto fermare qui per un sacco di tempo. Magari avevi degli impegni.»
Ci pensa un po’, poi scuote la testa. «Nah. Girovagavo e basta.»
«Sì, ma si girovaga per andare da qualche parte, no?»
«O per tornare da qualche parte.»
«A Nerima?»
«Certo che hai proprio una fissa» risponde, ma senza lasciarle il tempo per replicare. «No, non a Nerima. Verso casa, direi.»
Si ferma d’improvviso, rimanendo due passi indietro. «Ukyo» chiama.
Si blocca anche lei, guardandolo dritto negli occhi.
«Puoi buttarmi fuori dal tuo cortile quando ti pare. So che non potrò lavorare da Ucchan per sempre, e non mi pare giusto starti sul groppone.»
«Ma dai» risponde lei, ridendo. «Non è certo questo che intendevo.»
«E cosa, allora?»
«Io sto bene così. Mi piace come vanno le cose adesso» spiega. Muove un passo in avanti e distoglie lo sguardo, perché sono frasi che non riuscirebbe a dire senza arrossire. «Mi piace averti al ristorante. Però voglio che vada bene anche a te, ecco tutto.»
Sente le dita di Ryoga stringerle il polso, come a volerla fermare. «Vorrei restare» le dice, e nel guardarlo Ukyo si stupisce di come la sua espressione sia ferma, decisa, senza traccia del sottile imbarazzo che vela ogni loro recente conversazione; paradossalmente, nel vederlo così deciso, quell’imbarazzo si fa vivo su di lei. La presa di Ryoga scorre dal polso al palmo, e ora che le loro mani si stringono il rossore torna a fare capolino sul viso di entrambi. «Sì, insomma, è un posto in cui sto bene. Come una casa.»
Ukyo percepisce distintamente il cuore che le martella in gola, così abbassa lo sguardo - peggiorando la situazione, perché ora il suo campo visivo è limitato alle loro mani intrecciate e ha tutto il tempo di chiedersi se sia reale, se stia succedendo davvero o sia piuttosto un parto del suo cervello.
«Anche…» comincia, e subito si ferma per schiarirsi la voce, perché c’è una cosa che vuole dirgli da un po’ e ci tiene a dirla bene, e se davvero esiste un momento perfetto si deve trattare per forza di quello. «Anche per me sembra di più una casa, da quando ci sei tu.»
Sente che la cima delle sue orecchie potrebbe andare a fuoco da un momento all’altro, ma non le importa; per una volta sotto l’imbarazzo c’è dell’altro, un amalgama di sollievo e risolutezza che le alleggerisce il petto, come se il più fosse fatto. Forse è quello il motivo per cui di nuovo cerca lo sguardo di Ryoga, e ritrova sul suo viso un’espressione nuova, dolce, distante dal cipiglio severo che lo contraddistingue.
Rimangono immobili per un attimo di troppo, entrambi paonazzi, fino a quando è Ukyo a prendere la parola. «Sei rosso come se avessi bevuto litri di sakè» gli dice, trattenendo una risata.
«Ma senti da che pulpito» protesta lui.
«Rosso come un bagnante rimasto sotto il sole per ore e ore.»
«Ti dico che non sono l’unico!»
«Se lo dici tu» replica Ukyo, muovendo un passo in avanti, ben attenta nel tener stretta la sua mano. Senza dargliela vinta.
«Rosso come un peperone affettato e cotto sul teppan.»
 
 
*
 
 
L’estate volge alla fine e la città si ripopola; con il ritorno dei clienti abituali e di qualche nuovo arrivato, l’Ucchan riprende il lavoro a ritmi serrati.
È l’ora di punta del pranzo quando Ryoga osserva oltrepassare la soglia una ragazza che si distingue dalla massa, nel vero senso della parola; è certo di averla già vista da qualche parte, ma non riesce ad associare il suo volto a un ricordo più preciso fino a quando non gli arriva l’eco di una risata isterica accompagnata da un turbinio di petali neri.
«Chi non muore si rivede» dice, rivolta a Ukyo, che alza appena lo sguardo dalla piastra bollente. «Ero certa che fossi tu. Il nome del locale è sempre lo stesso, no?»
«Kuno» le risponde Ukyo, a denti stretti. «Che piacere rivederti.»
«Il sentimento è reciproco.»
«E allora perché sei qui?» replica.
Ryoga non capisce cosa stia succedendo, ma s’immagina sia una questione tra donne, e ha imparato che in faccende come quella è meglio non ficcare il naso.
«Per i campionati nazionali di ginnastica ritmica-marziale, ovviamente. Ma non mi stupisce che una come te non ne sia al corrente.»
«Ancora non mi hai risposto. Perché sei qui?»
L’atmosfera nel locale è così gelida che perfino i clienti sembrano averla percepita; Ryoga li vede scambiarsi occhiate perplesse, e addirittura cercare in lui una chiave di comprensione del conflitto.
Kodachi replica con un’alzata di spalle. «Era un po’ che non mi mettevi i bastoni tra le ruote, ma non avevo capito che te ne fossi andata.»
«Mi pare di capire che il mio ruolo nella tua vita sia assolutamente centrale.»
«Non fraintendermi, la mia è solo soddisfazione. Ancora non mi sembra vero di averti sconfitta.»
«Tu non hai sconfitto proprio nessuno.»
«La tua resa equivale a una sconfitta.»
«Pensala come ti pare» tira corto Ukyo. «Non ho intenzione di farmi coinvolgere nelle tue pazzie.»
«È un gran peccato. La tua misera figura permetteva alla sottoscritta di risaltare enormemente a ogni nuovo sguardo di Ranma.»
«Lo prenderò come un complimento.»
«Non lo è affatto» replica Kodachi. «Anzi, è tutto il contrario.»
«Senti. Ti dico che è totalmente inutile. Lo sai che non è te che Ran-chan guarda.»
Dalla sala del ristorante si alza un brusio incerto - Ma stanno parlando del marito?, si sente distintamente. Ma non si chiamava Ryoga?, chiede qualcun altro - e la situazione degenera a tal punto che ormai non c’è più nessuno che stia mangiando; tutti seguono il dialogo tra le due ragazze senza batter ciglio.
«E saresti tu, allora?»
«Sai bene che sto parlando di Akane. Devi essere cieca per non essertene ancora accorta.»
«Quel maschiaccio di Akane Tendo» commenta Kodachi. «Intollerabile.»
«Non mi interessa cosa pensi di lei.»
«È intollerabile» ripete, «Che non ci sia più nessuno capace di tenere testa a quel maschiaccio di Akane Tendo, quando si tratta di Ranma.»
Io te l’avevo detto che parlavano di un altro, bisbiglia qualcuno.
Stai dicendo che quindi c’è un altro oltre al marito?, replica un tavolo poco distante.
Zitto che non riesco a sentire niente, lo rimprovera un terzo.
«Tu non capisci» continua Kodachi, facendosi d’improvviso melodrammaticamente disperata nell’abbandonarsi sul bancone con la testa tra le braccia. «Se non interveniamo, l’amore di Ranma sarà perduto per sempre!»
Poverina, commenta la solita voce, è solo una ragazza innamorata, dopotutto.
Il silenzio che cala all’improvviso è assolutamente innaturale; così inaspettato che sia Ryoga che gli altri spettatori sono ne sono colti alla sprovvista e rimangono fermi, incerti sul da farsi.
Ukyo allunga un braccio oltre il rilievo del bancone e posa una mano sulla spalla di Kodachi, scossa dai singhiozzi.
«Senti, Kodachi» le dice. «Mi dispiace per quello che stai passando, ma vedrai che prima o poi te ne farai una ragione. In quanto a me, non c’è nessun modo di farmi tornare indietro. Per me Ranma è un capitolo chiuso.»
A quella dichiarazione seguono bisbigli ancora più chiari. Oh, che sollievo, io ho sempre fatto il tifo per Ryoga!, dice uno. Magari ora si sposano sul serio, aggiunge un altro. I giovani d’oggi sono troppo precoci, vi dico, continua il terzo.
Ryoga arrossisce e spera solo che Ukyo sia troppo presa dalla sua avversaria per curarsi del resto. Decide di soprassedere anche sull’effetto che gli ha fatto quell’ultima frase di Ukyo, perché non gli sembrano né il momento né il luogo adatti per ragionarci.
I singhiozzi si fermano d’improvviso - o meglio, si trasformano rivelando l’essenza che avevano fin dal principio: Kodachi alza il viso in un ghigno di pura soddisfazione.
«Non crederai di avermi piegata alle lacrime» dice. «Per quanto ti ostini a negarlo, questo significa che ho vinto! E ora sono assolutamente certa che non ti intrometterai mai più tra me e Ranma!»
«Ti ho già detto che non sono io il tuo problema» tenta di replicare Ukyo, ma è inutile: Kodachi marcia verso la porta, guadagnando centimetro dopo centimetro con strane piroette avvolte in una pioggia di petali di rose nere. Veloce e improbabile com’era arrivata, così scompare, e il silenzio più assoluto torna a farla da padrone. Almeno fino a quando dalla folla si alza un coro da tifoseria che inneggia il nome di Ryoga, subito zittito con un’occhiataccia dal diretto interessato.
«Senti, tu ci hai capito qualcosa?» gli chiede Ukyo, sinceramente perplessa.
Ryoga prende fiato, poi scuote la testa, senza nemmeno aprir bocca.
«Oh. Bene» risponde, abbassando lo sguardo su un okonomiyaki ormai carbonizzato. «Credevo di essere diventata pazza.»
 
 
È inutile negare quanto spesso Ryoga si ritrovi a rimuginare sulle parole di Ukyo nei giorni appena successivi all’incidente con Kuno. Se da un lato quel Ranma è un capitolo chiuso apre per lui un intero nuovo ventaglio di possibilità, è altrettanto vero che non gli sembra comunque sufficiente a giustificare una mossa troppo azzardata; in realtà, a patinare tutti i suoi pensieri è solo la solita fifa di rovinare tutto, soprattutto ora che la vita con Ukyo ha raggiunto un equilibrio così solido.
Tergiversa nella realtà e si lascia andare nelle fantasie, arrivando a pensare che forse - forse - varrebbe la pena perfino di rischiare; oscilla come un pendolo tra certezza e negazione, interpretando lo stesso avvenimento e lo stesso sguardo di Ukyo ora in un modo, ora in un altro. Insomma, si strugge senza riuscire a dare un senso a ciò che sta succedendo; e se a volte gli basta guardarla, sempre più spesso vorrebbe toccarla, e tanto gli basta per autodefinirsi un maiale.
Il problema è che sa bene che le cose vanno così - è naturale, no? - eppure non ha idea di come fare a farle andare così, e soprattutto di come fare a farle andare bene. Perciò, senza niente a dargli lo slancio, rimane semplicemente senza fare niente, e il non detto continua a galleggiare lì, perenne, immobile.
 
 
È una delle prime sere d’autunno quando, da dentro la sua tenda, sente un tuono che borbotta lontano; i lampi intervallano il buio della notte, sempre più frequenti all’intensificarsi dell’odore d’ozono.
Ryoga si rigira nel sacco a pelo e cerca inutilmente di prendere sonno, e l’abbaiare insistente di un cane spaventato non lo aiuta di certo. Al sibilo del vento che gonfia la tenda si aggiungono presto mille altri suoni: un’imposta che sbatte, una lattina che rotola sull’asfalto, un ciclista che scappa a tutta velocità dalla pioggia.
Sente una voce chiamare il suo nome ed è certo di essersela sognata, almeno fino a quando non si rende conto che c’è davvero qualcuno fermo in piedi, proprio lì davanti all’ingresso.
«Che ci fai qui?» le chiede, allungandosi per aprire la cerniera della porta. Ombrello in una mano e torcia nell’altra, Ukyo ha l’aria preoccupata di chi è stato buttato giù dal letto di soprassalto.
«Pare che il tifone sia arrivato prima del previsto.»
«Ok» le risponde, ricordando di aver sentito qualcosa a riguardo tra le chiacchiere dei clienti più anziani del locale. «Grazie per avermi avvisato.»
Resta ferma impalata, perplessa. «Hai intenzione di rimanere qui?»
«E dove dovrei andare, scusa?»
«Al coperto, ovviamente!» replica, «Non vorrai farti portare via dalla bufera!»
Non sarebbe la prima volta che gli succede, ma non gli pare il caso di mettersi a spiegare tutta la storia. Abituato com’è al suo destino da vagabondo, venir trascinato qua e là dal vento sotto forma di maialino è solo una tra le più normali possibilità.
Un fulmine cade vicino, illuminando per un secondo il cortile, subito accompagnato dal fragore del tuono.
«Avanti, diamoci una mossa» lo esorta ancora.
«Ma non ce n’è bisogno. Mi è già capitato di...»
«Senti, piantala. Non vorrai farmi rimanere con l’ansia per tutta la notte» risponde Ukyo, lapidaria, tendendogli l’ombrello aperto. «Ti trasformerai e finirai chissà dove e passeranno altri mesi prima che tu riesca a tornare, quindi prendi il tuo sacco a pelo e vedi di entrare.»
Osserva il profilo di Ukyo nella penombra - il suo cipiglio deciso, le sopracciglia aggrottate - e pensa che l’ha fatta preoccupare, e non avrebbe voluto.
«Arrivo» le dice, piegando in quattro il sacco a pelo e infilandoselo sottobraccio. «Scusa.»
Ukyo alza le spalle e fa finta di niente, ma gran parte della sua tensione scompare visibilmente quando Ryoga oltrepassa finalmente la porta che dà sul cortile. «Qui sotto è pieno di spifferi» gli dice, come a volersi scusare, «Ma puoi venire di sopra, c’è una stanza con i tatami
Ryoga annuisce come se fosse salito al piano superiore già altre mille volte, quando in realtà non ci ha mai messo piede prima d’allora. La novità lo rende nervoso, ma allo stesso tempo si dà dello stupido da solo: quella in cui sta entrando è casa di Ukyo - camera di Ukyo, addirittura - ma è pur vero che hanno già dormito sotto lo stesso tetto un sacco di volte, perciò la situazione non dovrebbe turbarlo affatto.
«Puoi prendere il mio futon» gli dice. «Mi spiace, non ne ho uno di riserva.»
«Non se ne parla nemmeno. Il mio sacco a pelo andrà benissimo» replica, distendendolo poco distante dalla scala, parallelo al futon di Ukyo.
«Sei sicuro?»
«Probabilmente non sarò mai più così comodo in vita mia» le risponde, armeggiando con la cerniera per riuscire ad aprirla.
S’infilano entrambi sotto le coperte, si augurano per la seconda volta la buonanotte, spengono la luce.
È solo in quel momento che Ryoga ci ragiona sul serio, mentre cerca di prender sonno: fuori piove e lui è all’asciutto, è in un posto che ormai gli è diventato familiare, ha la pancia piena e Ukyo è lì accanto a lui. Nessuno l’aveva mai salvato da un temporale, prima d’allora. Non potrebbe davvero chiedere di meglio.
«Ukyo» chiama, con lo sguardo fisso sul soffitto basso. «Ukyo, sei sveglia?»
La sente rigirarsi nel futon. «Che c’è?»
«Ukyo» comincia, e ringrazia il buio, perché sente subito le guance scaldarsi. «Usciamo insieme.»
«Va bene, domani ti accompagno dove ti pare.»
«Ah… Ok. Ok, grazie.»
Passa qualche secondo prima che Ukyo finalmente capisca, e quando accende la luce e lo guarda è paonazza pure lei. «No, aspetta. In che senso lo intendevi?»
Potrebbe rimangiarsi tutto e far finta di niente, coprendo l’imbarazzo con una scusa, ma non ha intenzione di tornare sui propri passi proprio ora. Il rossore si estende fino alle orecchie mentre la osserva e le dice, «Tipo un appuntamento.»
Ukyo apre la bocca e resta muta per un tempo che sembra lungo una settimana. Poi esce dal futon e gattona fino al sacco a pelo, sedendosi lì vicino. Ryoga vorrebbe indietreggiare, ma la cerniera lo blocca.
«E Akane?»
«Akane?» risponde, perplesso. Poi pensa che una risposta vera e propria a riguardo non gliel’ha mai data, e che quel dubbio ha ancora il pieno diritto di esistere, per Ukyo. Non era stato lo stesso anche per lui, in fondo? «Akane è un capitolo chiuso» risponde quindi, facendole involontariamente il verso.
Armeggia con la cerniera - non gli pare proprio il momento giusto per rimanere incastrato nel sacco a pelo, ma proprio non c’è verso di farla collaborare - e così, liberandosi in qualche modo per riuscire a mettersi seduto, per poco non si perde il sorriso che si dipinge sul viso di Ukyo; Ukyo che gli si avvicina e lo bacia per prima, senza incertezze, e che gli sembra bella e felice ancor più del giorno in cui è arrivato lì, e stavolta si dice che una parte di quella felicità dev’essere opera sua per davvero. Basta quel pensiero a fargli battere più veloce il cuore. Quando le loro bocche si staccano è lui a spingersi in avanti e baciarla, catturando con la mano i suoi capelli, e sente la faccia andare in fiamme quando avverte le braccia di Ukyo cingergli le spalle - e si chiede come farà ad uscire vivo da quella situazione, sul serio, perché sembra proprio uno di quei momenti idilliaci che vengono interrotti subito da un camion che sfonda il muro, da un terremoto, o anche solo da una secchiata d’acqua fredda.
Invece non succede niente, proprio niente: la pioggia continua a cadere fitta, la luce della lampada sfarfalla nel buio, la pelle di Ukyo è sempre più calda e Ryoga alla fine smette di pensare alla propria inadeguatezza; si perde sulle sue labbra, e tanto gli basta.
 
 
*
 
 
«Che tempaccio.»
Ryoga solleva lo sguardo dalla ciotola di riso; si è svegliato per primo - o forse sarebbe meglio dire che ha dormito ben poco - così ne ha approfittato per preparare la colazione. «Beh, c’è pur sempre un allarme tifone in corso» risponde.
«Uffa» commenta lei, «Uffa.»
Fuori la pioggia cade ancora fitta fitta. La porta è spalancata; la tenda ondeggia al vento, lasciando intravedere il rivolo d’acqua che cade dalla tettoia. L’Ucchan è ancora deserto. «Vedrai che i clienti arriveranno lo stesso.»
«Non è per quello» replica, arrossendo.
Ryoga finalmente capisce, ma combatte sul nascere la familiare vampa che tenta di salire al viso. «Ti porterò fuori a cena in uno di quei locali europei. Uno di quelli con i menù illeggibili e gli ingredienti più strani. Ci sono entrato per sbaglio una volta, a Sapporo.»
Ukyo sorride. «Andremo fino a Sapporo?»
«Ci vorrà giusto un secondo. Lascia fare a me.»
«Mi fido» gli risponde, riprendendo posto sullo sgabello accanto al suo. «Certo che hai scelto proprio un posto di gran classe. Ti credevo più un tipo da pic-nic.»
«Quello lo tenevo in serbo per il secondo appuntamento.»
«Credevo di dover essere io a invitarti al secondo.»
«Beh, per il terzo, allora.»
«E se ti avessi proposto io il pic-nic? Ti avrei rubato l’idea.»
«Mi sarei offeso e non ti avrei mai più invitato a uscire.»
«Per fortuna abbiamo avuto questa conversazione, allora» risponde, sbirciandolo di sottecchi prima di cominciare a ridere. «Non si può considerare ufficiale senza almeno tre appuntamenti, no?»
«Cos’è, una moda di Nagoya? Io ricordavo diversamente» replica, reggendole il gioco.
«Eh già. Qui funziona così» dice, baciandogli la guancia.
Fa per ricambiare il bacio, ma non gliene resta il tempo. «Benvenuto» dice, accogliendo un cliente che ha appena varcato la soglia. Riconosce il signor Gojo-san, e calcola che ancora gli deve una consumazione gratuita.
«Si accomodi dove preferisce, Gojo-san» lo invita Ukyo, precipitandosi all’altro lato del bancone. «Cosa le preparo oggi?»
Ryoga guarda l’Ucchan, quell’ambiente ormai inconfondibile, e per la prima volta ha la certezza che riuscirà a ritrovarlo, costi quel che costi, anche se dovesse perdersi all’altro capo del mondo. Non sa se sarà effettivamente così, e non ha fretta di testarlo, ma ha la chiara sensazione che ciò che pensa corrisponda alla verità.
Poi guarda Ukyo, ancora indaffarata nell’accendere la piastra, e si dice che per sicurezza questa volta sarà lui a prenderla per mano.
   
 
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