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Autore: BeforeTheDayYouLeft    19/01/2018    1 recensioni
E' il giorno della Mietitura. John Watson non teme il suo nome. Non lo fa neanche quando viene estratto da quella dannata anfora. Comincia a farlo quando esso diventa così dolce, così bello tra le labbra del tributo del distretto due, Sherlock Holmes. John Watson non teme la morte. Non lo fa neanche quando capisce che lui è un tributo. Comincia a farlo quando nell'arena, Sherlock Holmes, il maledetto Sherlock Holmes, gli infonde una ragione per vivere. John Watson teme l'amore. Lo ha sempre temuto. E quando capisce che cosa questa edizione degli Hunger Games ha in serbo per lui, sa che non potrà mai sconfiggere questa sua grande paura.
Fanfiction ambientata nell'ineguagliabile mondo creato da Suzanne Collins. Crossover tra BBC Sherlock e Hunger Games.
(Johnlock) (Teenlock)
Genere: Azione, Sentimentale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 1
La Mietitura 

 
 
Non so cosa è stato a destarmi dal mio sonno stentato: se un debole raggio di luce, il canto di un’allodola, o il lieve fruscio del vento sulle fronde degli alberi. Mi alzo con un mugugno, massaggiandomi il collo intorpidito e gettando uno sguardo al letto accanto al mio. Vuoto, fatto, lindo. Sospiro mentre mi dirigo verso la finestra per chiuderla e sbarrare fuori il vento, assieme alle preoccupazioni, ma nel farlo, mi blocco e guardo incantato il gioco di luci che i raggi del sole creano trapassando benignamente le foglie lussureggianti. Quanta bellezza e quanta pace… Sarebbe davvero difficile lasciare tutto questo. Sarebbe davvero difficile per il mio distretto lasciar andare me.
E’ l’ultimo anno, John. L’ultimo fottuto anno. Se il tuo nome non esce oggi, non uscirà mai più.
“John?”
La voce di mia madre mi fa sobbalzare, riscuotendomi all’istante dai miei pensieri. “’Giorno.” L’amarezza impressa a fuoco nei suoi occhi mi fa male, mi colpisce come fece una volta Larry Austen, quando scoprì che la sua ragazza era venuta a letto con me. Mi dirigo verso di lei sospirando e scuotendo la testa, in un gesto di finto rimprovero. “Dai, ma’, va tutto bene.” le dico prendendola per le spalle con tutto l’amore di cui sono capace. “Non farti prendere dal panico ora, altrimenti alla Mietitura avrai un attacco isterico.”
Lei non risponde e allaccia le sue mani alla base del mio collo, spingendomi verso di lei e premendo il mio corpo di giovane uomo contro il suo di anziana donna. Tra quelle braccia mi sciolgo. Avverto tutta la tensione provata in questi giorni ricadermi addosso con l’impeto e la pesantezza di un tronco, schiacciandomi così fortemente da spezzarmi il fiato. Respiro piano, trattenendo quella paura che ora si sta affacciando sempre più pericolosamente alla finestra della mia mente, del mio buon senso. Sento che mia madre tira su col naso, probabilmente quando ci staccheremo mi renderò conto che la mia maglia sarà bagnata dalle sue lacrime silenziose. Lacrime di donna forte. Lacrime di una donna che ha perso prima il marito, poi una figlia e tra poco, chissà, magari anche un figlio.
E’ per questo che non la sgrido come ho fatto tutti gli anni passati. E’ per quel letto vuoto accanto al mio che taccio. E’ per questo corpo fragile che stringo a me che non parlo e mi crogiolo nel mio silenzio e nei miei timori.
 
***
 
Di solito la foresta rimbomba di fruscii, canti, gemiti, versi, sibili. Oggi, invece, anche lei è inquietamente muta. Anche i suoi occhi sono concentrati su questa radura gremita di giovani e vecchi, di uomini e donne, di disperati e di speranzosi. Mi muovo in questa ressa compatta, scansando il più gentilmente possibile i corpi che mi compaiono davanti, che mi ostruiscono il passaggio. La zazzera riccia mi attira subito nella direzione giusta, guidandomi con sicurezza attraverso quell’intrico di volti solcati da lacrime e di mani tremanti.
“Ehi!” esclamò poggiando la mano sulla spalla del ragazzo davanti a me, il quale si gira e si illumina nel vedermi.
“John!”
“Mike.”
Io e Mike siamo amici, credo. Non sono mai stato bravo con le amicizie, ho sempre preferito divertirmi con le ragazze del mio distretto più che interessarmi a stringere un rapporto stabile come quello che condivido con Mike. Siamo cresciuti insieme, io e lui. Quindi, sì, direi che conoscerci da poco meno di diciotto anni sia un buon punto di partenza per l’istaurazione di un’amicizia.
“E così è arrivato il gran giorno…” osserva Mike, abbassando improvvisamente la voce.
“Così parrebbe. Magari è solo un brutto sogno e fra due secondi ci risveglieremo nei nostri letti, niente Mietitura o Giochi. Sarebbe fantastico, no?”
Il mio amico sorride appena. “Quindi staremmo facendo lo stesso incubo? Contemporaneamente?”
Scrollo le spalle e distolgo lo sguardo dal suo viso paffuto per farlo scorrere tra la folla, alla ricerca di chissà chi, di chissà cosa. Guardo tutti questi ragazzi che mi circondano e mi chiedo se i miei occhi hanno appena incrociato quelli di un futuro martire o se sono quelli degli altri ad aver trovato lo sguardo di un martire. Deglutisco forzatamente quando scorgo la figura di mia madre, in piedi a fianco alla madre di Mike, l’unghia del pollice tra i denti e le spalle incurvate in avanti. Non è rigato dal pianto, il suo viso stanco ed emaciato. Ma dentro… dentro so che è interamente scossa da profondi ed ineluttabili singhiozzi. Quando si accorge che la sto guardando, abbassa lentamente il pollice e con l’altra mano mi lancia un bacio così vero che quasi riesco a sentirlo sulla fronte. Rispondo con il sorriso più sereno che riesco ad imprimermi in faccia e annuisco debolmente.
Mi dispiace, mamma. Sii forte, mamma. Ti voglio bene, mamma.
Il sottile vociare che fino a poco fa animava la radura, si placa improvvisamente, acquietandosi come un cucciolo sgridato. Mi volto di scatto e mi accorgo che sul palco sta salendo una donna tutta impettita e fremente nel suo vestito schifosamente sfarzoso e col suo viso ricoperto da una maschera di trucco ridicolo.
“Benvenuti a tutti e a tutte alla ventunesima edizioni degli Hunger Games!” grida emozionata con un sorriso ipocrita e insulso, aspettandosi quasi che la folla prorompa in gridi di giubilo e in acclamazioni. “Non perdiamoci in inutili chiacchiere e proiettiamo immediatamente il video che racconta la storia della nostra amatissima Panem!”
Alle sue spalle, il classico montaggio delle scene più salienti della Ribellione dei Distretti e, parallelamente, i momenti più toccanti o truci – difficile ormai distinguerli – delle venti edizioni passate degli Hunger Games. Dio, è stomachevole. Sullo schermo sono proiettati miseria, ammazzamenti, fame, sangue, agonie: immagini che ballano e si esibiscono in evoluzioni mortali, circondati da un’aura di decadimento e sofferenza. Quando viene esibita la maledettamente fantastica uccisione di uno dei tributi della scorsa edizione ad opera di un ragazzino di appena tredici anni, serro gli occhi. La nostra società strappa i figli alle nostre case, l’infanzia ai nostri bambini e la vita alla nostra Nazione. E tutto questo è ripugnante.
“Bene!” esclama la donna sul palco una volta che il filmato si conclude con la più melliflua delle immagini: una rappresentazione delle effigi di tutti e dodici i distretti, assieme. “E ora, passiamo senza più indugi al momento tanto atteso!” Quasi a voler incalzare il tocco di surreale teatralità che avvolge la radura, un paio di raggi di sole si riflettono sulle anfore di vetro in cui sono stipati come bestie da macello i nomi dei candidati al martirio. Nomi tra i quali c’è anche il mio, ripetuto sette volte, per l’esattezza. Mia madre non ha mai richiesto alcun aiuto alimentare o economico a Capital City, nonostante viviamo nella miseria, con la faccia schiacciata nelle schifezze della povertà e nelle umiliazioni dei fenomeni da baraccone che arbitrano la nostra vita come fanno con gli Hunger Games. “Come al solito, prima le signore.”
Di nuovo, ho l’impulso di girarmi, di scrutare quei volti confusi e atterriti, di riservare a chiunque occorresse parte di quella insolita sicurezza che mi gorgoglia all’altezza del petto. Davvero strana la compostezza ferrea che sto provando. E’ come se, dopo quell’abbraccio con mia madre, non abbia più ripensamenti, più conti in sospeso. Penso a Mike e alla fidanzata che sarebbe costretta a dirgli addio se il suo nome dovesse uscire; penso a Jenny, una bambina di dodici anni che proprio ieri ho trovato in lacrime nel bagno della scuola, accoccolata sulla tazza del gabinetto chiusa; penso a Lizzie, la ragazza dietro a cui ho sempre sbavato, che però non mi ha mai degnato di uno sguardo; penso a tante, tante cose mentre la mano della donna di Capital City si insinua nell’oceano dei foglietti della giara come un pitone in un cespuglio per scovare la vittima, e scava e scava, mescola, attimi eterni, fiati sospesi, cuori a mille, quando le dita riemergono con la prescelta.
“Molly Hooper!”
Sgrano gli occhi, di colpo. Molly. Molly Hooper. No, a Molly non ho pensato. Come è possibile che sia uscita proprio lei? Eravamo amici di infanzia. Da bambini giocavamo sempre insieme, quando non ero da qualche parte a scorrazzare con Mike o quando non aiutavo mia madre in fabbrica. Lei è stato il mio primo bacio – un lieve sfregamento di labbra giusto per provare prima di lanciarmi in qualche avventura amorosa –. Lei è stata la bambina che mi ha preso per mano, dopo che mio padre è morto, ed è rimasta per ore inginocchiata accanto a me, in silenzio, sbucciandosi tutte le ginocchia con i rametti della foresta. Lei è così… gentile e intelligente e altruista e… inadatta per gli Hunger Games. Guardo la folla scindersi, creare un passaggio, lasciar passare colei che è al novantanove per cento delle probabilità è destinata a morire. Inizialmente non si muove. Resta lì, ferma, atrocemente impaurita e sola in mezzo a tutta questa calca. Un Pacificatore si fa avanti e le punta il fucile alla schiena, sbraitandole di muoversi, di camminare verso il palco, verso il suo irreparabile destino. E lei, allora, si muove. Un passo dopo l’altro. Piano. Solenne. Disperata. La donna di Capital City la accoglie con un sorriso smagliante, come se la ragazza che ha di fronte non sia destinata a ritrovarsi in un sacco nero, sul tavolo metallico di un obitorio. “E ora, i gentiluomini!”
Il mio intero corpo si irrigidisce come la corda di un violino. Incredibile come la tensione possa acuire i sensi: posso percepire il leggero frinio delle cicale, il pigolio debole di qualche uccello, il mio cuore rimbombare greve in me. Attendo. E l’attesa è sfibrante. Trattengo il fiato. E il fiato è ormai al limite.
Di nuovo, la donna sul palco immerge la mano tra la carta su cui i nomi sono scritti col sangue e non con l’inchiostro. Pensieri futili mi attraversano la mente con il loro sapore aspro e nostalgico. Richiamo alla memoria il mio sogno: quello di diventare medico. Richiamo alla memoria il sorriso di mio padre, quando ancora era un padre. Richiamo alla memoria le lotte di cuscini con mia sorella, quando ancora era una sorella. E richiamo alla memoria le carezze, gli abbracci, i baci di mia madre, lei che è stata sempre l’unico punto fermo, il riferimento, il mio nord.
Ed è proprio nel momento in cui mi volto per incontrare il suo viso terreo che accade. “John Hamish Watson!”
Mike trattiene rumorosamente il respiro e mi fissa sconvolto. Lo sento pronunciare il mio nome, ma non ha importanza. Gli unici suoni che hanno un senso, per me, sono la voce della donna mentre articola maleficamente le lettere che compongono tutto ciò che sono, e l’urlo di mia madre. L’urlo muto di mia madre. Sempre silenziosa, lei. Sempre stoica nel suo orgoglio. Non mi volto quando capisco quello che sta accadendo: rimango a guardarla e cerco di trasmetterle quanto a parole non posso più esprimere.
Poi avanzo. Non lascerò certo che un fottuto Pacificatore mi pizzichi il culo con quel suo giocattolo. Stringo la mano all’annunciatrice, una maschera in volto. Poi guardo Molly con le gote pallide e ferite da due lacrime. Lei anche mi guarda e io le sorrido. Anzi, le prendo la mano e rivolgo alla mia casa, alla mia famiglia, il sorriso più incoraggiante e vero di cui sono capace. Infine, con la mano libera, mi bacio la punta delle tre dita centrale e le elevo al cielo. Addio a tutti. Ci vediamo al mio funerale.
 
***
 
Il treno marcia svelto verso la capitale, sferragliando impazientemente sui binari. Lascio vagare lo sguardo fuori dal finestrino, do il mio ultimo addio alla mia casa, alla mia infanzia, alla mia vita. La mano sinistra trema leggermente, in tasca, mentre accarezzo la penna. Cinque minuti per poter salutare mia madre. Cinque minuti in cui non ha fatto altro che abbracciarmi e consegnarmi la penna d’argento, quella con l’immagine di una ghiandaia imitatrice sul collo. Questa penna è il mio tesoro, il forziere che racchiude ogni mia ricchezza. Ogni granello della mia esistenza si riflette nell’argento lucido di questo oggetto. Mia madre non ha parlato, non ha pianto, non ha pregato. E’ stata statuaria nella sua dignità e nel suo silenzio. E io le sono grato: non avrei sopportato il suo dolore, le sue lacrime.
Molly si è chiusa nel suo silenzio sin da quando siamo partiti, rannicchiata sul divanetto più estremo del posto. Vorrei alzarmi e andare a consolarla, ma credo di aver esaurito la forza mostrata stamane.
La porta che conduce al secondo vagone del treno si spalanca di colpo e nella nostra carrozza compare la figura di un ragazzo non molto più grande di me, avvolto completamente in una giacca ampia e grigia.
“Ciao a tutti!” esclama con entusiasmo forzato, solcando l’ingresso. Io mi alzo in piedi e gli porgo una mano abbozzando un sorriso a cui lui risponde con un’espressione mesta. “Il piccolo, grande John. E’ davvero, davvero un piacere conoscerti. Quello che hai fatto… mi si è accapponata la pelle, davvero.”
“Era giusto.”
“No, non lo era.” ribatté lui lasciando andare la mia mano. “Eppure lo hai fatto e Dio solo sa quanta ammirazione tu abbia suscitato non solo nel Distretto ma nell’intera Panem.”
Le sue parole mi lusingano e mi rigenerano. Per un attimo, non mi sembra di star viaggiando in un treno diretto alla mia molto probabile morte. Per un attimo, non penso agli Hunger Games, al Presidente Magnussen, ma solo a godermi una sana chiacchierata con questo ragazzo così solare e gentile. “Per esperienza personale so che… è meglio dire addio a una persona sapendo che sei tu quella a morire piuttosto che il contrario. Continuare a vivere con il peso di una perdita è insostenibile.”
Mi poggia una mano sulla spalla e me la stringe con fare rassicurante. “Oh, che sciocco! Non mi sono presentato. Io sono…”
“Gregory Lestrade, vincitore della sedicesima edizione degli Hunger Games, mentore da quattro anni dei tributi del distretto sette.” lo interrompo io, mentre i miei occhi si fanno grandi di ammirazione. Dopo la sua vittoria, Gregory è passato alla storia come unico vincitore del distretto sette ed ha rappresentato per tutti noi, possibili tributi, un modello da seguire, da imitare.
“La mia fama malmeritata mi precede, a quanto vedo. Ma ti prego, chiamami Greg, odio il mio nome completo. Pomposo, non trovi?” Ridacchio sommessamente mentre lui si volta in direzione di Molly, ancora immobile nel suo riparo. “E lei deve essere Molly…” mormora in un sospiro affranto.
“E’ da quando siamo partiti che è così.”
“Già, beh… non dev’essere facile. Prima sua sorella, poi lei… la sua famiglia deve essersi trovata davvero in una brutta situazione finanziaria per chiedere aiuti al Governo a tal punto da rendere i nomi dei figli così facilmente pescabili.”
Ricordo ancora quando, due anni fa, la sorella minore di Molly, Jane, è stata chiamata come tributo. La loro famiglia è molto numerosa e in un distretto povero come il nostro è difficile tirare avanti senza richiedere il sostentamento di Capital City almeno una volta, così i nomi dei figli sono aumentati di numero, rendendo la sorte solo un granello di polvere insignificante in confronto con le conseguenze delle azioni dettate dalla disperazione.
Osservo Greg chinarsi su di lei, sussurrarle qualcosa per poi venire allontanato da un suo no perentorio con la testa. Lui si volta verso di me e scrolla le spalle con rassegnazione, tornando sui suoi passi e sprofondando nel divanetto su cui ero seduto fino a poco fa. “Ad ogni modo,” comincia a dire afferrando il telecomando rotondo e dotato di un consistente numero di tasti colorati e confusionari per uno che la televisione può permettersi di vederla solo in un luogo pubblico come un bar o la piazza cittadina. “sono qui anche perché a minuti andrà in onda il notiziario di Capital City durante il quale verranno presentati tutti i tributi. Non sono mai stato molto bravo con l’arte della strategia, ma credo che conosci il tuo nemico sia un detto appropriato.”
Io annuisco debolmente, gli occhi puntanti sullo schermo della TV che improvvisamente si anima senza alcun ronzio, come se fosse la cosa più naturale del mondo, non come i nostri televisori vecchi e malfunzionanti.
Il monitor viene completamente inondato dalla faccia di un ometto tutto sorrisi e risate, con i capelli blu tirati indietro, intento a masticare qualche aneddoto sulle precedenti edizioni dei Giochi, cicalando con un secondo individuo ancora più esuberante di lui, come ragazzine. Caesar Flickerman e Claudius Templesmith. Alle loro spalle, un grande schermo, su cui un ineluttabile conto alla rovescia deposita come granelli di una clessidra i secondi che mancano prima che tutti i tributi vengano presentati.
50 secondi…
49…
48…
Dentro di me conto, sincronizzo il mio respiro con quei secondi che scemano via, attendo, odo i passi strascinati di Molly alle mie spalle, un suo debole singhiozzo, la sua mano che si poggia sulla mia spalla. Intreccio le mie dita con le sue e continuo a contare e a contare, fino a quando la mia mente sembra completamente sommersa da quei numeri che decrescono sempre più, con efferatezza e malizia.
“Ci stiamo per avvicinare, amici, al grande momento!” urla Caesar voltandosi per assistere agli ultimi secondi che decadono e sprofondano in un mare di sabbia numerale.
3…
2…
1…
“E… SIAMO GIUNTI AL GRANDE INIZIO!” strepita senza più ritegno Flickerman mentre prega la direzione di proiettare alle sue spalle le immagini dei tributi di quest’anno. Deglutisco a vuoto, la mano sinistra che trema, accarezzando febbrilmente la penna.
“Eh già, Caesar! Non ci è stata data alcuna anticipazione riguardo al corso della Mietitura. Io sono euforico, tu no?”
“Assolutamente sì, Claudius. In studio girano voci succulente. Si dice che quest’anno se ne vedranno delle belle! Non so davvero cosa aspettarmi.”
“Oh, per piacere, è penoso!” sputo acidamente di fronte a tutto quel giubilo così nauseabondo. “Ventitré ragazzi moriranno e loro non fanno che gongolare con quei loro orrendi capelli e vestiti! Ma come si fa?”
Con la coda dell’occhio noto un angolo della bocca di Greg guizzare verso l’alto. “E’ la prassi, John. Una volta che appari di fronte alle telecamere sei costretto ad eclissarti completamente, a rinnegare tutto ciò che sei perché ormai rappresenti anche tu un tassello di tutto questo schifo. E se non ti sottometti a tali regole, beh…” Lascia cadere la frase e incrocia le braccia, senza distogliere gli occhi dal televisore.
Faccio per parlare, ma una seconda esclamazione esaltata da parte dei due conduttori mi precede, catturando la mia attenzione. “ECCOLI! PER L’AMOR DI DIO, CLAUDIUS, ECCOLI QUI!”
“Li vedo, amico mio. Li vedo!”
Sullo schermo dietro di loro compaiono rimpiccioliti le facce di tutti e ventiquattro i tributi. Trattengo il fiato nel notare anche la mia, di foto. Mi chiedo come riescano a procurarsele, ma non mi stupisce affatto che siano in grado di recuperare un paio di fotografie quando riescono a mandare a morire un’intera generazione a cuor leggero.
“Sono così emozionato, oddio… Ma ora basta sprecare fiato, è ora di cominciare a presentare i nostri tributi!” sentenzia Caesar mentre le foto scompaiono per lasciar posto all’immagine di una ragazza di circa la mia età, con occhi gelidi e sguardo scaltro. Bella, molto bella. Forse la donna più bella che io abbia mai visto. “Eccola qui, la prima! Dal distretto uno, Irene Adler in tutta la sua disarmante bellezza. Ha uno sguardo acuto, estremamente intelligente, non trovi?”
“Sono d’accordo con te, come sempre. Secondo il fascicolo che ci è stato gentilmente procurato dai piani alti, Irene Adler ha sedici anni, fin da quando aveva tre anni si è allenata in una delle migliori palestre del distretto dove per le sue abilità e il suo temperamento focoso è stata soprannominata Dominatrice. Pare che persino un fermaglio per capelli, in mano sua, si dimostri un’arma letale.”
“Rassicurante…” sussurra Molly staccandosi da me e dirigendosi nuovamente verso il fondo del vagone mentre i due presentatori continuano a blaterare insensataggini. Io mi alzo e la seguo, prendendola per un braccio e costringendola a voltarsi.
“Molly, che c’è?”
Lei si scioglie in una risatina isterica. “Che c’è? Non so, forse che fra poche settimane giacerò morta lontana da casa e dai miei cari? Non ho speranze! Se ci sono tipi come quella lì, cosa può fare una come me?”
Gli occhi le si riempiono di lacrime e io mi trovo completamente spiazzato, indeciso su cosa fare. Cazzo, non sono mai stato bravo a rapportarmi con i pianti. Io non… io mi blocco di fronte alle lacrime, alla manifestazione tangibili del dolore. Le prendo il viso e la attiro a me con fare rassicurante. “Ascoltami…” sussurro mentre cerco di contrastare i suoi deboli tentativi di ribellione. “Ascoltami! Non devi pensare che tu non valga niente. Mai. E’ vero, quelli dei distretti alti sono avvantaggiati, non posso negarlo, ma in quell’arena può succedere di tutto. Si può vincere usando la forza, l’ingegno, i nascondigli… Puoi farcela, possiamo farcela. Non dobbiamo farci influenzare dai risultati delle scorse edizioni o da quello che pensa la gente. Dobbiamo lottare e aggrapparci alla nostra vita con le unghie e con i denti. Per noi e per il nostro distretto. Okay?”
Molly si immobilizza e mi fissa come se fossi Dio. Ingoia un paio di lacrime bollenti e annuisce un paio di volte, stravolta.
“Okay?” ripeto ammorbidendo ulteriormente la voce.
“Okay.”
La prendo per mano e la guido verso il divanetto su cui Greg è ancora seduto, assorbito completamente nel prendere appunti su un taccuino scuro, verde come il colore del nostro distretto.
“… E così questa era il nostro terzo tributo, Sally Donovan, dal distretto due. Un soggetto interessante anche lei, ma ora passiamo al giovanotto che la accompagna in questa sfida.”
Sotto gli occhi di tutta Panem svetta un volto niveo, spigoloso, coronato da una cascata di riccioli corvini e sormontato da un paio di occhi di un colore indefinibile. Resto per qualche istante sbigottito dall’aura di mistero che attornia quel viso così tenebroso e distaccato. Non vi è neanche l’ombra di un sorriso. Il tributo maschio del distretto due fissa la fotocamera indifferente, lontano. Provo a pelle un fastidio istintivo alla vista di quella spocchia, di quell’altezzosità.
“Sherlock Holmes!” annuncia Caesar illuminandosi. “Ah, che soggetto interessante. L’unico volontario di quest’anno. Non se ne vedevano dalla... – qual era? – decima edizione?”
“Confermo, ma devo dire che mi sembra avere le carte in regola per affrontare gli Hunger Games e uscirne dignitosamente. Questo sguardo così torbido, questi occhi così freddi... Secondo il suo fascicolo è dotato di un IQ superiore alla norma ed è proprio nel suo ingegno sconfinato che risiede la sua forza. Mi piace questo tributo. Mi piace davvero… Oh! Caesar! Pensa che a quanto sta scritto qui, è persino affetto da una sorta di sindrome di Asperger… Un sociopatico iperattivo, dice. Però! Se ne vedranno delle belle!”
“Cristo…” borbotta Greg al mio fianco.
“Cosa?”
“No, niente, è che… Sherlock Holmes è il fratello di Mycroft Holmes, il più giovane capo stratega della storia degli Hunger Games. Capo stratega che – tra l’altro – ha presieduto ai Giochi che ho vinto.”
Sposto nuovamente lo sguardo verso lo schermo del televisore, per contemplare nuovamente quel ragazzo così particolare, ma la sua immagine è stata già sostituita da quella di una giovane del distretto tre di nome Dyachenko Ludmila, assassina provetta secondo le righe del fascicolo che i due presentatori stanno consultando.
Le facce e i nomi si susseguono gli uni dietro agli altri, informazioni stipate nei cassetti della mia testa, date di nascita, abilità, soprannomi… Ci manca solo che dicano quante volte noi tributi siamo andati in bagno dalla Mietitura e credo che toccheremmo davvero il fondo.
“… Ma eccoci arrivati al distretto sette, dedicato alla flora e al legname! Incantevole, davvero. Un locus amoenus, come si suol dire. Come al solito sto divagando, chiedo venia. Vediamo i nostri due tributi appartenenti a questo distretto, a partire dal gentil sesso.”
Molly trattiene il fiato e mi stritola la mano così forte che i polpastrelli sbiancano improvvisamente, ma non mi sottraggo a quel contatto. Come per gli altri tributi, sul maxischermo sfila il video della Mietitura del nostro distretto.
“Ah… una donzella in difficoltà!” prorompe Caesar con un sorriso smagliante. “Guarda, Claudius, guarda! Quanto amore in questa stretta di mano di lui, quanta forza che traspare dagli occhi di lei… Potrei sciogliermi all’istante! Sono un tipo romantico, io.”
Molly mi lascia improvvisamente la mano con un’imprecazione masticata. “E’ così che apparirò agli occhi di Panem, d’ora in poi? La donzella in difficoltà? Praticamente sarò l’ultima della catena alimentare di questi Giochi!”
“Molly…” sospiro, ma la mano di Greg si stringe attorno al mio polso, costringendomi seduto.
“Non ora, John. Dobbiamo capire quale impressione hai fatto nel pubblico.” sibila senza staccare gli occhi dal televisore.
“… Salutiamo la foto della nostra graziosissima Molly per dare spazio al principe azzurro della situazione, John Watson!” Contro ogni aspettativa, lo studio di registrazione viene scosso da un boato mastodontico e contemporaneamente l’immagine della mia chiamata svetta sullo schermo alle spalle dei due. “Grandioso… Grandioso!! Semplicemente spettacolare! Guardate con quanta sicurezza questo ragazzo procede verso il palco, guardate la dolcezza del suo sguardo, il calore del suo sorriso… e la forza che traspare da questo saluto… Dio mio, che edizione, signori miei, che edizione! Non sto già più nella pelle di intervistare ognuno di loro.”
Greg scatta in piedi ed esulta per poi afferrarmi la testa e sfregare le nocche sul mio capo, provocando – da parte mia – minacce e imprecazioni. Quando finalmente si stacca, si china di fronte a me, mentre cerco di sistemarmi dignitosamente i capelli spettinati, e mi stringe fermamente le ginocchia. “Bravo, John, bravo. Li hai stesi tutti. Sei a tanto così dal guadagnarti una caterva di sponsor pronti ad aiutarti. Non devi fare altro che giocare bene le tue carte durante l’intervista e la vittoria sarà tua.”
Non voglio. Mi fa schifo questa trasmissione. Mi fa schifo l’esaltazione della gente per me. Non volevo apparire come un proselito del Governo, come un eroe. Non volevo inneggiare agli Hunger Games, alla morte. Volevo solo infondere forza al mio distretto, a mia madre. Non voglio essere un’altra persona. Non voglio che mi cambino.
“… E dulcis in fundo, l’ultimo tributo. Dal distretto dodici, James Moriarty!”
Di nuovo, nella sala prorompe un tumulto generale, stavolta ancora più forte di quello che ha caratterizzato la mia menzione. Il viso di un ragazzo dall’età indefinibile riempie completamente lo schermo e le urla di sostegno continuano, imperterrite. Poi, il filmato della Mietitura al dodici: la portavoce di Capital City, il nome di James Moriarty, il novello tributo che incede stringendo le mani di tutti coloro che incontra sulla sua strada, che sale sul palco sventolando una mano in aria. Resto sbigottito di fronte a questa rappresentazione del martire che sa che non tornerà a casa ma che è comunque costretto a promettere che quello non è un addio. Un moto di ammirazione mi sale all’altezza del petto, misto a… a qualcosa di strano, qualcosa che ignoro. Una sensazione che non riesco a definire a parole. Caesar e Claudius sono sempre più euforici e ora sembrano quasi saltare su quelle sedie spropositatamente comode e sfarzose, impazienti come bambini a Natale.
Una volta che le solite parole infarcite di dati ed elogi smettono di fluire dalle labbra dei due presentatori, Greg spegne il televisore e ritorna il silenzio. E’ successo tutto così in fretta. E’ appena cominciata. La caduta. Non so se mia, ma di certo è cominciata. E lo sguardo del mio mentore ne è la prova tangibile, rafforzata dalle sue indicazioni, dai suoi consigli, dalle sue preghiere, forse. Non ho idea di che cosa succederà in quel posto. Ma una cosa è certa: non voglio che tutto questo mi plasmi, azzerando completamente chi sono davvero. Eppure, non m’importa di morire. Non mi importa di morire. 

SPAZIO AUTRICE
Ehilà! Benvenuti a questa ventunesima edizione degli Hunger Games! Okay, sono impazzita. Volevo dire, benvenuti in questa disagiata fanfiction che spero possa non farvi schifo (non oso dire che possa piacervi) e... niente. Vi invito a recensire (critiche costruttive sono comunque ben accette, però sappiate che farò di tutto per rintracciarvi e farvi rimangiare la recensione a forza) e... niente. Non so che altro dire, quindi vi lascio e ci vediamo al prossimo capitolo che spero qualcuno possa attendere con gioia. 
   
 
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