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Autore: Emily27    05/01/2018    4 recensioni
Daryl parcheggiò il malandato pick-up lungo una via appena fuori dal centro di Atlanta, proprio davanti all'edificio in cui doveva recarsi.
Due settimane prima si era trovato coinvolto in una rissa nei bassifondi della città, erano intervenuti gli sbirri e lui, in aggiunta a diversi lividi, aveva rimediato cinquanta ore da scontare in lavori socialmente utili.

("What if" ambientata prima dell'apocalisse)
Storia partecipante al "Caryl Fanfiction Fest XMas Edition 2017" della pagina Caryl Italia.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Carol Peletier, Daryl Dixon, Sophia Peletier
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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("What if" ambientata prima dell'apocalisse)



 
Ray of hope
 

Il Natale regala sempre una piccola favola...





 
Daryl parcheggiò il malandato pick-up lungo una via appena fuori dal centro di Atlanta, proprio davanti all'edificio in cui doveva recarsi.
Due settimane prima si era trovato coinvolto in una rissa nei bassifondi della città, erano intervenuti gli sbirri e lui, in aggiunta a diversi lividi, aveva rimediato cinquanta ore da scontare in lavori socialmente utili. Quei fottuti stronzi di Carter Street lo avevano provocato, che cosa avrebbe dovuto fare, continuare a bere la sua birra come se niente fosse?
Scese dal pick-up e attraversò la strada rabbrividendo. Era dicembre inoltrato, mancavano cinque giorni a Natale e faceva piuttosto freddo come non succedeva da parecchi anni. Arrivò di fronte al portone del vecchio palazzo, a lato del quale una targa recava la scritta: “RAY OF HOPE – Minors institute”. Era in quel luogo che avrebbe dovuto scontare le sue prime quattro ore e all'idea non faceva i salti di gioia, perché lui e i lavori socialmente utili non viaggiavano propriamente a braccetto.
Di malavoglia, suonò il citofono. Alla voce che rispose si annunciò: «Daryl Dixon, per le ore di servizio». Il portone si aprì con uno scatto, lui lo spinse e varcò la soglia dell'istituto trovandosi in un atrio, dove c'era un albero di Natale striminzito posizionato accanto alla porta a vetri di quello che doveva essere un ufficio. Da quest'ultimo uscì una donna alta sulla cinquantina, dai capelli biondi raccolti in un severo chignon, la quale indossava un altrettanto severo tailleur blu con la gonna.
«Benvenuto al “Ray of hope”, Daryl», lo accolse la donna in tono formale squadrandolo dall'alto in basso, «sono Annette Dawson, la direttrice dell'istituto».
«Salve», disse Daryl in modo tutt'altro che amichevole.
«Vieni con me», lo invitò lei conducendolo attraverso un corridoio angusto su cui si affacciavano alcune porte. Quell'ambiente era tutto fuorché accogliente e l'aria odorava di disinfettante, un nome che evocava la speranza non si addiceva per nulla a quel posto.
«Una mano in più ci fa sempre comodo, soprattutto adesso che la maggior parte del personale è in ferie e stiamo organizzando una vendita per raccogliere fondi, le spese sono tante e le somme che ci passa lo stato poche», spiegò la direttrice sempre con lo stesso tono professionale, mentre il ticchettio prodotto dai suoi tacchi sul pavimento faceva da sottofondo. «Gli oggetti che metteremo in vendita sono realizzati dai bambini. Ospitiamo ventitré minori sotto i tredici anni, dei quali al momento nessuno si può occupare, quasi tutti provenienti da famiglie difficili. Facciamo quello che possiamo, ma non è mai semplice con loro».
Famiglie difficili... Daryl ne sapeva qualcosa. Seguiva silenziosamente la signora Dawson, ascoltando le sue parole dette con una freddezza che lo fece arrabbiare.
Giunsero davanti a una porta che la direttrice aprì, precedendolo dentro uno stanzone adibito a mensa, ma dove ora i bambini si stavano dedicando ai lavoretti per la vendita di beneficenza seduti a quattro grandi tavoli. Tre giovani aiutavano alcuni di loro, mentre un uomo anziano stava su una scala a sistemare una parete, là dove la pittura era scrostata. Erano volontari, gli disse la signora Dawson. Quest'ultima annunciò la presenza di Daryl e tutti lo salutarono affabilmente, alcuni ragazzini lo guardarono con curiosità, altri in maniera distratta. La direttrice si congedò e l'uomo, dall'aria gentile, scese dalla scala pronto a reclutarlo.
«Io sono Tim», si presentò. «Giungi a proposito, figliolo. La vendita si terrà in questo locale e sto cercando di sistemarlo ben bene». Così dicendo gli mise tra le mani un detersivo e degli stracci. «Potresti incominciare a lavare i vetri».
Daryl, non avendo altra scelta, si avviò verso una delle quattro finestre con l'occorrente che Tim gli aveva consegnato. Non aveva mai lavato i vetri in vita sua e quelli, secondo il suo giudizio, non erano neanche sporchi. Spruzzò un po' di detersivo e iniziò a strofinare con uno degli stracci, mormorando imprecazioni.
Intanto che si spostava a un'altra finestra, osservò i ragazzini all'opera. Sapeva fin troppo bene che cosa si nascondeva dietro ai loro sguardi, che non erano quelli di bambini cresciuti nella serenità. Daryl provò il forte impulso di fuggire lontano da lì.
Notò su di sé gli occhi indagatori di una bambina, con i capelli castano chiaro tenuti indietro da un cerchietto e che doveva avere dieci o undici anni. Per qualche istante sostenne il suo sguardo, poi riprese a pulire i vetri.
Più di una volta sorprese la bambina a scrutarlo. Sedeva in disparte rispetto agli altri, all'estremità di un tavolo, e stava ritagliando delle sagome da un sottile foglio di polistirolo. Daryl, deciso a ignorarla, si dedicò con maggiore concentrazione al proprio lavoro.
Terminata la pulizia dei vetri, Tim gli chiese di aiutarlo ad applicare file di lucine sulle pareti, così Daryl si prestò anche a quella richiesta, sperando che il tempo passasse in fretta.
La direttrice venne ad avvisare che sarebbe andata via e che l'assistente del turno di notte avrebbe preso il suo posto, mentre Daryl fissava le luci sul muro e Tim cercava di districarne una fila tutta aggrovigliata, raccontando al suo aiutante dei suoi quattro nipoti.
A un certo punto, Daryl udì una voce alle sue spalle.
«Ho finito di ritagliare gli angioletti, mi aiuti a colorarli?».
Si voltò e vide la bambina con il cerchietto che lo fissava. Stava parlando proprio con lui.
«Io...sono occupato», rispose. Attaccare lucine era il male minore.
«Bravissima, Sophia. Ora Daryl ti aiuterà», le disse Tim. «Vai pure, finirò io qui», continuò l'anziano rivolgendosi a lui con un'occhiata d'incoraggiamento.
Non potendo fare altrimenti, Daryl seguì riluttante Sophia fino al tavolo dove si sedette accanto alla bambina, che aveva già preparato colori a tempera e pennelli.
«Il vestitino va dipinto d'azzurro e le ali di bianco, per il viso devi usare il rosa», gli diede istruzioni mettendogli davanti i pennelli e alcune delle figure che aveva ritagliato. «Poi verrà incollato un gancetto e si potranno appendere all'albero».
Sophia incominciò a colorare un angelo e lo invitò a fare altrettanto. Daryl emise un sonoro sospiro e la imitò, partendo dalle ali per poi passare al vestito.
«Per quello devi usare il pennello più piccolo», consigliò Sophia quando fu il turno del viso.
«Dipingere non è tra le mie occupazioni preferite, bambina», mise in chiaro lui cambiando pennello.
«Sophia...», gli ricordò lei, per poi domandargli curiosa: «Quali sono le tue occupazioni preferite?».
Come se lui ne avesse tante...
«Trafficare con i motori, specialmente quelli delle moto», rispose stando attento a non sbavare il colore.
«Hai una moto?», chiese Sophia guardandolo con vivo interesse.
«Ce l'ha mio fratello».
«Ti porta in giro?».
Daryl evitò di raccontarle che le loro gite consistevano nel fare la spola tra un bar malfamato e l'altro. «Ogni tanto».
Parlavano colorando le sagome di polistirolo, e Daryl rifletté che mai avrebbe pensato di trovarsi a dipingere angioletti, se suo fratello lo avesse visto avrebbe continuato a sfotterlo per il resto dei suoi giorni. Si domandò se una rissa fosse un reato tanto grave da richiedere una simile punizione. Sarebbe stato meglio l'arresto.
Lanciò un'occhiata all'orologio a muro di fronte a lui e sbuffò: erano da poco passate le quattro, mancava ancora troppo tempo prima che potesse andare via.
«Cazzo...», disse tra i denti.
Sophia si voltò a guardarlo.
«Che c'è, non hai mai sentito questa parola?».
«Ne ho sentite di peggio».
Il tono con cui Sophia aveva parlato lasciava intendere che doveva anche aver visto e provato ciò che una bambina non dovrebbe vedere e provare.
«Sei stufo?», gli domandò.
«Un po'», rispose lui facendo ricorso alla diplomazia, benché quest'arte non fosse il suo forte.
«Perché sei venuto?».
«Mi ci hanno costretto», dichiarò, questa volta senza mezzi termini.
Sophia lasciò trascorrere alcuni istanti, prima di dire tristemente: «Anche a me».
Daryl restò concentrato nel pennellare, non voleva farsi coinvolgere, non voleva nutrire sentimenti verso quella bambina. Essere lì con lei e gli altri ragazzini era come guardarsi allo specchio. E a lui non piaceva guardarsi allo specchio.
Quando Sophia parlò di nuovo, lo fece senza staccare gli occhi dall'angelo che stava colorando. «Mamma è in carcere. Ha ucciso papà».
Daryl avvertì una morsa allo stomaco. Si voltò verso di lei e fissò il suo profilo, la sua piccola mano che continuava a guidare il pennello sulla forma di polistirolo. Non gli veniva nessuna parola da pronunciare.
Sophia d'un tratto sollevò gli occhi su di lui. «Non l'ha fatto apposta, è stato per difendermi da lui», disse con enfasi. «Anche se le faceva del male, non voleva ucciderlo».
A Daryl mancò il fiato. Quelle semplici frasi racchiudevano una realtà terribile vissuta da lei e sua madre e culminata tragicamente. Serrò con rabbia la mascella, pensando a quello che avevano subìto. «Mi dispiace», riuscì a dire soltanto.
«La mamma mi manca, dicono che non posso vederla prima del processo perché sono una testimone», continuò lei. «Mi faranno delle domande...».
Sophia aveva assistito alla morte di suo padre, ma a lui non aveva riservato nemmeno una parola, e Daryl la capiva fino in fondo.
Al suo sguardo preoccupato, lui provò a rassicurarla. «Te la caverai».
In quel momento una volontaria richiamò tutti i bambini intorno a sé, così Sophia scese dalla sedia e, dopo avergli rivolto un leggero sorriso, raggiunse la ragazza. Daryl udì quest'ultima invitare i ragazzini a salire nelle proprie stanze a prendere i disegni natalizi che avevano realizzato, per appenderli alle pareti della mensa. I piccoli corsero alle loro camere, compresa Sophia.
Gli angioletti erano ormai tutti colorati e Daryl fu richiesto da Tim perché lo aiutasse a trasportare due lunghi tavoli da un magazzino all'esterno dell'istituto fin dentro la mensa. Su di essi sarebbero stati disposti i lavoretti per la vendita.
Quando ebbero finito, Daryl constatò con sollievo che anche le sue quattro ore di servizio erano terminate. Recuperò il suo giubbotto dalla sedia su cui l'aveva posato, lo indossò e salutò Tim, il quale volle stringergli vigorosamente la mano e aggiungere anche una pacca sulla spalla. Daryl cercò con lo sguardo Sophia tra i bambini impegnati ad appendere i disegni, ma non la vide.
Lasciò la mensa e percorse a ritroso il corridoio. Fu quando giunse nell'atrio che si sentì chiamare.
«Daryl! Aspetta!».
Era Sophia, che lo raggiunse di corsa.
«Vorrei chiederti un favore. Potresti portare alla mamma una cosa da parte mia?».
L'aveva aiutata a dipingere gli angioletti ed era stato il suo confidente, gli sembrava di aver aver già fatto abbastanza e non intendeva spingersi oltre.
«Perché non lo domandi alla signora Dawson?».
«Non mi piace la signora Dawson», rispose lei arricciando il naso.
A Daryl sfuggì un mezzo sorriso, quella megera non piaceva nemmeno a lui.
«A Tim o a uno degli altri volontari?», provò ancora.
Sophia scosse la testa e fece spallucce. «Mi piaci tu».
Mi piaci tu. Per quanto Daryl ricordasse, nessuno glielo aveva mai detto. La possibilità di piacere a qualcuno era lontana dai suoi pensieri, per questo rimase colpito da quell'affermazione, più di quanto avrebbe voluto.
La bambina gli mostrò ciò che teneva in mano: era un fiore di stoffa dai petali bianchi. «L'ho fatta io. È una rosa cherokee, ho letto in un libro che simboleggia la speranza. La porteresti alla mamma il giorno di Natale? Il suo nome è Carol Peletier, si trova all'Atlanta Penitentiary».
Gli occhi supplicanti di Sophia fecero vacillare la sua fermezza.
«Per favore...», insistette lei, piegando infine la sua volontà.
«Va bene», rispose in un soffio.
Sophia gli regalò un grande sorriso e depose delicatamente il fiore nella sua mano. «Grazie».
Daryl annuì e aprì il portone, ma la bambina lo bloccò ancora una volta.
«Tornerai a trovarmi?».
Non vedeva l'ora di andarsene da lì, figurarsi se aveva intenzione di ritornare. Non volle però essere così duro con lei da dirglielo in modo esplicito, quindi evitò di replicare.
«Cerca di stare bene», fu il suo commiato.
Sophia lo salutò silenziosamente con la mano aperta e un lieve sorriso che non aveva nulla di allegro.
Quando Daryl uscì dall'istituto si era ormai fatto buio e la via era illuminata dai lampioni e dalle luminarie natalizie appese a essi da un lato all'altro della strada, che Daryl attraversò. Salì sul pick-up e osservò prima il fiore di stoffa che teneva in mano, poi il portone dell'istituto, rivedendo il sorriso triste con cui Sophia lo aveva salutato. Ancora non riusciva a spiegarsi come avesse potuto cedere alla richiesta della bambina, aveva detto “va bene” senza quasi rendersene conto, praticamente si era fottuto con le proprie mani. Certo, avrebbe potuto infischiarsene e non andare da quella donna, problema risolto, ma una voce dentro di lui gli diceva di mantenere la parola, non poteva tradire Sophia.
Daryl mise la rosa cherokee nella tasca interna del giubbotto, poi ingranò la marcia e partì. Avrebbe fatto in ancora tempo a raggiungere Merle al bar, per guardare l'incontro di boxe e scolarsi qualche birra.  

 

* * *



Nel pomeriggio del giorno di Natale, Daryl era in una saletta d'attesa dell'Atlanta Penitentiary. Non era la prima volta che si recava lì, era già stato a fare visita a Merle quando si era beccato tre mesi per possesso di stupefacenti, con la differenza che adesso si trovava nell'ala femminile del carcere.
Era uscito di casa senza dire a suo fratello dove stava andando, non era nemmeno sicuro che lui se ne fosse accorto, troppo impegnato a impasticcarsi con i suoi amici.
In quel giorno di festa la gente felice scartava i regali trovati ai piedi dell'albero, le famiglie erano riunite intorno a un tavolo imbandito, non come lui, che non aveva un albero addobbato e regali da scartare, né biscotti alla cannella e il calore degli affetti. A Daryl del Natale non fregava niente. O al Natale non fregava niente di lui.
Si appoggiò allo schienale della poltroncina scomoda su cui era seduto da più di un quarto d'ora, in quella stanzetta con il pavimento di linoleum e le pareti di un verde sbiadito. Quanto sarebbe dovuto restare lì? Non che avesse fretta, a casa non c'era nessuno che lo aspettava con ansia e non aveva niente altro da fare, però quell'attesa faceva crescere il suo nervosismo, provocato dall'idea dell'incontro con la madre di Sophia. Non era tipo da sentimentalismi, lui.
Finalmente comparve una guardia carceraria, una donna bassa e robusta dal piglio autoritario che lo condusse fino alla sala visite. Aprì una porta in metallo con una chiave che teneva alla cintura, lo fece entrare e poi accomodare a un tavolino. L'ambiente non era migliore di quello della saletta d'attesa, intorno si udiva il vociare sommesso della gente venuta a trovare le detenute agli altri tavoli. Quattro agenti sorvegliavano i presenti, camminando di tanto in tanto avanti e indietro.
Poco dopo tornò la guardia che aveva accompagnato Daryl, scortando una donna dai capelli molto corti che stavano ingrigendo e con indosso la divisa arancione del carcere. La guardia se ne andò uscendo dalla porta che fu richiusa a chiave e Carol, in piedi davanti a lui, lo scrutò con due malinconici occhi celesti e un'espressione interrogativa, ovviamente non sapendo chi fosse.
«Sono Daryl. Mi manda Sophia».
Nel sentire quel nome lo sguardo di Carol s'illuminò. «Sophia...», fece la donna con voce tremante portandosi una mano sul petto, mentre si sedeva all'altro capo del tavolino.
Era pallida e magra, provata, forse più emotivamente che dalla vita in carcere, pensò Daryl.
«Sono stato all'istituto e mi ha chiesto di portarti questa», disse tirando fuori il fiore di stoffa dalla tasca interna del giubbotto, «è una rosa cherokee e l'ha fatta lei, dice che è un simbolo di speranza». Daryl porse la rosa a Carol, che la prese tra le mani come fosse una cosa preziosa. Lo era.
La madre di Sophia contemplò il dono della figlia e gli occhi le si riempirono di lacrime, che scesero a rigarle le guance, mentre un leggero sorriso nasceva sulle sue labbra.
«Ha voluto che te la portassi oggi», aggiunse lui.
«È bellissima...» disse Carol con voce rotta dal pianto. Si asciugò il volto e lo guardò con gli occhi ancora umidi. E belli. «Ti ringrazio».
In risposta, Daryl annuì, sentendo qualcosa dentro di lui che si smuoveva, come se lo avessero toccato in un punto sensibile.
«Come sta Sophia?», domandò Carol cercando un tono più rilassato.
«Bene... Credo. Abbiamo dipinto angioletti insieme». Daryl si chiese perché glielo stesse dicendo, non gli era nemmeno piaciuto. O forse sì.
Carol sorrise. «Sei un volontario?».
«No, ero lì per scontare delle ore di lavori socialmente utili», rispose lui con sincerità. «Non sono una persona modello», continuò in tono sarcastico.
Carol lo guardò come se volesse scavargli dentro, con quegli occhi così incredibilmente espressivi. «Se Sophia ha scelto te da mandare qui, è perché in te ha visto del buono, lo stesso che vedo io».
Daryl abbassò lo sguardo. Per la seconda volta in pochi giorni si sentì apprezzato, e questa per lui era una novità. Non era abituato a pensare di valere e sentirselo dire gli provocava imbarazzo, ma stava finendo con il crederci.
«Mi manca mia figlia, non possiamo incontrarci prima del processo. È il primo Natale che passiamo separate», disse Carol nuovamente con voce spezzata. Sfiorò con le dita i petali della rosa cherokee, che aveva sempre tenuto tra le mani. «Abbiamo bisogno entrambe di un po' di speranza».
Daryl pensò a Sophia, che si trovava a trascorrere il Natale per la prima volta senza sua madre, con i bambini e le altre persone dell'istituto, eppure sola.
«Anche tu le manchi, me l'ha detto».
«La mia bambina...» mormorò lei con gli occhi lucidi. Dopo una pausa, gli domandò: «Sai perché mi trovo qui?».
Daryl annuì. «Sì, mi ha detto anche questo».
«Lei ha visto...», iniziò Carol, poi trasse un respiro profondo. «È stato un incidente. Lui stava per colpirla, io l'ho spinto via e ha sbattuto la testa su uno spigolo. Non volevo, non avrei mai potuto...». Le sue mani, che sul piano del tavolino stringevano la rosa, tremavano. «Anche se adesso...». S'interruppe abbassando gli occhi.
Se l'intenzione di Daryl era quella di non farsi coinvolgere dall'incontro con la madre di Sophia, ormai era troppo tardi.
«So che cosa vuoi dire. Ogni volta che mio padre mi metteva le mani addosso, desideravo che morisse, e quando è accaduto è stata come una liberazione».
Si stupì egli stesso della facilità con cui aveva pronunciato quelle parole. Aveva confidato a una donna che conosceva da meno di un'ora un pezzo della sua vita, quella parte di cui recava le cicatrici nel corpo e nell'anima.
«È così», affermò lei.
Si guardarono negli occhi. Erano due vittime, due reduci che si riconoscevano l'uno nell'altra. Daryl sentì instaurarsi una sorta di intimità tra di loro, come non gli era successo con nessuno, perché a nessuno lo aveva mai consentito.
Dopo un lungo silenzio, fu Carol a parlare per prima.
«L'avvocato è sicuro che mi saranno riconosciute tutte le attenuanti, dice che potrò uscire abbastanza presto».
«Bene...», fece lui, ancora pervaso dall'intensità degli attimi appena trascorsi.
«Ce la faremo, io e Sophia ce la faremo», disse Carol con un tono fermo.
Daryl vide un bagliore nel suo sguardo, e capì che non si sarebbe lasciata abbattere, forse avrebbe ancora pianto, sofferto, ma sarebbe rimasta in piedi. «Lo so».
Ai visitatori non era concesso trattenersi troppo a lungo, e venne per Daryl il momento di andare. Si alzò dalla sedia e Carol fece lo stesso.
«Buona fortuna, per il processo», le augurò lui.
«Grazie. Anche di essere venuto a portarmi la rosa», disse Carol accennando al fiore che teneva in mano. «Sono felice che Sophia abbia scelto te, è stato un bel regalo di Natale».
Il suo viso sembrava più disteso, i suoi occhi meno malinconici.
«Anche per me...», rispose Daryl in tono incerto mordendosi l'interno del labbro.
Le aveva confidato i suoi pensieri più intimi, ma adesso che si stavano salutando si sentiva impacciato, non trovava le parole.
«Ciao», disse semplicemente.
«Ciao, Daryl», lo salutò lei con un sorriso dolce.
Daryl, muovendosi lentamente, le voltò le spalle e camminò fino alla porta, che un agente aprì con la sua chiave. Prima di uscire si fermò e, senza poterne fare a meno, si voltò indietro. Carol era ancora in piedi accanto al tavolino, la rosa cherokee vicino al viso con le sue labbra che la sfioravano. I loro sguardi s'incontrarono, limpidi e sinceri, in quello che aveva tutto il sapore di un arrivederci.
Quegli occhi, lui sapeva che li avrebbe rivisti.
Fuori dalla sala visite, attraverso alcuni corridoi, raggiunse l'uscita del penitenziario.
Quando si trovò all'aria aperta, notò che il freddo si era fatto più pungente e vide piccoli fiocchi bianchi scendere dal cielo grigio: l'inverno era arrivato. Con le mani infilate nelle tasche del giubbotto, uscì dal cancello che una guardia gli aveva aperto.
Daryl sentiva che qualcosa in lui era cambiato, aveva osato mostrare il suo lato più sensibile, aveva avuto l'ardire di accettare i sentimenti che gli erano stati offerti. Sulla corazza che si era costruito addosso era stata aperta una breccia, anche se doveva ancora imparare a conoscere questo cambiamento. Dicendo a Carol che anche per lui l'essere andato a farle visita era stato un bel regalo, aveva detto la verità. Per una volta il Natale si era ricordato di lui.
Procedette fino al parcheggio dove aveva lasciato il pick-up, pensando che doveva esserci ancora qualcosa di bello, una vita migliore, per Carol, per Sophia. Per lui.
Salì a bordo del pick-up mentre la neve iniziava a scendere più fitta, presto tutto sarebbe stato imbiancato. Accese il motore e lasciò il parcheggio, immettendosi sulla strada che percorse fino a un semaforo a cui si fermò, mentre un pensiero gli frullava per la testa.
Quando il conducente dell'auto dietro lo spronò con un colpo di clacson, Daryl ripartì svoltando a sinistra, in direzione dell'istituto per minori.

C'era una piccola luce che brillava più di tutte le luminarie di Atlanta, quella della speranza.








 









 
  
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