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Autore: Nirvana_04    10/01/2018    10 recensioni
Amore vuol dire aspettare mille anni, e ancora mille.
Amore vuol dire non aspettare neanche un attimo.

Questa storia è ambientata al di là dell'Antica Venasta, oltre i Monti a est di Cahar, in un tempo che si perde nelle trame della leggenda e sfocia nel mito che sta all'origine dell'antico legame tra Puèsigath e Agabar; e narra dell'amore senza tempo di Arket e Adelaya, divenuto trastullo di dei e portatore di dolore per mortali ed eterni.
Queste note selvagge lacrimano ancora
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Racconti del Veto'
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Leggiadre note di un canto selvaggio








 
Amore vuol dire aspettare mille anni, e ancora mille.
Amore vuol dire non aspettare neanche un attimo.
 
Questa è la leggenda di un’anima spezzata in due. Questa è la canzone che, giunta dalle terre dei felichi, viene intonata dai suonatori d’arpa perfino nelle terrazze dell’Ambal.
Gli Dei sono giocatori che si annoiano facilmente dall’alto della loro immortalità. Così hanno creato pedine mortali, fallaci e imperfette, che gareggiano per loro in un campo di battaglia chiamato Vita. La gara su Vita, però, ha un tempo stabilito: all’ultima vibrazione delle corde del cuore, la pedina si trasforma di nuovo in fango; e quando questa Regola viene alterata e le divinità si trastullano con prove insormontabili per le loro bambole di creta, è sull’anima immortale che alla fine viene scolpito il dolore.
La storia di Arket e Adelaya è quel ruggito di agonia che ricorda agli Dei che Immortalità non è sorella di Perfezione, e anche loro sono vittime dei loro giochi perversi e di sentimenti, note vibranti a cui hanno vincolato le azioni degli uomini. L’amore ostacolato da un capriccio divino di Arket e Adelaya riecheggia in note di struggimento selvaggio tra i cieli dei Monti Silenti e si trasforma in tuoni roboanti che sconquassano la terra dei mortali. Canta a tutti della forza di un umano amore e del peccato commesso da creature eterne. Suona del coraggio di un uomo mortale e del rimpianto di dei volubili.
Queste note selvagge lacrimano ancora.




 

 
 
Rinacque dai rami spezzati dal vento, in un giorno d’autunno.
Era nuda, e di quella nudità non si vergognava.
Aveva la pelle di un grigio perlaceo, che sotto la luce di Mal acquisiva le tonalità delle ossa. I lunghi capelli, di un profondo bruno, erano fittamente aggrovigliati, tanto da sembrare esili ramoscelli o lunghe liane nodose: alcune ciocche ricadevano selvagge lungo la schiena; altre erano annodate sulla testa e sparavano all’aria, dando alla sua chioma una forma leonina. Sparse tra di esse, foglie secche di un bellissimo aranciato e piume di fagiano e corvo. Intorno alla fronte, una corona di edera, a incoronarla prediletta della foresta.
Era bellissima, ma di quella selvaggia bellezza non sapeva cosa farsene.
Aveva orecchie leggermente a punta e occhi dolcemente allungati sormontati da sopracciglia sottili e ritte, una linea che sembrava gettare una piccola ombra sul suo incarnato. Le palpebre erano scure, quasi tinte di grigio, e da esse si dipanavano ombre marroni: erano voglie di cenere che custodivano il suo sguardo, specchio di un’anima addolorata e prigioniera di un luogo triste e sconosciuto. Il naso era una linea sottile e dritta, con la punta all’insù, mentre le labbra un po’ piene erano dischiuse in un sospiro innocente, pallide come la tea più inviolata. Il viso ovale aveva due morbide guance, lisce e tondeggianti, che sfumavano in un mento piccolo e infantile.
Amava suonare l’arpa, Adelaya, ma non c’erano arpe da suonare nel luogo dove si era risvegliata.
Aveva un tatuaggio rifinito con inchiostro bluastro: linee sinuose che dal polso risalivano, come rami spezzati, per tutta la lunghezza del braccio e si attorcigliavano sulla scapola in una semi spirale; qua e là erano fiorite foglie minute e triangolari, dai margini spinosi. Del suo passato conservava solo il simbolo della sua tribù: un grande orecchino quadrato, di osso nero, che faceva capolino da dietro una ciocca scura.
Non provava freddo né dolore, Adelaya, ma tremava e soffriva.
All’inizio fu come se ella fosse rinata dalla foresta: vergine, nessuna memoria sulla sua vita passata a tormentarla. Semplicemente, un giorno d’autunno aprì gli occhi su un cuscino di nebbia e scorse le smilze sagome di fusti spogli, i rami più alti che si intrecciavano in un reticolato dalle maglie larghe, come dita ossute di uno scheletro invecchiato, una creatura a cui era stata tolta la linfa vitale e stava rinsecchendo lentamente nella foschia del mattino. Adelaya si alzò, alcune foglie secche aggrovigliate ai suoi capelli, e il suono prodotto dai suoi piccoli piedi scalzi sul tappeto di foglie morte fece defilare la nebbia, che si ritirò al suo passaggio. Così Adelaya vagò alla scoperta della sua casa, senza una meta o un tempo stabilito. Raccolse le piume che qualche uccello aveva perso nella sua fuga, e se le intrecciò a una ciocca di capelli, di lato al viso. Fu allora che le sue dita sfiorarono l’orecchino di osso nero. Lo fecero tintinnare, e quello produsse una singola nota acuta che si propagò nel mare del silenzio; una visione si mostrò ai suoi occhi e il volto di Arket riemerse tra i tanti sfocati della sua memoria che riaffiorava. Adelaya tornò sui suoi passi, una cerva che correva nel folto della foresta addormentata, e ritrovò il suo giaciglio. Si gettò a terra e rimestò le foglie fino a quando i suoi palmi non tastarono il freddo del metallo del suo sonaglio rotondo con incastonate gocce di cristalli e perle pendenti. Se lo portò davanti agli occhi scuri e ne fece ondeggiare i pendenti. Due note, e la voce di Arket che pregava per la sua vita cantò nella sua mente.
Aveva scoperto di avere una voce, Adelaya – calda, profonda, armoniosa, pura - nel momento in cui aveva urlato il nome di Arket; ma l’eco era stata l’unica risposta che aveva ricevuto in quella gabbia di alberi morti, la voce di uno spirito che echeggiava tra le foschie del giorno.
Aspettò giorni, poi decise di cercarlo; si perse, tornò al punto di partenza, e altri giorni passarono. Aspettò ancora, poi vagò alla ricerca di una fine per quel supplizio. Ma la nebbia era un’infida guida che la riportava sempre nel cuore della nuova casa: a volte impiegava solo qualche ora, altre intere settimane, illudendola che forse una via d’uscita ci fosse e che ella l’avesse trovata. Ma era sempre tra quelle foglie morte che faceva ritorno, anima tremante tra cadaveri rinsecchiti. Così si adagiò sul tappeto di foglie e dormì, neanche lei seppe per quanto. Al suo risveglio, il tatuaggio brillava di una luce intensa e una delle foglie che erano disegnate sbiadì fino a scomparire. Ne rimasero quattordici.
Aveva cantato, Adelaya, perché il canto era l’unica compagnia che aveva.
Di corvi e fagiani ella trovava solo le piume. Non vide mai un uccello posarsi sui rami degli alberi o uno stormo sorvolare i cieli grigio perenni. Non c’era vita – acqua, animali o piante – laddove ella viveva. Non era un problema fisico, poiché ella non ricordava cos’era la fame o la sete e non ne provava il bisogno, ma la sua pelle, seppure insensibile, aveva una temperatura bassa che proveniva da dentro, dalla sua solitudine. Così, un giorno d’autunno, Adelaya iniziò a cantare; forse Arket l’avrebbe trovata seguendo il suo canto. Ma le note prodotte dalla sua voce, seppure suadenti, si perdevano nella foschia e sembravano vibrare nel pallore di quel luogo, senza alcun centro che ne indicasse l’origine: semplicemente, vagavano. Erano arcane, meste, una sinfonia di suoni misteriosi che potevano incantare la mente, ma non guidarla verso qualcosa che non fosse la perdizione o l’annullamento di sé.
Aveva desiderato morire di nuovo, ma la sensazione di qualcosa di duro sotto la pianta del piede aveva cancellato quel pensiero sul nascere.
Nel suo letto di foglie gialle e arancioni, laddove di solito ella si raggomitolava per sentire più vicino il contatto della propria pelle, c’erano delle perle simili a quelle che pendevano dal sonaglio. Erano più grosse ed erano state bucate per far passare un gancio d’osso con cui appenderle ai fili di bue della collana, la quale ella non aveva più. Adelaya cullò quelle perle che ora le parevano lacrime solidificate. Recuperò il sonaglio e, davanti all’impossibilità di mettere insieme i pezzi della collana, afferrò una delle sue lunghe ciocche e se l’attorcigliò al braccio sinistro, formando un bracciale al disotto della spalla; ai vari grovigli di capelli appese le perle e al centro, in bella mostra, legò con più nodi il sonaglio con i pendenti. Ella apparteneva ad Arket, il simbolo del loro amore l’adornava di nuovo, rendendo pallido e fragile il pegno che la foresta aveva intrecciato sulla sua fronte.
Se la preghiera di Arket era stata ascoltata, allora il suo amato aveva il favore degli dei. L’avrebbe trovata e riportata nella loro terra. Adelaya si sedette su una pietra e riprese a cantare. 
 
 
 
 
La sua anima gemella morì nel giorno più lungo d’estate, e metà di lui morì con lei.
Era tutto pronto: le donne avevano intrecciato le ghirlande, preparato i dolcetti di eucalipto, impastato l’avena per le focacce con il rosmarino; lui e i suoi fratelli stavano per tornare dalla caccia, dopo aver abbattuto uno splendido cinghiale da servire al banchetto.
Arket sollevò il capo verso le fronde degli alberi e sorrise: i primi boccioli sui peschi avevano fatto vedere i loro tenui colori, quando la chioma si sarebbe adornata del tutto, lui e Adelaya si sarebbero uniti in matrimonio.
Arakat era una piccola tribù seminomade, che in quel periodo dell’anno amava stabilirsi a sud-est della quarta capitale, Arum; era pacifica e prospera. I suoi abitanti vivevano della semina sui terrazzamenti di montagna che ogni tribù era chiamata a lasciare coltivati al suo passaggio e di piccoli pascoli tra i costoni di roccia. Nessuna delle due attività era praticabile in quei luoghi, ecco perché i felichi di Arakat erano i maggiori esperti di arrampicata di tutta Puèntagor. Arket, come Nabaik scelto di Arakat insieme ai suoi fratelli, sapeva inerpicarsi a mani nude su uno strapiombo o stare in equilibrio sul ciglione di una gola; sapeva riconoscere le pietre friabili e ascoltare la terra per prevedere frane o smottamenti; riusciva persino a infilarsi nei pertugi beanti, dove i corsi di montagna venivano inghiottiti dalla roccia. Anche i bambini venivano incoraggiati a fare gare di arrampicata sugli alberi o corse giù per le valli più vicine, per rafforzare i muscoli e rendere scattanti le reazioni. Questo perché la tribù Arakat si narrava essere stata modellata dalla mente di Puèsigath, il Dio delle sorgenti di fango. Egli, insieme ai suoi fratelli e figli, aveva delimitato la loro terra tra quelle alte montagne dai sentieri impervi e dalle valli nascoste, creando i felichi perché vi potessero vivere. La terra era dipartita tra i tre fratelli – Not, Yara e Puèsigath – mentre una delle quattro capitali era sorta in onore dei figli gemelli del dio, le quali detenevano il controllo dell’equilibrio. Le tribù che abitavano Puèntagor erano dodici e ognuna di esse riconosceva l’autorità di un unico dio; nel caso degli dei gemelli, il tempo era diviso in bienni in cui il culto di un dio si alternava con l’altro.
Gli dei erano capricciosi e si annoiavano facilmente, raccontavano gli Shalak delle tribù durante le Adunanze. Essi non mutano, e allora avevano creato lo scorrere del tempo e la duttilità della sostanza; avevano dato vita, laddove vita ha inizio e fine, per distinguerla dalla loro Immortalità; e avevano stabilito delle Regole per poter giocare tutti allo stesso gioco. Erano loro che spartivano gioie e dolori, che truccavano la bilancia di vita e morte, che amavano farsi adulare e, a volte, istigare la fedeltà di un uomo mettendolo alla prova.
Così i felichi vivevano di continue prove: Arket aveva dovuto combattere nel fango – la stessa materia di cui era fatto – per diventare Nabaik; aveva dovuto dimostrare il suo coraggio quando aveva chiesto la mano di Adelaya; doveva portare un dono prestigioso al banchetto di nozze per poterla sposare. Ed egli, dopo giorni immerso tra le montagne, in una foresta incastonata sul fondo di una gola, aveva conquistato il miglior trofeo. Gli dei lo stavano benedicendo, riconoscendo i suoi meriti.
Tornare al villaggio dopo cinque giorni di caccia era una gioia per Arket. Presto avrebbe scalato l’ultima parete, poi avrebbe camminato sempre più velocemente giù per il declivio, fino a sormontare dall’alto di un sentiero roccioso il villaggio. A quel punto ci sarebbe stata l’arpa di Adelaya a guidarlo verso casa, a dargli il benvenuto. Già immaginava le sue dita sfiorare le corde e la sua lieve voce cantare per lui.
«Sorridi, fratello» constatò il maggiore.
Tohri era il più grande dei tre e aveva modi sempre gentili per apostrofare i più piccoli. In quel momento, infatti, Arket si rese conto di avere un sorriso da ebete stampato sulle labbra.
«Faccio male, Toh[1]
I due risero di gusto, e il secondo rispose: «Quale gioia più grande potrebbe giustificare un simile gesto? No, goditelo.»
E Arket continuò a sorridere: mentre discendeva la scarpata, durante la sua corsa spensierata per il declivio, trotterellando lungo il sentiero. Le prime capanne e le tende rotonde della tribù si stagliarono sotto di lui, adornate da un suggestivo tramonto aranciato. I felichi pulivano le armi, le donne riponevano via le ceste; alcune spire di fumo uscivano dagli sfiatatoi all’apice di alcune tende. In quel colore caldo, la sua tribù si preparava al riposo della notte e al tepore della famiglia. Si respirava il sollievo della fine di un giorno, il sapore della cena, l’abbraccio di un bambino; si sentiva il fuoco riscaldare l’acqua e il coniglio cuocere nella brace, lentamente, sottoterra, in un letto di bacche e foglie.
Ma non c’era la musica di Adelaya ad accoglierlo.
La fronte di Arket si aggrottò sempre più. All’inizio sorpreso, poi sempre più confuso e in ansia, senza rendersene conto iniziò ad accelerare il passo verso le tende circolari e le capanne più resistenti che avevano costruito vicino a un corso d’acqua. Lì, vi era una betulla sotto la quale lui e Adelaya amavano sedersi, e solitamente trovava la sua amata a suonare sotto le sue fronde. Ma il tronco bianco si alzava solitario verso il cielo serale e non sosteneva la morbida schiena di Adelaya.
«Arket!» lo chiamò Tohri. Nel suo tono c’era una nota di tensione che non piacque al fratello.
Arket non ebbe bisogno di chiedergli dove fosse la fanciulla. Egli si precipitò nella tenda della sua famiglia e, spostati i lembi dell’apertura, trovò il corpo della sua sposa poggiato contro il palo centrale della tenda. Lasciò cadere le armi e, scalzo, gattonò verso di lei, come un animale che fiuta un suo simile. Il bellissimo volto di Adelaya era livido, il rubicondo delle sue guance era accentuato dalla febbre e i suoi grandi occhi erano spalancati verso lo sprazzo di cielo che si scorgeva dall’occhio della tenda.
«Sei tu, mio amore?» Non aveva la forza per voltare il capo.
Arket le strinse con delicatezza una mano tra le sue e se la portò sulla fronte e poi sugli occhi.
«Sei tu, sei tornato… appena in tempo.»
«No!» Un lamento di sconforto proruppe dalle sue labbra, inconsolabile. «Cosa è successo?»
«Una febbre improvvisa. Un male scagliato dagli dei.»
Arket spostò i suoi occhi dal volto dell’amata a quello dello Shalak[2]. «Cosa avrebbe fatto infuriare gli dei? Ho forse commesso peccato per il quale la mia innocente promessa sposa sta pagando?»
Lo Shalak si aggrappò alla verga e si curvò su di loro, le sopracciglia talmente folte da nascondere i suoi occhi. Fiutò il profumo della loro pelle e dell’incenso che permeava la stanza. «Questa è Vita, giovane Nabaik, e quella che vi è stata lanciata è una prova.»
«Posso superarla. Quale rimedio devo cercare?» lo interrogò.
Lo Shalak fece una smorfia di compassione. Era un uomo timoroso racchiuso in un corpo quadrato. Indossava tante di quelle vesti e pellicce, e la sua schiena era talmente ricurva, che era impossibile dare un nome alle sue forme o al suo stato fisico. La verga la portava sempre con sé, e non era solo il simbolo del suo ruolo, ma il compagno della sua vecchiaia. «Mhmm, gli dei non vogliono scoprire come riuscirai a salvarla, giovane Arket. Vogliono vedere come riuscirai a salvare te stesso dalla sua perdita.»
Ad Arket sembrò di venire dilaniato dalle fauci del gigantesco cinghiale che egli aveva abbattuto per il matrimonio: un colpo selvaggio, e barbaro, e aggressivo, come lo era la forza di quell’animale.
«Puèsigath non è perfido come i suoi fratelli. Ha generato noi perché potessimo riflettere la sua immagine misericordiosa e umile su questa terra.»
Il saggio sospirò greve. Raddrizzò la schiena, come a prendere distanza dal tono insoddisfatto del Nabaik nei confronti degli dei, e chiosò gli antichi insegnamenti: «Gli dei si giocano le nostre anime, sdraiati su letti di nuvole. Le mettono in palio, le scommettono, le barattano. Ci muovono per curiosità, ci manovrano con dolenza, e quando si annoiano scagliano ostacoli e prove su Vita, per divertirsi, per distrarsi dalla loro Immortalità. Noi giochiamo per loro, per onorarli e dilettarli. Siamo al servizio di Puèsigath, ma non è dato sapere se e quando uno di noi viene ceduto a un suo fratello per movimentare i suoi giochi. Gli dei ci scambiano con molta facilità. Non rivoltarti, Arket.»
«Posso invocare la clemenza, però.»
«Se un dio si annoia, non sa cosa farsene di te.»
«Posso dilettare qualcun altro» bestemmiò.
«Vorresti mettere zizzania tra gli dei?» Lo Shalak sollevò il bastone e pronunciò una litania. Poi si calmò. «Prega che fossero girati dall’altra parte mentre tu li sfregiavi. Spera che non ti abbiano sentito.»
«Arket!» La voce delirante di Adelaya lo fermò dal ribattere. «Non… no…» La febbre la fece cadere in un sonno agitato, e forse era stato qualche dio a impedirle di acquietare l’animo del suo amato.
Se Adelaya avesse parlato, Arket avrebbe ascoltato le sue parole, così come nei giorni di primavera pendeva dalle sue dita che accarezzavano l’arpa. Ma qualche dio, nonostante la speranza dello Shalak, aveva udito la proposta di Arket e l’aveva considerata un ottimo trastullo con cui distrarsi dalla sua noiosa esistenza. Così azzittì la fanciulla e attese che il fervore d’amore che animava il felica lo conducesse da lui.
Arket rimase a vegliare la fanciulla tutta la sera e anche la notte, solo con la sua futura sposa, sotto la tenda, con l’unica testimonianza degli dei. Le accarezzò il viso perlato di sudore, posò due dita sulle labbra per catturarne il calore e infine si inginocchiò al suo fianco, una mano sotto il capo di lei, e tenendola tra le braccia chiamò a testimonianza gli eterni: «Not[3], Yara[4], Zeptum e Sefta[5], e Puèsigath, tu che tra tutti sei il più volubile» pregò con un misto di venerazione e rancore, di chi crede ma incolpa gli dei per i mali subiti. «Se è una distrazione che chiedi, guarda questo.» E alzò una mano che impugnava una lama curva. «A te la mia vita offro in cambio di quella della mia sposa.» E calò l’arma.
Fu per amore o capriccio divino che essa non trafisse il suo petto, arrivando a spillare solo poche gocce del suo sangue. La mano di Adelaya ne fermò con rinnovato vigore il polso e lo accarezzò con tutta la dolcezza che impregnava il suo cuore.
«Non sfidare gli dei, amore mio. Adorali, perché loro conoscono Vita meglio di noi.»
Su quell’ultima parola, che racchiudeva il loro legame, spirò.
Arket non urlò, non abbandonò il corpo dell’amata né chiamò aiuto. Invocò ancora l’attenzione degli eterni: «Datele la mia vita. Io le offro la mia vita. Io… io non sopravvivrò alla sua morte, il mio cuore non può accettare che ella non sia più sua.» E attese che la scure calasse sulla sua nuca.
Ma uno degli dei vide qualcos’altro nelle parole del giovane, e così agì: imprigionò il giovane Nabaik in un sonno angosciante e aspirò metà della vita che gli rimaneva, facendola fluire nel corpo della sua promessa sposa; lasciò che egli ne ammirasse nel sogno la pelle imbiancare, come se fosse fatta di creta bianca, mentre la sua pelle soffocava, diventava sempre più livida. Poche gocce del suo sangue macchiarono il braccio di lei e si tatuarono di uno strano colore blu sulla sua pelle. Poi una strana nebbia avvolse la fanciulla e gliela strappò dalle braccia. Yara soffiò davanti agli occhi del giovane e lo fece sprofondare in un nuovo sonno senza sogni.
Al suo risveglio, la lama di Tohri era puntata alla sua gola.
 

[1] In realtà, non è solo il diminutivo di Tohri. Ma nella lingua dei felichi, vuol dire “maggiore”.
[2] Sciamano, in lingua felica.
[3] Volor.
[4] Anojah
[5] Non c’è un corrispettivo caharrin per queste due divinità.
   
 
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