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Autore: Novizia_Ood    27/12/2017    9 recensioni
"Sherlock stava giocando anche con la sua di vita.
Ogni volta che si metteva in pericolo.
Ogni volta che usciva di corsa senza di lui, armato.
Ogni volta che lo lasciava indietro.
Quante altre volte lo avrebbe trovato così di ritorno dal lavoro?
Quante altre volte John sarebbe stato pronto a sopportare?
John avrebbe sopportato tutto, all’infinito, per lui.
Ed era esattamente per quello che doveva smettere di farlo, all’istante."
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John torna a casa dopo una giornata di lavoro veramente pesante e trova Sherlock sul divano con la pistola puntata alla testa... non sarà assolutamente contento di ciò.
Fanfiction realizzata per il Secret Santa dell'Aspettando Sherlock (https://www.facebook.com/groups/366635016782488/)
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Al mio Sherlock, 
che mi ha permesso di tornare a scrivere in un blocco d'ispirazione totale.


 

Hurricane

 

John, torna a casa. -SH

 

Per favore. -SH

 

Ho bisogno di te. -SH

 

Erano due settimane che John non si faceva vedere.

Due settimane che non tornava a casa.

E tutto per colpa sua.

 

Il medico era tornato a casa, dopo una giornata molto pesante in ambulatorio, e aveva sorpreso Sherlock disteso sul divano come sempre - piedi nudi e ancora in pigiama - con una pistola tra le mani e la canna poggiata pigramente sulla tempia.

Se durante l’ingresso in casa il suo viso era visibilmente stanco, non appena lo vide si tese con una nuova espressione: la rabbia.

“Che cosa stai facendo?” Il suo tono aveva già cambiato sfumatura dal suo saluto iniziale prima di entrare. John rimase paralizzato sull’uscio della porta, con immagini agghiaccianti di sangue e morte proiettate davanti ai propri occhi da un’immaginazione fin troppo inquinata dalla violenza.

“Mi annoio,” aveva risposto Sherlock con voce trascinata, mentre roteava appena il polso che pareva volesse scavare la tempia con la canna della pistola.

A quella risposta il viso di John parve indurirsi ancora di più.

Con tre grandi falcate raggiunse il detective, con un affanno come se avesse appena concluso una maratona, e con un gesto veloce e deciso, gli strappò l’arma dalla mano senza che l’altro opponesse alcuna resistenza.

“Ti annoi. E ti sembra anche solo lontanamente una scusa questa? - Fece una pausa, passandosi una mano sul viso e provando a calmare il proprio respiro. - Ti annoi e quindi hai pensato bene di metterti a giocare con la tua vita. Chiaro.” Era un argomento così delicato quello del suicidio per John. Quante volte, prima di incontrarlo, aveva temuto di non arrivare nemmeno a fine giornata? Accettare una vita da civile per lui non era mai stato così semplice. Almeno prima di incontrare Sherlock. E questo il detective chiaramente non poteva saperlo, ma ciò bastò comunque ad innescare nel medico una serie di ricordi non troppo piacevoli e di sensazioni non troppo sconosciute.

“Se fossi tornato e mi avessi trovato drogato, sarebbe stato meglio?” Con uno sbadiglio Sherlock pose quella domanda, poi si raggomitolò su un fianco, avvolto il più possibile nella propria vestaglia blu. John poggiò con poca grazia la pistola sul tavolo prima di estrarre il caricatore e poggiarlo il più lontano possibile dall’arma, come se quella distanza potesse evitare che si ricongiungessero volontariamente per sparare, poi si appoggiò alla superficie con una mano, l’altra puntata sul fianco, e l’espressione ancora severa dipinta in viso.

“Ti diverti così tanto a giocare con la tua vita?” Domandò mordendosi nervosamente più volte il labbro inferiore e con un sorriso poco divertito sulle labbra. Sembrava stesse per esplodere da un momento all’altro e la sua postura allarmò non poco Sherlock che rispose semplicemente raggomitolandosi ancora, allontanando il più possibile il proprio sguardo da quello furioso dell’altro.

Non rispose.

“Devi smetterla.” Disse John d’un tratto a bassa voce, scuotendo la testa. “Devi smetterla, Cristo, Sherlock!” Urlò questa volta e il detective sobbalzò appena.

Il corpo e la mente del medico erano visibilmente in piena tempesta; c’era qualcosa che lo disturbava profondamente ed era come se le parole che avrebbe tanto voluto dire fossero incastrate tra la gola e le labbra, incapaci di venir fuori.
Sherlock lo guardò lottare contro se stesso per qualche istante prima di spostare lo sguardo ancora una volta.

Lui aveva sempre giocato con la propria vita, era vero e questo John ormai lo sapeva sin dal primo giorno in cui l’aveva incontrato. Quale idiota avrebbe rischiato di morire pur di provare a se stesso di avere ragione? Il problema però veniva ora: aveva rischiato la sua vita quella prima volta e l’aveva rischiata l’ultima volta faccia a faccia con Jim Moriarty.

L’avevano rischiata insieme, eppure, giorno dopo giorno, John cominciava a sentirsi sempre più esposto alla paura per Sherlock.

Se il detective seguiva una traccia da solo senza comprenderlo nelle ricerche, lui cominciava a diventare irrequieto e si sforzava con tutto se stesso di seguire i monologhi del detective per restare al passo e magari poter rispondere “sì, ci ero arrivato!” e anticiparlo nell’uscire di casa.

E invece no.

John seguiva sempre i suoi passi o alcune volte restava indietro, sentendosi sempre più esposto.

Carne fresca, senza pelle a ricoprirla.

Provavano a soffocare Sherlock e John sentiva mancare l’aria nei propri polmoni; puntavano un cecchino sulla fronte di Sherlock e John sentiva il calore della lucina rossa su di sé; mettevano Sherlock ko e il cervello di John smetteva per un secondo di funzionare, prima di riprendere con difficoltà l’attività normale, ritrovandosi però ad aver già reagito d’istinto al pericolo imminente.

E se Sherlock giocava con la propria vita…

Il medico chiuse gli occhi e scosse la testa per un attimo, due dita a mantenere il ponte del naso, mentre con tutto se stesso provava a respingere quei sentimenti e quell’ansia mescolata al nervosismo.

Sherlock stava giocando anche con la sua di vita.

Ogni volta che si metteva in pericolo.

Ogni volta che usciva di corsa senza di lui, armato.

Ogni volta che lo lasciava indietro.

Quante altre volte lo avrebbe trovato così di ritorno dal lavoro?

Quante altre volte John sarebbe stato pronto a sopportare?

John avrebbe sopportato tutto, all’infinito, per lui.

Ed era esattamente per quello che doveva smettere di farlo, all’istante.

“Anzi, no, sai che ti dico?” Cominciò posando di nuovo lo sguardo sul suo coinquilino, mani sui fianchi e espressione aggressiva disegnata sul volto. “Resta pure qui con la tua pistola, tutti soli. Tu e la tua vita.” Disse in fine allargando le braccia, prima di riaprire la porta di casa. “Mi sono stancato.” Poi la richiuse dietro di sé sbattendola.

Sherlock chiuse gli occhi sospirando prima di voltarsi dall’altra parte.

Si era sempre chiesto quanto tempo ci avrebbe messo John Watson a lasciarlo, ad allontanarsi, a stancarsi.

Ora lo sapeva.

 

John aveva passato le ultime due settimane a lavorare a tempo pieno in ambulatorio, qualsiasi cosa pur di non occupare eccessivamente casa di Mike che, gentilmente, gli aveva offerto il proprio divano dopo avergli spiegato tutta la situazione.

Lui era convinto che sarebbe stata solo una lite passeggera e per questo lo fece desistere dal prenotarsi una stanza d’albergo, ma giorno dopo giorno John si sentiva sempre più in colpa. Non se la sentiva di ritornare da Sherlock, non quando era ancora paralizzato dal ricordo di quella paura che lo aveva assalito tutto in una volta.

Ammettere che la propria vita dipendesse da qualcun altro era qualcosa di cui preoccuparsi? Era qualcosa che meritava più di un giorno per essere metabolizzata?

John sospirò dietro la propria scrivania, entrambe le mani sulla faccia e i gomiti posati sul tappetino morbido dov’era appoggiato il computer.

Era da quella sera che John continuava a farsi domande sul rapporto con Sherlock e nel momento della risposta conclusiva, si tirava sempre indietro. Sospirava e tornava a fare ciò che stava facendo prima di bloccare qualsiasi cosa per pensare.

Era ancora troppo presto giungere a certe conclusioni.

Dopo un anno e mezzo di convivenza, John Watson lo trovava ancora troppo difficile.

Se avesse risposto a quell’ultima domanda, sinceramente, cosa sarebbe successo? Sarebbe tornato indietro, l’avrebbe stretto e fatto suo? No, più probabilmente avrebbe firmato la propria condanna ad una vita perennemente in pericolo, perennemente sul filo del rasoio, perennemente a raccogliere briciole d’amore che gli avrebbe lasciato involontariamente Sherlock.

E non era abbastanza.

 

John, torna a casa. -SH

 

Osservò il messaggio lampeggiare sul proprio cellulare per qualche secondo prima che lo schermo si oscurasse nuovamente.

La prima settimana Sherlock lo aveva riempito di messaggi normali, come se dovesse tornare a casa da un momento all’altro.

Ma non era tornato né il giorno dopo, né quello a seguire per due settimane.

 

Per favore. -SH

 

Lo schermo si illuminò ancora e a quelle parole il cuore di John si strinse un po’.

Era sempre così maledettamente difficile dire di no a quell’uomo e non sapeva se fosse perché sapesse perfettamente quali tasti premere con tutti o se fosse colpa sua e di qualsiasi cosa provasse nei suoi confronti.

“Maledetto Sherlock,” imprecò battendo piano un pugno sulla scrivania e respirando pesantemente attraverso le narici, una mano a mantenersi la testa.

 

Ho bisogno di te. -SH

 

Quella volta il messaggio lo colpì forte, più degli altri precedenti.

Aveva bisogno di lui… per un caso probabilmente. O peggio, magari lo aveva detto proprio perché sapeva dove premere di più.

John aveva bisogno di Sherlock, questo lo aveva capito molto tempo prima, forse per l’adrenalina, forse per un’amicizia che non aveva da moltissimo tempo o forse per qualcosa di completamente nuovo, qualcosa che andava oltre tutto ciò che aveva già pensato, ma che non poteva ancora nominare.

Sherlock aveva veramente bisogno di lui?

 

Sto arrivando. -SH

 

Quando il suo cellulare vibrò di nuovo, John rimase a fissarlo per qualche secondo corrugando la fronte senza sapere bene di cosa stesse parlando. Che avesse sbagliato ad inviare? Che si stesse dirigendo su una scena del crimine dove Greg l’aveva appena chiamato? Non aveva così tanto bisogno di lui a quanto pare.

Sospirò di nuovo, scuotendo la testa e alzandosi dalla propria sedia che, per quanto comoda, dopo dieci ore di lavoro, cominciava a dare fastidio al fondoschiena.

Erano le 18:38 quando la porta del suo studio si spalancò velocemente.

John si voltò verso i due intrusi mentre stava per sfilarsi il camice e li vide chiaramente: Sarah manteneva Sherlock per un braccio chiedendogli di attendere gentilmente fuori un attimo e Sherlock che in tutta risposta provava a sfilarsi la mano della donna da dosso continuando a ripetere “lasci fare a me”.

Poi si voltò verso l’interno della stanza.

“John,” chiamò solo e il medico sentì il proprio nome pronunciato da quella voce dopo settimane di silenzi.

Gli parve di sciogliersi all’istante e per un attimo si domandò quale forza lo tenesse ancora insieme, permettendogli di non frantumarsi in mille pezzi proprio davanti a lui.

“Mi dispiace, John, ho provato a-” cominciò Sarah scuotendo la testa, ma Sherlock la interruppe facendo un passo verso l’altro per farsi guardare.

“No, dovrei essere io a dire che mi dispiace, John.” Sherlock gli era ormai davanti, tanto da non riuscire più a vedere l’infermiera ancora sulla porta. John sospirò e si spostò di qualche passò per guardarla.

“È tutto a posto, Sarah. Non preoccuparti, stavo comunque andando via. Dacci due minuti.” Disse prima di vederla annuire e richiudere la porta, poi tornò su Sherlock.

Sospirando si avvicinò alla propria scrivania e vi si appoggiò incrociando le braccia.

Quando il silenzio calò nella stanza, né Sherlock né John ebbero immediatamente il coraggio di prendere la parola: il primo perché aveva paura di dire o fare qualcosa che potesse di nuovo allontanare John; il secondo perché temeva potesse semplicemente accettare qualsiasi tipo di scuse da parte dell’altro pur di tornare a casa con lui.

“John-”

“Sher-”

Dissero all’unisono, interrompendosi poi entrambi imbarazzati.

Sherlock alzò lo sguardo su di lui, trovandolo con il capo basso e una mano dietro la nuca. Il detective non seppe dire se John fosse sollevato o meno di vederlo e per un attimo ebbe paura della risposta a quella domanda.

“Mi dispiace.” Si affrettò a dire, prima che l’altro potesse aggiungere qualsiasi altra cosa. “Qualsiasi cosa io abbia fatto, mi dispiace.” Aggiunse alzando entrambe le mani nella direzione di John, facendo qualche passo verso di lui.

E a John andava disperatamente bene quella scusa; ogni fibra del suo corpo avrebbe voluto liquidare il tutto con una semplice stretta di mano - forse anche qualcosa in più - e tornare finalmente a casa, ma una parte di lui sapeva che qualcosa non andava bene, sapeva di essere arrivato ad un punto di non ritorno e che tirarsi indietro in quel momento sarebbe stato meglio che pagarne le conseguenze dopo.

Ma sarebbe stato davvero in grado di accettare di vivere una vita senza Sherlock?

Alzò gli occhi su di lui, triste e spaesato a causa dei propri sentimenti e delle emozioni che non riusciva a tenere a bada.

Qualsiasi cosa tu abbia fatto? Non hai la minima idea di cosa mi abbia fatto arrabbiare così?” Chiese corrugando la fronte incredulo. Non poteva credere che il grande Sherlock Holmes fosse stato cieco davanti a quel particolare che tanto piccolo non era.

Il detective aprì la bocca per rispondere, ma poi la richiuse poco dopo, incerto su cosa dovesse dire; come se ad un’interrogazione si fosse reso conto qualche secondo prima di rispondere, che ciò che stava per dire era una grande scemenza.

“Tu non lo sai,” rispose John al posto suo, senza staccare gli occhi dal suo viso che vedeva cambiare ad ogni parola. Ora era leggermente arrossato, forse per l’imbarazzo d’aver sbagliato. “Come puoi non saperlo?” Chiese esasperato.

Erano passate due settimane e davvero non ci era arrivato? John si chiese prima di tutto se avesse riflettuto su quanto accaduto o se avesse semplicemente fatto finta che nulla fosse accaduto. Sherlock rimase ancora in silenzio. “Ci hai pensato, almeno? Hai usato almeno un minuto del tuo preziosissimo tem-”

“Tutta la settimana!” Esclamò all’improvviso l’altro, interrompendolo, con un tono più arrabbiato di ciò che pensava. Non avrebbe mai voluto far trasparire la sua frustrazione in quel momento. “Ci ho pensato tutta la settimana e nei giorni precedenti quando hai cominciato a non tornare più a casa.” Fece una pausa per prendere un respiro profondo e in quello spazio John s’inserì velocemente.

“E tuo vuoi farmi credere che in tutto questo tempo davvero non ci sei arrivato? Il grande Sherlock Holmes che risolve casi in meno di 24 ore quando la fretta lo richiede, che non riesce a capire perché il suo coinquilino si è arrabbiato.” Per un attimo si sentì infinitamente preso in giro e la sua espressione tornò quella triste di poco prima.

Doveva significare così poco per lui? Sospirò. Chiaramente quello squilibrio tra di loro non lo rassicurava per niente.

“In mia difesa, vorrei dire che tu sei solito arrabbiarti per moltissime cose,” cominciò Sherlock cambiando radicalmente espressione. John sbuffò dal naso alzando gli occhi al cielo, ma il detective riprese a parlare prima che l’altro potesse aggiungere qualsiasi cosa. “È vero. Ti arrabbi quando non mangio, quando non dormo, quando accetto casi troppo pericolosi, quando faccio esperimenti in casa, quando seguo casi che durano troppo tempo o quando mi faccio prendere troppo nell’inseguimento di qualche malvivente. O quando-”

“Penso tu sia abbastanza intelligente da collegare tutto ciò.” Lo interruppe John, incrociando le braccia al petto e staccandosi finalmente dalla scrivania, restando in piedi a qualche metro da lui. Sherlock lo scrutò per qualche secondo, sperando di dedurre qualcosa in più dalla sua postura, dalla sua espressione. Sicuramente moriva dalla voglia di urlargli qualcosa in faccia, qualcosa che lui non riusciva a vedere o non riusciva ad ammettere.

Dalla sua parte, John sperava che fosse Sherlock a rispondere a tutte quelle domande; sperava che potesse dedurlo, arrivando a capire i suoi sentimenti e a sbatterglieli in faccia senza preoccuparsi di nulla, come faceva sempre con tutti i suoi clienti.

Una volta davanti a quelle verità, John non avrebbe potuto girare la testa e guardare altrove, perché Sherlock lo avrebbe costretto ad osservare l’evidenza una volta e per tutte, ma il detective stava rendendo tutto così difficile… avrebbe dovuto dire tutto lui? Avrebbe dovuto avere lui il coraggio di tradurre tutto in parole?

Sherlock sospirò abbassando lo sguardo, sconfitto e frustrato ancora di più da ciò che non riusciva a cogliere. Eppure aveva la sensazione d’aver tutto sotto il naso.

“Mi preoccupo per te, costantemente.” Soffiò John tra le labbra e nel momento in cui quelle parole uscirono dalla sua bocca, quelle di Mycroft durante il primo incontro gli risuonarono nella mente. “N-non come si preoccuperebbe tuo fratello per te.” Aggiunse velocemente, improvvisamente imbarazzato.

“Mio fratello?” L’espressione di Sherlock si dipinse di pura confusione. “Mycroft non si preoccupa per me, è solo costantemente attento a rendermi la vita un inferno.” Puntualizzò infilando le mani nel cappotto. Chiaramente Sherlock non aveva idea a cosa si stesse riferendo, perché quella conversazione era avvenuta segretamente tra il medico e Mycroft, ma John sentì ugualmente l’urgenza di sottolinearlo.

“Il punto è che sono costantemente in pensiero per te.” E Sherlock in quel momento giurò di poter sentire il cuore di John battere più veloce. L’aria si era fatta più pesante e ogni parola tra di loro restava sospesa nella speranza che uno dei due le recepisse veramente.

Sherlock ci aveva pensato così tanto a cosa avesse potuto turbare il medico in quel modo e aveva immaginato qualsiasi scenario possibile, ma non quello. Ecco perché si era bloccato senza trovare soluzione. John… ci teneva a lui? E in che modo? A quel pensiero fu il cuore di Sherlock ad accelerare.

“Perché?” Domandò, non contento di quella risposta. Era a lui che serviva una mano per notare l’ovvio questa volta, ma John si limitò a sospirare senza parlare per qualche secondo.

“Ho pensato a qualsiasi cosa, davvero.” Si affrettò ad aggiungere Sherlock e a quelle parole il medico sorrise amaramente.

“Una volta eliminato l'impossibile ciò che rimane, per quanto improbabile, dev'essere la verità.” Citò John alzando lo sguardo su di lui e questa volta fu il turno di Sherlock di restare completamente in silenzio. “Quanti cerotti?” Domandò all’improvviso il medico, sciogliendo finalmente il nodo di braccia che aveva sul petto. Man mano che si liberava di parole e pensieri il suo corpo diventava più aperto, più rilassato, Sherlock lo notò immediatamente e ciò non poté che sollevarlo, per quanto stessero ancora discutendo.

“Come?!” Chiese senza capire.

“Quanti cerotti. Il mio caso, da quanti cerotti è?” Spiegò meglio, questa volta accennando addirittura ad un sorriso e a quel punto Sherlock cominciò a sbottonarsi il polsino della camicia bianca che indossava sotto la giacca. Non appena fu libero, mostrò i quattro cerotti disposti dal polso in sù in modo disordinato. John fece schioccare distrattamente la lingua sotto il palato nell’osservarlo.

“Pochi. I casi più difficili ne hanno almeno 7.” Commentò con espressione un po’ delusa rialzando gli occhi in quelli di Sherlock che non lo avevano lasciato nemmeno per un attimo. Senza aggiungere nulla, il detective passò a sbottonarsi il polsino sinistro, lasciando John senza parole non appena scoprì gli altri cinque cerotti sull’altro braccio.

“Oh.” Quella che era una cosa sulla quale riflettere. Possibile che per Sherlock lui fosse da ben 9 cerotti? Lo aveva davvero messo così in difficoltà?

“E sei sempre così,” lo informò con un tono frustrato il detective mentre si riallacciava entrambi i bottoni e sistemava nuovamente le maniche della giacca alla loro lunghezza naturale, ingombrato un po’ dalla presenza del cappotto. “Qualsiasi cosa tu faccia o tu dica, sei sempre da nove cerotti o di più!” Ed era vero, mai parole rivolte al suo coinquilino furono più sincere, ed era esattamente per questo che spesso e volentieri Sherlock non restava a riflettere su di lui per più di qualche ora. Cominciava a perdersi tra immaginazione e avvenimenti improbabili, cose che Sherlock avrebbe voluto vedere con i propri occhi a qualsiasi costo, ma paralizzato dalla consapevolezza che mai avrebbe potuto chiedere a John di assecondare certi suoi desideri, non in quel modo almeno. Molte volte Sherlock si era ritrovato sul divano ad insultarsi mentalmente perché no, era troppo impossibile che John lo avesse guardato con una strana luce negli occhi, tra ammirazione e amore… possibile? Che idiozia! John era affascinato da ciò che faceva, come salvava vite e basta. Eppure, a volte, era così difficile decifrare i suoi comportamenti…

“Sei parecchio frustrante.” Disse in fine Sherlock, con il viso rosso per l’imbarazzo e per lo sforzo di restare fermo sul posto. Avrebbe tanto voluto raggiungerlo e scuoterlo finché non avesse ricevuto le risposte che cercava alle proprie domande. Era un maledetto enigma.

“Ah io sarei frustrante, giusto.” Cantilenò John in risposta, le mani nuovamente sui fianchi, era pronto a rispondere da un momento all’altro. Sherlock aveva la minima idea di cosa era costretto a patire lui da un anno e mezzo a quella parte?

“Sì, tu.” Rispose con tono fermo Sherlock facendo un passo in più verso di lui e John si ritrovò a scuotere la testa.

“Lo capisci che, se mi preoccupo per te, vuol dire che sono in pensiero per te? Vuol dire che sono preoccupato se ti succede qualcosa? Sai cosa vuol dire essere preoccupato per qualcuno o come concetto anche questo ti è completamente sconosciuto?” Le voci di entrambi ormai avevano superato il tono basso e cercavano di farsi sentire il più possibile, probabilmente anche fuori dallo studio dove Sarah era seduta dietro il bancone facendo finta di non ascoltare nemmeno una parola.

“Sì, so che vuol dire, non ho bisogno che qualcuno me lo insegni, grazie.” Rispose acido. Era incredibile come si sentisse trascinato davanti a quel tribunale immaginario probabilmente allestito da Mycroft sin da quanto aveva solo 5 anni. Era un pensatore piuttosto veloce e ogniqualvolta qualcuno lo metteva davanti ai propri limiti con così tanta saccenteria era difficile da accettare.

“E allora perché non capisci cosa voglia dire per me?” Chiese alzando la voce e posando una mano sul proprio petto. Era veramente così incapace di mettersi nei panni degli altri? Sherlock rimase in silenzio sospirando rumorosamente. “Significa che sono preoccupato per te, per la tua vita. Significa che spero con tutto il cuore che non ti capiti nulla e che ho paura che possa succederti qualcosa!” Esclamò alla fine, dopo aver percorso almeno un altro metro verso il suo amico e essere arrivato ormai davanti a lui. Sherlock lo squadrò due volte prima di parlare, ma John lo interruppe di nuovo. “Significa che quando torno a casa e ti vedo come un idiota a puntarti armi da fuoco addosso solo perché sei annoiato, mi arrabbio. E anche molto.” Concluse serrando la mandibola e riducendo le labbra ad una linea sottile.

“Non sono certo la damigella da salvare in questa storia.”

“Ovviamente non lo sei, ma io mi preoccupo lo stesso.”

“Allora non farlo!” Urlò Sherlock esasperato più di prima.

“Oh come se non ci avessi provato, certo, è un interruttore che si spegne e si accende quando lo voglio io.” Continuò John arrivando a qualche centimetro dalla faccia dell’altro. “Sono andato via per due settimane, ci ho provato a non fregarmene niente di te e guarda dove sono arrivato: con te che mi mandi messaggi in cui mi dici che hai bisogno di me pur di farmi tornare!” A quelle parole Sherlock rimase immobile per un attimo. Non era certo lui l’unico cieco in quella stanza.

“Pensi che lo abbia detto solo per farti tornare?” Si sentì offeso per un secondo, ma quello dopo capì immediatamente di non poterlo biasimare. Aveva mai dato possibilità di credere che le preoccupazioni di John fossero ricambiate anche da lui nei suoi confronti? Per lui era così ovvio, ma evidentemente per l’altro no.

“E per cos’altro?” Domandò a voce alta con una risata a metà tra lo sprezzante e lo scettico.

“Perché, forse, è vero?” John rimase a guardarlo immobile. Il suo cervello stava probabilmente cercando di metabolizzare la sua risposta. Anche per Sherlock era difficile accettare d’averlo ammesso.

“Certo, per i casi, ma-”

“No, John. Non solo per i casi!” E finalmente il medico sembrò non trovare più nessuna parola da dire per ribattere. “Per tutto il resto.”

“Ah come se per te ci fosse altro.” Sussurrò John, poi scosse la testa portandosi una mano in viso mentre sospirava. La prima conversazione che ebbero riguardo alle relazioni ancora lo tormentava ogni volta che si concedeva di indugiare su quelle riflessioni; ogni volta, arrivato alla domanda finale che avrebbe dovuto chiudere il cerchio (“cosa provi per Sherlock?”) John non faceva che rivivere quella scena finché non desisteva dal rifletterci, lasciando il tutto ancora irrisolto.

“C’è altro, ci sei tu adesso.” Disse indicandolo con tutte e due le braccia.

“Giusto, ora conto qualcosa.”

“Hai sempre contato qual-”

“Certo, quando tre settimane fa hai testato su te stesso la velocità di quel veleno? Contavo qualcosa lì? O quando durante il caso dei Martens ti sei lanciato tra le macchine in corsa per beccare quel Mark in fuga?” John aveva assunto un colorito rosso quasi quanto la moquette nel suo studio e Sherlock non riuscì a far altro che rimanere in silenzio mentre la cascata di parole sfociava in quella conversazione che il medico aveva tenuto per sé chissà quante volte. “Forse anche quando ti sei lanciato addosso a quel rapinatore armato e non avevi nemmeno avvisato la squadra di Lestrade!” Esclamò con le mani ormai alla testa mentre il volume della sua voce si alzava di nuovo. Quel bicchiere che si era rovesciato due settimane fa ora stava prendendo finalmente forma anche davanti agli occhi di Sherlock. “Quand’è che conto per te? Perché ogni volta che fai queste stronzate pare che a me non ci pensi affatto e invece dovresti, Sherlock!” Terminò con il fiato corto. Il cuore gli martellava nel petto talmente forte che temeva Sherlock potesse sentirlo battere. Abbassò gli occhi sulle proprie scarpe e sospirò. Come ci era arrivato a quel punto?

“Ma a te cosa importa?! Non è un problema tuo quello che faccio!” Esclamò l’altro in risposta, esasperato allo stesso livello. Certo, John non si era arrabbiato per cose molto più gravi di quella, ma per qualche motivo quel gesto sembrava averlo portato ad un punto massimo di sopportazione e il detective non riusciva proprio a ricomporre quel puzzle che sembrava fatto di pezzi a caso.

“Sì che lo è, perché io-” disse prima d’interrompersi bruscamente e chiudendo di nuovo la bocca con un solo movimento. Si morse l’interno della guancia per non continuare a parlare, ma Sherlock, con un tono alto quanto il suo, lo provocò spingendolo a concludere quella maledetta frase.

“Tu cosa?!”

“Io provo dei sentimenti per te.” Sputò fuori all’improvviso prima di zittirsi nuovamente. Lo aveva detto davvero? “I-io non ce la faccio più a sopportare tutto questo e-e non credo che riuscirei a farlo ancora.” La voce gli tremò appena. Stava facendo davvero quel discorso alla persona che meno avrebbe capito tutto ciò? E se invece avesse capito? Magari anche prima di lui. John sospirò portando nuovamente le mani sui fianchi. Sì, quel discorso lo stava facendo e tanto valeva essere chiari. Sherlock sembrava rimandargli uno sguardo carico di…  carico di cosa? John non riusciva a capirlo, pareva stesse per esplodere anche lui. Magari avrebbero ricominciato ad urlarsi addosso; magari Sherlock non avrebbe capito e lui avrebbe fatto la solita povera figura da sentimentale, ma ora poco gli interessava. “Non ce la farei a tornare a casa e a trovarti così, a seguirti nei casi e a vedere che ti comporti come se non valessi niente per nessuno oppure a-”

Sherlock era effettivamente esploso. Aveva percorso il poco spazio che li divideva con una falcata, lasciando che il proprio cappotto svolazzasse dietro di lui seguendo i suoi passi veloci, arrivando ad afferrare il viso del dottore con entrambe le mani - i palmi ben premuti sulle sue guance e le dita ben distanti tra loro come a voler toccare più pelle possibile. Quando scontrò le proprie labbra con quelle di John la deflagrazione sembrò rientrare, concentrandosi tutta in quel contatto prima duro e costretto, poi sempre più morbido e voluto; le spalle di entrambi si rilassarono, come abbandonate finalmente dalla tensione di un peso invisibile; le espressioni si ammorbidirono diventando più calme, tranquille; le loro voci ridotte a mugolii sommessi.

Non più urla, solo sospiri.

John ci mise poco a rispondere a tutto quello, accogliendolo tra le braccia e stringendolo in vita. In quel bacio riversò tutte le sue preoccupazioni, tutte le sue paure, il suo amore sperando che Sherlock, per una volta, lo capisse, ma non appena lo strinse di più il pensiero di sbagliare lo sorprese a tal punto da farlo allontanare all’improvviso.

Mantenendolo per i fianchi ben lontano da sé, John lo osservò come non l’aveva mai visto: labbra rosse e leggermente più gonfie per i baci, occhi languidi e espressione beata, rilassata, leggermente contrariata da quel repentino allontanamento.

“Sherlock,” cominciò provando ad abbassare gli occhi mentre le mani dell’altro lo costringevano a tenere la testa ferma e a ricambiare lo sguardo.

“Ti ho detto che mi dispiace.” Incalzò subito Sherlock e a John mancò un battito prima di trovare il coraggio di dire ciò che voleva. Lasciò scivolare via le mani dai suoi fianchi e le portò ad afferrare entrambi i polsi dell’altro.

“Volevo andare via,” disse accarezzandogli i polsi con entrambi i pollici. Le sue mani stavano già cercando di prendere il più possibile prima di chiudere tutto, volevano creare quanti più ricordi possibili prima di cominciare a vivere solo di quelli. “E tu stai rendendo tutto maledettamente difficile.” Terminò a denti stretti lasciandosi andare nella stretta dell’altro, socchiudendo appena gli occhi.

L’espressione di Sherlock sembrava più spaventata in quel momento che in mille altri di effettivo pericolo che avevano vissuto insieme. John non l’aveva mai visto così.

“N-non puoi andare via. Che… che dici? Perché?” Le parole scivolavano fuori dalle sue labbra confuse e tremanti. C’era qualcosa di infinitamente sbagliato in ciò che John stava dicendo e Sherlock riusciva a percepirlo.

“Non posso continuare così, Sherlock.”

“A me va benissimo continuare così.” Rispose l’altro, colto da quella punta di egoismo che a tratti lo caratterizzava. A John scappò un sorriso. La verità era che anche a lui andava di continuare così, ma poteva davvero andare avanti con questa sensazione di non essere mai preso in considerazione e per ciò continuamente ignorata la sua preoccupazione, la sua paura e i suoi sentimenti.

“Ti voglio così tanto che non posso più accettare certi comportamenti,” disse con un filo di voce ora con le mani appoggiate sul viso spigoloso dell’altro, ad accarezzarlo con leggerezza. “Davvero non posso più accettare di restare indietro, di vederti rischiare la vita, di non essere preso minimamente in considerazione quando fai una stupidaggine. Mi uccidi ogni volta, lo capisci o no?” Sibilò le ultime parole tra i denti mentre con la fronte premeva su quella di Sherlock mantenendolo fermo in quella posizione.

Come poteva spiegargli tutto quello che sentiva? Era come se dentro avesse un mare in tempesta e dalla bocca fosse possibile tirar fuori solo un piccolo ruscello: non era abbastanza, era difficile.

Sherlock si abbandonò al suo tocco e chiuse gli occhi mentre il cuore continuava a martellargli nel petto, probabilmente anche per protestare di quella lontananza eccessiva tra i loro corpi. Gli si avvicinò ancora di più, lasciando scorrere le mani sulle spalle di John prima di allungarle dietro la sua schiena per tirarlo su di sé in un abbraccio, nascondendo il viso nella sua spalla.

Da giovane gli era costato molto capire che nessuno mai si sarebbe preso cura di lui, che nessuno avrebbe mai messo lui prima di tutti e aveva imparato che forse non ne valeva la pena. Adesso con John si era ribaltato tutto così all’improvviso che non era facile da accettare di essere una preoccupazione per qualcuno che non fosse suo fratello.

Non era senso di responsabilità né di dovere che spingeva John a preoccuparsi per lui, non era Mycroft, era qualcosa di più e accettarlo era così difficile.

Lo strinse a sé per qualche secondo in più, cercando di trasmettergli in silenzio quella gratitudine infinita nei suoi confronti.

John non aveva mai chiesto niente in cambio durante quegli anni di convivenza, gli aveva voluto bene e basta, ora stava chiedendo solo un minimo di considerazione e quello Sherlock avrebbe potuto concederglielo.

“Mi dispiace,” disse ancora, immerso nel camice bianco, le mani dietro la sua schiena a stringere la stoffa come per aggrapparsi a qualcosa che lo teneva a malapena a galla. John aveva appena detto che lo voleva, in che modo? In quanti modi? La stretta si fece più serrata sulla sua schiena e il medico fece scivolare le braccia intorno alla vita di Sherlock prima di ricambiare quell’abbraccio di cui aveva avuto bisogno così disperatamente un numero infinito di volte, ma non aveva avuto il coraggio di chiederlo. “Ma non andare via, ti prego.” Aggiunse a voce più bassa mentre la presa si faceva ancora più stretta.

John lasciò uscire un sospiro accarezzandogli piano la schiena.

“Sherlock-”

“Io non posso prometterti di tenermi fuori dai guai, né di cambiare-”

“Non voglio che tu cambi, però-”

“Lo so, però.” Concluse allontanandosi quanto bastava per guardarlo in viso di nuovo. Gli occhi illuminati, ma con un’ombra ad oscurarli appena. “Non so come comportarmi con quel però, ma ci posso lavorare.” Ammise con un sospiro e John gli sorrise davvero per la prima volta dopo giorni.

“Non lasciarmi indietro, per cominciare, mai più. E se ti annoi, chiamami per favore.” Il punto era che Sherlock non cercava qualcuno che si prendesse costantemente cura di lui, ma a John Watson poteva permetterlo. Era una cura che gli piaceva, lo lusingava e gli riscaldava il cuore al tempo stesso. “Se fossi in pericolo io e non ti dicessi niente, come staresti?” Domandò e per la prima volta Sherlock riuscì a vedere le cose dalla prospettiva del suo coinquilino.

“Lo sai.” Disse solo, ricordando quella sera con Moriarty nella piscina.
Era stato orribile.

L’adrenalina aveva raggiunto livelli così alti che Sherlock ancora si domandava come avesse fatto a restare calmo e lucido in quella situazione senza battere ciglio. Certo, Jim aveva comunque trovato il suo punto debole, ma lui aveva provato a nasconderlo il più possibile.

“E allora non farlo con me, perché se dovessi morire o-”

Prima che John potesse concludere la frase, Sherlock immaginò d’arrivare lui stesso troppo tardi per salvarlo e quell’immagine era qualcosa che difficilmente sopportava.

“No.” Lo interruppe scuotendo la testa e avvicinandosi nuovamente alle sue labbra, sfiorandole appena. “Non morirà nessuno.” Disse ancora con l’immagine fastidiosa del corpo di John lasciato da qualche parte a morire.

Lo guardò in viso accarezzandolo prima di lanciarsi di nuovo sulle sue labbra, stretto finalmente tra le sue braccia.

Quel bacio ora esprimeva in gesti una promessa che Sherlock era pronto a mantenere e che per John valeva più di qualsiasi altra cosa.

Lo avrebbe protetto ad ogni costo, anche se quello voleva dire proteggere se stesso.

Per quello, Sherlock ci avrebbe messo un po’ più di tempo ad imparare.

“Ma torna a casa, ti prego.” Gli sussurrò tra un bacio e l’altro, mentre con le mani lo stringeva sempre di più, incapace ormai di lasciarlo andare. “Torna con me. Torna da me.” Continuò senza staccarsi dal suo viso e John finalmente gli sorrise.

Scendere a compromessi con quell’uomo che poteva sembrare il più testardo di tutti era già un traguardo importante per il medico e ciò non poteva che significare molto per lui.

Sherlock gli aveva promesso di considerarlo, di vederlo, di tener conto anche dei suoi sentimenti d’ora in avanti e per ciò non poteva che esserne contento.

In quel momento esatto capì che sarebbe tornato a casa.





  
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