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Autore: Clarisse Habibi    05/01/2018    1 recensioni
"Amo dormire con la finestra aperta, sebbene sembri una contraddizione, mi rassicura poiché penso che gli incubi, i demoni e tutto ciò che può nuocermi, trovi un modo per uscire ed abbandonare la mia camera..."
In questa storia a più capitoli, il punto di vista di Peeta Mellark viene mostrato attraverso le sue emozioni ed i suoi pensieri.
Adattata al punto di vista di Katniss e al romanzo di Suzanne Collins, questa storia segue fedelmente i fatti avvenuti in "Hunger Games" senza stravolgerli.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Delly, Gale Hawthorne, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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Quando mi sveglio, il letto è freddo: dormo in un letto abbastanza grande per me, nella mia stanza alla fine del corridoio del piano di sopra. Il profumo del pane appena sfornato riesce ad oltrepassare la porta chiusa della mia camera, mi allieta un po’ l’umore, poi esce dalla finestra. Amo dormire con la finestra aperta, sebbene sembri una contraddizione, mi rassicura poiché penso che gli incubi, i demoni e tutto ciò che può nuocermi, trovi un modo per uscire ed abbandonare la mia camera.
Mi costringo ad alzarmi, a prendere la mia vestaglia arancione e ad indossarla, poi scendo le scale lentamente e mi imbatto nello sguardo malinconico di mio fratello Colin: tiene tra le mani il suo grembiule sporco di carbone e farina, lo stringe forte e sento la sua paura. Riesce ad insediarsi nella barriera che mi sono costruito, che mi costruisco ogni anno. Sento la pelle cospargersi di brividi e più cerco di scacciarla, più sento di doverla lasciar vivere in me. Mia madre non esita a consegnargli un cesto di pagnotte morbide e cotte alla perfezione, poi si volta verso di me e mi guarda severamente – C’è del pane bruciato. Va’ a portarlo ai maiali – mi dice prima di avviarsi verso la cucina. Colin prende il cesto con un braccio, appoggiandolo in corrispondenza delle sue costole e si alza, poggiando il grembiule su di una panca. Poi mi guarda e mi sorride – Buongiorno, fratellino – sussurra, incrociando i suoi occhi azzurri con i miei. Decido di affrettarmi e, dopo essermi chiuso in bagno, perdo del tempo sotto il getto dell’acqua tiepida che Panem concede a quelli che, come me e la mia famiglia, vivono a qualche chilometro di distanza dal Villaggio dei Vincitori. Indosso una maglia larga e grigia che presenta alcuni piccoli forellini, dei pantaloni un po’ trasandati e degli scarponcini che appartenevano ad Hank, il maggiore di noi. Prendo il pane abbrustolito, lo infilo dentro una cesta di legno, me lo carico in spalla e mi avvio verso il retro della nostra “casa-panetteria”.
Noi Mellark siamo l’unica famiglia, nel Distretto 12, ad occuparci della produzione e vendita di pane o dolci. La sveglia suona ogni giorno alle quattro e trenta del mattino e, se non la sentiamo, le urla di mia madre riescono a farci alzare in pochi secondi. Io decoro le torte e i biscotti, ma il lavoro nel forno dei Mellark non sembra finire mai. Il più delle volte, i dolci e le torte vanno a finire nell’immondizia o vengono venduti a basso prezzo il giorno dopo: al 12, non molte persone hanno la fortuna di mangiare quotidianamente. Nel Giacimento, ad esempio, molte persone “vivono” del loro raccolto anche se, delle volte, non basta neanche quello.
Mi siedo sui gradini di cemento e mi accorgo solo in quel momento che il pane bruciato abbonda in quella cassa di legno. Una “malsana idea” – così la definirebbe mia madre – inizia a frullarmi in testa e, dopo averci riflettuto abbastanza, mi convinco e mi alzo: lascio ai maiali quattro pagnotte a testa, poi prendo una giacca grigia e rovinata e la indosso, scuotendomi la fuliggine di dosso, vedendola depositarsi al suolo lentamente così come si è poggiata sulla stoffa dell’indumento. Cammino verso le strade, non asfaltate, del Distretto 12 e noto tristemente l’assenza dei ragazzi e dei bambini che giocano nella piazza. Adesso, le uniche cose che animano quel luogo, sono i Pacificatori conservati, come bruchi nel bozzolo, dentro le loro divise bianche. Tengono stretti tra le mani quei fucili dello stesso colore, come se avessero un buon motivo per sparare ai civili. Sento come una sorta di rigurgito, ma distolgo lo sguardo e continuo per la mia strada, raggiungendo la periferia: anche qui la situazione è uguale. Le strade sono deserte e, di tanto in tanto, vedo qualche sguardo sfuggire dalle finestre: sono per lo più bambini, forse terrorizzati da qualche pacificatore. Sto per raggiungere la mia destinazione quando, all’improvviso, una voce femminile riecheggia nelle spopolate strade del Giacimento – PEETA! PEETA! – mi chiama, invitandomi a voltarmi di scatto, inciampando sui miei stessi passi. – Ciao, Delly – sussurro ricomponendomi subito dopo.
Non ricordo da quanto tempo, io e Delly Cartwright, siamo amici - probabilmente da sempre – ma so che nessuno mi conosce quanto lei. I suoi capelli biondi sono l’unica cosa che splende questa mattina, ed i suoi occhi verdi guizzano da una parte all’altra della strada. Mi afferra, poi, un braccio e lo stringe a sé, sorridendo dolcemente e continuando a camminare – Dove stai andando? Non dovresti prepararti? – mi domanda col fiatone – Sto andando al Forno, per questo... – dico, facendole vedere la cesta con il pane. La ragazza mi squadra e sorride ancora, mordendosi lievemente le labbra.
Arriviamo al forno dopo qualche minuto e Delly mi osserva, cercando di prevedere la mia prossima mossa. Mi avvicino ad una donna: è anziana ed il suo corpo gracile mi conferma la sua provenienza. – Mi scusi, - la richiamo avvicinandomi, poggiando delicatamente la mia mano pallida sulla sua spalla. L’anziana si volta di scatto e mi squadra, avanzandomi una ciotola rotta e rovinata ricolma di zuppa; io scuoto il capo e poggio la cassa di legno sul banco e le sorrido cordialmente – Ho portato del pane, non è nelle ottime condizioni, ma non sono riuscito a prenderne dell’altro. È di questa mattina – mi giustifico, abbassando lievemente lo sguardo. Sento una mano sulla mia spalla che mi richiama e noto la donna sorridermi e farmi l’occhiolino – Grazie – sussurra, prima di voltarsi nuovamente verso un pentolone dove bolle la più selvatica tra le bestie. Delly mi tira, suggerendomi di uscire. Il Forno è il mercato nero del Distretto ed è, chiaramente, rischioso farsi trovare lì, dunque la seguo, avviandomi verso l’uscita, ed è in quel momento che la vedo: Katniss Everdeen sta appena entrando dalla parte opposta alla mia. I suoi capelli scuri sono raccolti in una treccia, pettinatura che la caratterizza da sempre. Con lei, come un’ombra, Gale Hawthorne stringe tra le mani una rete con dei pesci; solo quando noto questo particolare mi accorgo che anche Katniss ha qualcosa tra le mani, ma non riesco a distinguerlo dato che Delly mi strattona fuori dall’ex deposito di carbone. – Dobbiamo muoverci – mi dice, ed io la seguo senza obiettare.
Camminiamo senza dire una parola, forse per la fretta, forse perché è da un po’ che Delly si mostra un po’ gelosa nei miei confronti. Arriviamo davanti casa sua e sto per lasciarla andare quando l’istinto mi dice di fermarla: le afferro piano un braccio e la tiro a me, abbracciandola. – Ci vediamo alla fine della mietitura. – le sussurro, sentendola un po’ rigida all’inizio. Si scioglie, poi, e ricambia, posando lentamente le mani sulla mia schiena. – Ti aspetto al solito posto.
Rientro in casa e mi stringo nella maglia grigia, sapendo che non la passerò liscia. Mia madre inizia ad urlare, come al solito, e mi lascia tra le mani una camicia bianca e dei pantaloni grigi – Mettili, Peeta – mi abbaia, prima di correre su per le scale. Torno in camera mia e mi ci chiudo un po’, consapevole di potermi permettere un po’ di ritardo. Mi metto davanti allo specchio e provo a sistemare i miei capelli biondo cenere, immobili e ondulati davanti la mia fronte.
È quasi l’una quando esco dalla mia stanza. Colin scende le scale lentamente e so che, probabilmente, dovrei fargli fretta, ma preferisco star zitto e scendere dietro di lui, perché anch’io non vorrei essere al nostro posto. Usciamo dalla porta d’ingresso della panetteria: mia madre, mio padre ed Hank decidono di restare, credono che torneremo come gli altri anni. Abbiamo fortuna, noi Mellark. Hank ha ormai 23 anni, Colin quasi 19, e non sono mai stai sorteggiati.
Arriviamo in piazza in poco tempo e ci mettiamo in fila per registrarci. Colin è dietro di me e mi afferra le spalle, avvicinandosi a me – Ognuno pensa per sé, Peeta. Buona fortuna – sussurra, facendomi capire che, come ogni anno, se uno di noi dovesse essere mietuto, l’altro deve stare al suo posto. “Chi mai potrebbe offrirsi volontario per morire?!” si è sempre chiesta mia madre e, in momenti come quelli, non posso darle torto. Poi però, penso alle persone che amo, che si ama in generale. Come potresti permettergli di andarsene per sempre?
Raggiungo una schiera di ragazzi della mia età e prendo un profondo respiro: quest’anno andrà bene, so che andrà bene. La mietitura finirà, le telecamere, Effie Trinket e la sua crew torneranno a Capitol City, mentre io e Delly compreremo le caramelle e ci stenderemo sotto l’albero di cedro. È lo scoccare delle due che mi riporta alla realtà: il suono dell’orologio cittadino segna l’inizio di quella che è, secondo Capitol, una tradizione. Il sindaco del nostro Distretto sale sulla pedana e comincia a leggere. La solita storia, ogni anno, per ricordarci della nascita di Panem, della ribellione e dei Giorni Bui, fino ad arrivare agli Hunger Games. Ogni anno, i dodici distretti devono offrire due ragazzi – un ragazzo ed una ragazza – come tributi per questi giochi orrendi. I ventiquattro tributi vengono rinchiusi in un’enorme arena dove devono combattere fino alla morte. L’ultimo tributo rimasto in vita vince.
Trovo ingiusto tutto questo: la mietitura, gli Hunger Games, questa ridicola “tradizione”. Vorrei urlare, ma resto immobile, notando solo dopo l’arrivo di Haymitch Abernathy: è l’unico dei due vincitori del Distretto 12 ad essere ancora in vita. Lo osservo e riesco quasi a fiutare da qui la puzza di alcool che emana: barcolla, cerca di abbracciare la Trinket e poi, confuso, barcolla ancora. La donna, avvolta in un velo di vivacità e di stravaganza, si avvicina al microfono dopo essere salita sulla pedana. – Felici Hunger Games! E possa la buona sorte essere sempre a vostro favore! – annuncia, prima di “deliziarci” con le sue parole. Si dice onorata di essere qui, anche se la sua espressione sembra dire tutt’altro. Mi sembra chiaro.
Il suo discorso finisce ed io ho la pelle d’oca. Mi volto alla ricerca di Colin, ma non lo trovo. Vedo Katniss, però, e Delly a qualche fila più avanti. È pietrificata. I suoi occhi verdi sono fissi sulla boccia di vetro contenente migliaia e migliaia di biglietti. Continuo a fissarla, ma non riesco a richiamare la sua attenzione. – Come sempre, prima le signore! – esclama entusiasta Effie Trinket. La vedo cadere in pezzi. Delly, amica mia, vorrei essere lì per aiutarti a raccoglierli. Penso che non dovrebbe essere lei, penso che lei non merita tutta quella sofferenza, così come non la merito io, non la meritano gli altri. Ma qualcuno viene “pescato”, viene condannato e no, non è Delly Cartwright.
È Primrose Everdeen.
   
 
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