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Autore: BeforeTheDayYouLeft    26/01/2018    1 recensioni
E' il giorno della Mietitura. John Watson non teme il suo nome. Non lo fa neanche quando viene estratto da quella dannata anfora. Comincia a farlo quando esso diventa così dolce, così bello tra le labbra del tributo del distretto due, Sherlock Holmes. John Watson non teme la morte. Non lo fa neanche quando capisce che lui è un tributo. Comincia a farlo quando nell'arena, Sherlock Holmes, il maledetto Sherlock Holmes, gli infonde una ragione per vivere. John Watson teme l'amore. Lo ha sempre temuto. E quando capisce che cosa questa edizione degli Hunger Games ha in serbo per lui, sa che non potrà mai sconfiggere questa sua grande paura.
Fanfiction ambientata nell'ineguagliabile mondo creato da Suzanne Collins. Crossover tra BBC Sherlock e Hunger Games.
(Johnlock) (Teenlock)
Genere: Azione, Sentimentale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 2
I Tributi
 
 
L’arrivo a Capital City e i successivi avvenimenti sono avvenuti con una repentinità tale da essere indescrivibili. Nel giro di un’ora sono stato trascinato per tutta la città, sbranato dai flash delle fotocamere dei giornalisti, aggredito da un paio di abitanti che si affermavano miei fans, portato in un centro estetico di bellezza e messo completamente a lucido. Voltato e rivoltato come un fottuto calzino.
E ora me ne sto qui come un idiota, in una stanza dalle dimensioni infime, solo, con i capelli tirati all’insù in un’odiosa cresta che sento non far parte di me e con indosso solo un accappatoio. Dopo una decina di minuti trascorsi nella più totale ignoranza di ciò che accadrà, le porte si spalancano e nel rettangolo lasciato da esse svetta la figura di una bella donna dalla pelle scura e i capelli cortissimi.
“Ciao, John.” mi saluta amichevolmente, come se mi conoscesse da sempre e mi stampa due baci sulle guance. “Io sono Ella e il mio compito è quello di…”
“Rendermi un figo allucinante in modo che tutta Panem mi adori per qualcosa che non sono?”
Lei, a dispetto delle mie aspettative, si scioglie in un sorriso divertito. “Dovrebbe essere quello il mio compito, ma credo che siamo entrambi stanchi di tutta questa ipocrisia, non trovi?”
Le sue parole mi lasciano ammutolito e io mi trovo imbalsamato come un ebete mentre lei mi gira attorno, studiandomi con interesse. “Bene, so cosa fare.”
 
***
 
Mi sento ridicolo. Cioè, sono come qualunque abitante di Capital City solo un po’ più vistoso – se possibile –. Tutta la sala dei tributi è in fermento, colma di mormorii e, soprattutto, di tensione e sospetto. Volano alcune occhiate che sono diffidenti, altre predatorie, altre di curiosità. Da parte mia, resto accanto al mio carro, respirando profondamente per contenere questo batticuore impazzito. La parata dei tributi comincerà a breve: verremo presentati all’intera Panem, agli sponsor, alle nostre famiglie, ma, soprattutto, alla mente putrida e nefanda che ha creato tutto questo: Charles August Magnussen. Il mio sguardo s’imbatte in un poster raffigurante lui. E’ un essere spregevole, così dannatamente vuoto con quei suoi occhi… così… così… Non so neanche come definirlo. E’ come uno… uno…
“E’ uno squalo.”
Mi volto di scatto, sussultando. Alle mie spalle, le mani ficcate nelle tasche di un cappotto nero, un ragazzo dagli spumosi riccioli scuri fissa il manifesto con indifferenza, quasi noia.
“Come scusa?”
Lui non si scompone e si limita ad indicarmi l’immagine del presidente con il mento. “Magnussen. Stavi cercando di riportare una sua definizione esaustiva.”
Io seguo i suoi occhi glaciali, ripuntando lo sguardo sulla fonte delle sofferenze di Panem. Lo fisso, scavo in quegli occhi vacui… come quelli di un pesce. Ma la sua famelicità è tale da renderlo un predatore di prim’ordine, un essere agli apici della catena alimentare, uno squalo. Effettivamente, quel tipo ha proprio ragione.
“Scusa, ma come hai fatto a…”
Lui è sparito. Mi guardo attorno, esterrefatto, lo cerco e lo trovo accanto ad un carro ricoperto nero e lucido, intento ad accarezzare un meraviglioso stallone dal pelo corvino. Che tipo strano, quello…
Molly mi si avvicina timidamente, tirando debolmente la manica del mio vestito, come una bambina smarrita, e rivolge uno sguardo interessato al ragazzo dai riccioli neri. “Se non sbaglio quello dovrebbe essere Sherlock Holmes, del distretto due.”
“Ah…” mormoro solo. Che idiota che sono. Adesso che ci penso, sì, è proprio lui, il ragazzo che si è offerto volontario, il fratello del Capo Stratega in carica all’edizione a cui ha partecipato Greg.
“Certo che è davvero…” comincia Molly, ma poi si zittisce e rimane muta a contemplare Sherlock Holmes mentre monta agilmente sul carro, seguito da una ragazza dal viso torvo e antipatico, Sally Donovan, se non erro.
“Cosa?” domando a Molly prima di salire a mia volta sul calesse, porgendole una mano per aiutarla.
Lei accetta il mio aiuto, senza però badare troppo a me, ancora rapita dai movimenti eleganti e suggestivi di Holmes. “Davvero affascinante.” Quando si rende conto delle sue parole, arrossisce di colpo e si morde immediatamente un labbro, imbarazzata. Io sospiro e scuoto appena la testa.
“Molly…”
“Lo so! Okay? Non ho detto che mi sono perdutamente innamorata! L’ho visto solo una volta, non ci ho parlato e quindi sarebbe improbabile come cosa. Sta’ tranquillo, non mi farò condizionare…” Ma quelle ultime parole sfumano d’intensità, arrivando ad essere un pigolio appena accennato. Sospiro piano, con rassegnazione. D’accordo, forse è meschino, ma Molly è già abbastanza debole di suo, se poi questo viene incrementato da una sciocca sbandata potrebbe davvero essere la fine per lei.
Un addetto di Capital City entra nell’ambiente di corsa, con il fiatone e un auricolare gracchiante nell’orecchio.
“Ci siamo. Il primo carro partirà tra… tre, due, uno…”
Non faccio neanche in tempo a rendermi conto di che cosa sta succedendo che ogni cosa viene riempita dalla luce del sole. Davanti a noi, si estende un lungo viale costeggiato da spalti gremiti di spettatori urlanti, esaltati. Il carro del distretto uno parte, seguito da quello del distretto due, poi da quello del tre e così via, fino a che anche i nostri cavalli non partono al trotto, conducendoci sotto gli occhi famelici di Panem. I raggi di sole mi abbagliano, costringendomi a socchiudere appena gli occhi. Cerco di abituarmi a questa luce improvvisa dopo ore trascorse al chiuso, in stanze semibuie, quando la voce stupita di Molly mi desta dal mio fastidio.
“John… guarda.”
Apro gli occhi e il mio cuore perde un colpo. Il nostri vestiti, sotto l’illuminazione del sole, risplendono di luce propria e mi accorgo di essere circondato da un’aura dorata e benefica. Mi trovo a sorridere, incredulo. Le pietruzze verdi che costellano i nostri abiti emanano riflessi verdi, proiettando nell’aria interstizi di luci mozzafiato, riflettendo repentine visioni di alberi e di fiori. Gli sguardi ammirati di tutti mi pungono la pelle, provocandomi una sensazione emozionata e infastidita al tempo stesso.
“Oh signore.” esclama Molly all’improvviso, gli occhi puntati sul carro nero. Accade tutto velocemente: noto in ritardo il movimento elegante di Sherlock Holmes mentre si sfila il cappotto e lo lascia alle braccia del vento. Liberato dal soprabito, sfoggia un completo elegante, anch’esso nero, mentre sulla sua spalla destra compare uno spallaccio d’argento reggente un mantello scuro, ricoperto da fregi articolati somiglianti a stelle del cielo.
A quel gesto teatrale, la folla prorompe in grida di acclamazione e ogni singolo spettatore si alza in piedi, fischiando con ammirazione e battendo freneticamente le mani. Io stesso vengo rapito da questa visione, ma soprattutto, dal suo cappotto che, contro ogni dannatissima legge di gravità, invece che ricadere a terra vola all’indietro, verso i carri retrostanti. Inaspettatamente, supera il carro del distretto tre, poi quello del quattro, del cinque e del sei, e fa per passare oltre anche il nostro, ma devia brutalmente la sua direzione. La luce si oscura completamente, le grida della gente vengono smorzate e il fiato mi manca. Afferro la stoffa del soprabito e la tiro via dalla faccia, a metà fra il furioso e il meravigliato. Faccio saettare i miei occhi verso quell’Holmes e lo trovo leggermente voltato, un sorrisetto divertito e di sfida sulle labbra, poi, semplicemente, torna con lo sguardo puntato verso il palco rialzato su cui si erge altera la figura del presidente Magnussen. Che cosa diavolo è appena successo?
I carri si dispongono ordinatamente sullo spiazzo di fronte al palco, riempiendo ogni spazio, gli uni distanziati dagli altri, segno di un muto timore o di un conseguente ribrezzo reciproco. Magnussen avanza di fronte a noi con eleganza e maestosità, catturando l’attenzione di tutti. Gli basta alzare una mano perché ogni applauso, ogni esaltazione, ogni strillo si plachi. Un silenzio soffocante invade lo spiazzo e gli spalti, silenzio di cui il presidente si nutre silenziosamente, respirando l’effetto del suo immenso potere.
“Benvenuti, tributi.” esordisce con la sua voce schifosamente calma e rilassata. “Sono un uomo di poche parole e di fronte a giovani forti e coraggiosi come voi non posso che trattenervi il meno possibile e non annoiarvi con insulsi sermoni. Perciò, auguro a tutti voi di dimostrare il vostro valore nell’Arena e di non tirarvi mai indietro di fronte a qualunque sfida, anche se in quel momento vi sembrerà impossibile. Il nostro Paese, in cenere, come una fenice è risorto e voi siete la testimonianza di questa resurrezione. Felici Hunger Games a tutti e possa la fortuna essere sempre dalla vostra parte!”
 
***
 
Per la seconda volta nella giornata mi ritrovo conciato come un pagliaccio e in attesa del mio turno per esporre a tutto il Paese il mio stato di tributo, di martire. Per la seconda volta nella giornata avverto come una sensazione claustrofobica che mi prende alla gola e pare voglia soffocarmi. E sì, mio malgrado, per la seconda volta nella giornata sono inconfutabilmente, irreparabilmente attratto dalla figura di Sherlock Holmes. Non in quel senso, ovviamente, ciononostante è frustrante provare un mix di emozioni del genere, così contrastanti gli uni dagli altri, per una persona.
Da dietro le quinte, sporto appena verso il palco, sto assistendo all’intervista di Sherlock Holmes. E’ incredibile come un ragazzo di appena un anno meno di me possa risultare così intelligente e profondo.
“Allora, Sherlock.” continua Caesar dopo avergli fatto sporadiche domande su cosa significhi per lui essere un tributo. “C’è un quesito che ancora non ti ho posto ma di certo è quello che mi preme di più… Come mai hai deciso di offrirti come tributo volontario?”
Trattengo il fiato e come Flickerman e tutti gli spettatori attendo la risposta, desideroso di sapere. Da quando ho scoperto che fra i giocatori c’è un pazzo che si è immolato di sua scelta, non ho fatto altro che chiedermi perché.
“Non c’è una vera e propria ragione.” confessa infine Sherlock incrociando raffinatamente le gambe. “Semplicemente in quel momento mi sono detto: perché no? E quindi eccomi qui.”
“Caspita! Sei un tipo impulsivo. Ma non temi la morte?”
Lui scrolla le spalle con un sorrisetto di circostanza. “Perché dovrei? Vivere può risultare noioso senza alcun tipo di stimolo. La morte è solo un evento a cui semplicemente non si può sfuggire. E’ la linea del traguardo di tutti. Se è prima o dopo è solo un dettaglio minimo.”
Caesar aggrotta le sopracciglia, visibilmente colpito dalla saggezza impressa in quelle parole. “E’ proprio vero che il tuo quoziente intellettivo è superiore alla norma.”
Sherlock scrocia le gambe, un’espressione scocciata in volto. “Avevi dei dubbi forse? E va bene, se è una dimostrazione quella che volete, che dimostrazione sia.”
Batte le mani tutto gongolante come un bambino a Natale e, facendo perno sui palmi delle mani, porta i piedi sulla sedia, accucciandosi su di essa sotto gli sguardi allibiti di tutti.
“Vediamo…” mormora prima di congiungere i polpastrelli tra loro. “Vedete la prima fila di spettatori? Perfetto. Un bibliotecario, due insegnanti, due con un lavoro stressante, nelle residenze dei tributi, la segretaria di un medico che lavora all’estero, sette sposati, due hanno una relazione segreta tra loro, hanno mangiato the con i biscotti. Vuoi sapere chi ha mangiato una cialda, Caesar?”
Quello resta allibito per alcuni secondi, infine si rivolge alla prima fila di spettatori. “E’ come dice, amici?”
Un boato di approvazione è la conferma alla sua domanda. Guardo Sherlock, il suo sorriso vittorioso sulle labbra mentre si alza e stringe la mano del conduttore. Eclissandosi dal palco, si infila nel corridoio che conduce in questa stanza e, di fronte a me, si blocca, fissandomi con aria di sfida, come stamattina.
“Colpito, Watson?” mi chiede con voce beffarda mentre Dyachenko Ludmila, distretto tre, ci supera per salire sul palcoscenico.
“Come facevi a saperlo?”
“Non lo sapevo, l’ho dedotto.”
Io incrocio le braccia: se questo tipo è una sfida che vuole da me, beh, non mi tirerò indietro. “Dedotto da cosa?”
Lui rotea gli occhi con fare annoiato. “Andiamo, Watson. E’ facile, pensa.”
“I-io ho provato a guardarli ma non mi sembravano…”
“Appunto, perché tu guardi ma non osservi. Sei un idiota.”
Inarco entrambe le sopracciglia e gli rivolgo uno sguardo carico di astio e di ira repressa.
“No, no, no, non guardarmi così: lo sono tutti. A parte me e poche altre eccezioni.”
Detto questo, mi supera, alzando il bavero del suo cappotto nero che sembra essere diventato un suo segno distintivo da stamane, o forse lo è sempre stato. Avrei voglia di… sbatterlo nel muro e picchiarlo, eppure, allo stesso tempo, vorrei chiedergli chiarimenti, vorrei capire anche io. Mentre Caesar parla, porge domande, intervista i vari tributi, io non faccio altro che osservare con la coda dell’occhio la figura altera di Sherlock Holmes e chiedermi come è possibile che abbia capito tutto solamente con uno sguardo. No, mi spiace. Deve per forza essere un trucco, solo un magico trucco, come quello di un chiromante.
“John.”
Sussulto. Molly è di fronte a me, bellissima nonostante quel trucco pesante che ho imparato ad odiare su chiunque. “Sì?”
“S-sarebbe il mio turno. Mi fai un in bocca al lupo?”
“Oh, sì! Ma certo! In bocca al lupo, Molly.”
Lei mi sorride nervosamente prima di imboccare il corridoio come hanno fatto i sei tributi prima di lei. La osservo sbucare sul palcoscenico tentennante e lasciarsi baciare il dorso della mano da Caesar con aria smarrita.
“Allora, Molly.” esordisce Flickerman sporgendosi in avanti, una volta seduto. “Sei bellissima stasera, complimenti. Come ti senti?”
Lei non risponde, neanche lo guarda, e un senso d’allarme mi pervade.
“Molly?” la chiama infatti Caesar dopo alcuni secondi di silenzio durante i quali lei scruta con occhi confusi la folla.
“Come scusa?” domanda di rimando Molly scuotendo appena la testa, quasi a volersi riprendere. Merda, Molly… Eppure, il pubblico scoppia a ridere, imitato dal presentatore.
“Qualcuno è nervoso, stasera. Ad ogni modo, volevo farti una domanda riguardo la Parata: come ti sei sentita? Eri davvero incantevole, te ne sarai resa conto anche tu.”
Molly arrossisce violentemente e, di riflesso, ridacchia istericamente. “Veramente tutto quello a cui riuscivo a pensare era pregare di non cadere.”
Altra risata degli spettatori e stavolta anche io sorrido. Lei, ovviamente, nemmeno si rende conto del successo che sta pian piano accumulando.
“Ah, Molly.” sospira tra una risata e l’altra Caesar. “Non ti facevo una persona così divertente. Se posso permettermi, alla Mietitura mi sembravi alquanto smarrita e disperata.”
Stringo i pugni con rabbia: smarrita e disperata? Vorrei vedere lui al posto nostro. Molly, da parte sue, si stringe nelle spalle. “Lo ero, ma fortunatamente con me c’era John.”
“Ah già!” esclama Flickerman come se non aspettasse altro. “Tu devi perdonarmi, Molly, ma devi capire che io sono un romantico. Dimmi, c’è qualcosa tra te e il tuo compagno di avventure?”
Lei scuote violentemente la testa. “Assolutamente no. Da bambini eravamo molto amici, poi ci siamo persi di visti. Tra l’altro credo che mi rispetti visto che sono una delle poche ragazze che non sono cadute ai suoi piedi…” Come si rende conto di quello che ha appena detto si preme una mano sulla bocca, con sguardo colpevole. “Cavolo, non avrei dovuto…”
Ma il pubblico esulta, urla che vuole sapere di più. Lei protende entrambe le mani, scuotendole scoordinatamente. “No, non posso parlarvi della vita privata di John. Mi ammazzerebbe. Le ragazze con cui va a letto sono affari suoi.” Di nuovo serra la mascella sulla lingua, le orecchie rosse. Io mi porto una mano alla fronte e scuoto esasperato la testa. Comunque, al pubblico sembra piacere questo lato leggermente impacciato e al contempo pettegolo di Molly e potrebbe tornare utile.
Avverto una risata alle mie spalle e mi accorgo che Philip Anderson, distretto uno, si è appena appoggiato al muro, le lacrime agli occhi. “Certo, Watson, che se questi sono tuoi amici non so come possano essere i tuoi nemici.”
Io lo fulmino con lo sguardo, ma decido di ignorarlo e di restare concentrato sull’intervista di Molly. “Non è colpa di John… E’ che è la sua natura. E’ affascinante, simpatico, intelligente – a modo suo… cioè, no è intelligente…”
“Però, bella amica che ti ritrovi.” sputa Sally Donovan, distretto due. “Ti ha appena dato dello stupido di fronte a tutti.”
Stavolta faccio per rispondere a tono, ma una voce mi precede. “Lascialo stare, Sally.” I miei occhi saettano verso la fonte di quell’ordine e trovo, poco distante dai due, James Moriarty con un elegante Westwood blu scuro. Subito, sia Sally che Philip abbandonano la loro posa da bulletti e sgattaiolano via con facce contrariate ma comunque non sufficientemente adirate perché rispondano.
“Non avevo bisogno del tuo aiuto, per la cronaca.” gli faccio notare più acidamente di quanto vorrei.
La sua espressione, prima gentile e rilassante, si contrae in una smorfia ferita. “Scusa, io… credevo di farti un favore… Scusa ancora.” Non mi dà tempo di rispondere che si è già allontanato con le spalle leggermente curvate, quasi a sottolineare il peso di tutto questo che ci sta accadendo. Perché mi sono comportato in questo modo meschino? In fondo, siamo tutti sulla stessa fottutissima barca. Non sono loro i miei nemici. Loro sono solo… altre vittime. Merda, John, devi sempre tenere a mente chi è il tuo nemico.
“John!” urla Molly correndo verso di me e gettandomi le braccia al collo. “Ce l’ho fatta, John! Ce l’ho fatta!”
“Sì, grazie ai tuoi splendidi aneddoti sul mio conto.” borbotto di rimando io fintamente offeso, ma lei come al solito non coglie l’ironia e si affretta a staccarsi e a stordirmi con una raffica di scusa che si vanno stuzzicando l’un l’altro.
“Sì, sì, Molly, scuse accettate. Ma ora lasciami, che è il mio turno.”
“Ah, già. Scusa ancora, John. E in bocca al lupo!”
Mentre procedo nel corridoio che mi separa dal palco, respiro profondamente ma mi accorgo che, in realtà non sono agitato o emozionato. Sono… completamente insofferente. Come metto un piede sull’ampia piattaforme costellata di luci verdi e oro, la platea scoppia in un esagerato applauso. Vengo accolto dalle urla, da un’illuminazione abbagliante, da Caesar che mi stringe calorosamente una mano, e da un senso di repulsione per tutto quello.
“Ricorda chi sei e chi è il tuo nemico.”
“Benvenuto, John, benvenuto!”
“Buonasera, Caesar. Buonasera a tutti.” rispondo col sorriso migliore che riesco a tirar fuori in una situazione del genere.
“Dunque, come ho fatto con tutti ti chiedo: come stai, che cosa provi?”
“Dipende dai punti di vista, Caesar. Essere qui ha anche tanti vantaggi e molte cose interessanti.”
Lui si fa attento. “Ah sì? Ad esempio?”
“Il trattamento igienico. Da quando sono qui mi hanno obbligato a farmi quattro docce, a lavarmi i denti per ben sei volte e a profumarmi con due diverse fragranze che sposate insieme – come dice Ella, la mia stilista – formano un unicum mozzafiato.” Alle mie parole segue una risata generale che mi fa sorridere compiaciuto mentre mi accomodo meglio sulla poltroncina.
“Il trattamento igienico?” mi fa eco Flickerman cercando di contenere le risa.
“Oh, non temere, anche tu non sei male, dopotutto.”
Un applauso riempie lo studio e Caesar mi sferra uno schiaffetto divertito alla spalla, scuotendo la testa fintamente rassegnato. “Dimmi, John, è questo tuo modo di fare che colpisce le ragazze del tuo distretto?”
Io alzo gli occhi al cielo. Avrei dovuto aspettarmi questa domanda dopo la splendida presentazione fatta dalla cara Molly. “Che posso dirti, Caesar: ho un fascino naturale.”
“Ah, il classico talento da rubacuori. Credi che questo ti basti per vincere i Giochi?”
Io scrollo le spalle. “Non saprei, con le femmine potrei anche fare un tentativo ma con il campo maschile non ho esperienze a carico. Sapevo che avrei dovuto esercitare il mio potere anche sui ragazzi del mio distretto.” Intorno a me regna un clima viscidamente allegro e ovattato che mi si appiccica alla pelle e me la insozza. Ma devo stare calmo, non devo lasciarmi andare a questa sensazione di repulsione che provo in questo momento. “Scherzi a parte, spero che entrare nell’Arena non mi cambierà. Spero di rimanere sempre me stesso.”
“E il vero te sarebbe il ragazzo che ha salutato la sua casa con un sorriso luminoso e quello che sta scherzando animatamente di fronte a chi ti ha obbligato a stare qui? Sai come ti chiamano?” Continua prima che io possa rispondere. “Il conduttore di luce.”
I miei occhi si fanno grandi di meraviglia: d’accordo, sono consapevole che tutti, prima o poi, non possono durare nel mondo delle star senza avere affibbiato un soprannome. Poteva anche darmi peggio. “Wow, è un titolo importante.”
“Sono d’accordo, ma non ho dubbi che tu sia in grado di mantenerlo con onore e con il tuo solito sorriso, qualunque cosa accada.” Un battito esaltato di mani assente le sue ultime parole. Se non altro mi sono fatto notare in positivo. “E la tua famiglia, John? Come ha reagito alla tua nomina?”
La mano mi scivola istintivamente nella tasca della giacca indaco, sfiorando la penna. “Mia madre è stata la mia roccia. Lei sarebbe stata l’unica a potermi far crollare e non l’ha fatto. Lei ha scelto di non farlo. E…” Mi mordo amaramente un labbro, colpevole. “… Vorrei che sapesse che le voglio bene e che non dimenticherò mai tutto quello che ha fatto per me, per noi.”
Quelle ultime due parole mi sfuggono, incontrollabili, impossibili da riacciuffare. Ma nessuno sembra farci troppo caso, esageratamente preso dal contenere qualche sospiro commosso e qualche lacrima falsa.
“E noi tutti speriamo che tu possa tornare a casa per poterglielo dire di persona.” commenta Caesar prima di alzarsi in piedi, imitato da me, e stringermi affettuosamente la mano.
Quando esco fuori dalla portata di luci e telecamere, tiro un sospiro di sollievo. E pensare che è solo il primo, fottuto giorno. Fra due settimane sarò nell’Arena e verrò affettato davanti agli occhi di mia madre. Posso immaginarmela aggirarsi per la casa come un fantasma, la schiena incurvata dalle tante perdite, avvicinarsi alla mia camera, respirare il mio odore sulle mie magliette, stendersi sul mio letto e piangere le poche lacrime che le sono rimaste.
Con un gesto mesto tiro fuori la penna e la osservo, accarezzandola con nostalgia. Come sarebbe bello poter tornare indietro, cancellare ogni cosa, riavvolgere semplicemente il nastro della vita e rivivere all’infinito quei momenti felici che caratterizzano la nostra vita e non arrivare mai a quelli brutti, quelli spiacevoli. Con la coda dell’occhio vedo qualcosa muoversi in disparte, ma è troppo veloce perché possa capire di che si tratta. Mi sembra di scorgere del nero nel nero, ma potrebbe essere qualunque cosa. Ricaccio dentro la tasca la penna, sotterrando nella stoffa il passato, i sentimenti e il cuore. Tutte cose che non servono più, oramai.
 
***
 
“Mi raccomando, sapete quello che dovete fare.” ci ricorda per l’ennesima volta Greg, provocandomi inevitabilmente un’alzata d’occhi al cielo. Da quando, questa mattina, io e Molly ci siamo alzati – per niente riposati, ovviamente – non ha fatto altro che raccomandarsi su cosa fare durante questa prima giornata di allenamenti.
“Due settimane passano in fretta.” ha detto durante la mia assonnata opera di spargimento di burro e marmellata su un toast. “Perciò dovete approfittare di ogni minuto di ogni ora di ogni dannato giorno. Nell’Arena non avrete un attimo di respiro, i nemici saranno tanti e voi dovrete guardarvi le spalle reciprocamente. Tuttavia, farsi degli alleati potrebbe essere costruttivo, anzi, sicuramente sarà costruttivo, perciò vi prego di sfruttare questi giorni al meglio sia per addestrarvi che per stringere delle alleanze.” Eccetera, eccetera, eccetera… Un accumulo di ripetitività mista ad ansia. La verità è che, da un lato, lo capisco, Greg: sa per certo che uno di noi due morirà, se va bene, e questo deve turbarlo non poco. Mi immagino nei suoi panni: essere un mentore, affezionarmi a ragazzi spauriti che si trovano nelle stesse condizioni in cui sono mi sono trovato io in passato, vederli soffrire, attraversare pericoli, morire… e credere che sia tutta colpa tua.
“… E ricordate che la difesa…”
“E’ il migliore attacco, sì, Greg, abbiamo capito.” lo interrompo prima che ricominci il discorso da capo. Lui arrossisce violentemente, rendendosi conto della situazione, e si gratta nervosamente la testa.
“Sì, infatti, scusate è che…”
Molly gli poggia dolcemente una mano sulla spalla e gli sorride. “Andrà tutto bene, Greg. Almeno per oggi. Sei il miglior mentore che avremmo mai potuto avere e ti siamo entrambi grati per tutto il lavoro che fai e che hai fatto in questi pochi giorni.”
Lui si rilassa appena sotto quel tocco e al suono di quelle parole. Anche io gli do un’amichevole pacca alla spalla, pentendomi della mia antipatia di poco fa. “Scusa, Greg. Sei un grande anche se a volte puoi risultare un tantino ripetitivo.”
“Divertente.” mi risponde lui mimando una boccaccia a cui sia io che Molly scoppiamo a ridere. I Pacificatori che ci stanno conducendo alla sala degli allenamenti si fermano di fronte a una porta d’acciaio. “Siamo arrivati.” sentenzia uno facendo scorrere la tessera identificativa lungo la serratura elettromagnetica. La porta si apre scorrendo e i due soldati si fanno da parte per lasciarci libero il passaggio.
“In bocca al lupo, ragazzi.” mormora Greg alle nostre spalle, prima che le ante si richiudano su se stesse, inghiottendo il suo volto apprensivo.
Nella stanza riecheggiano gemiti di fatica e grida combattive. Osservo in una sorta di stato catatonico i vari tributi allenarsi strenuamente, portare il loro corpo all’apice delle energie, ricercare in se stessi quelle abilità fondamentali per sopravvivere. E per la prima volta ho paura. Paura vera. Consistente. Non sembrano esseri umani, ma vere e proprie macchine da guerra.
Philip Anderson, distretto quattro, sta colpendo con un arpione ologrammi in corsa, uno dopo l’altro, frantumandoli in frammenti che si dissolvono toccando terra; Sally Donovan, distretto due, al suo fianco, gli batte amichevolmente le mani, sottraendogli di mano l’arma e cominciando a sua volta l’allenamento; su un ring, Harry Knight, distretto tre, lotta come una belva contro Sebastian Moran, distretto cinque, ed entrambi si sferrano a vicenda colpi terribilmente violenti, che mi sembrano avere come obbiettivo quello di ferire, quello di far male sul serio; Ludmila Dyachenko, distretto tre, è intenta a scagliare coltelli da lancio contro bersagli, cercando di spezzare a metà le frecce scoccate magistralmente da Irene Adler, distretto uno. Tutto è un fermento instancabile, un moto continuo e incessante.
All’improvviso, come richiamati da un fattore comune, ogni singolo tributo si ferma e si volta in direzione nostra, scrutandoci con occhi ferini. Ignorando il senso di essere completamente fuori posto, indurisco lo sguardo e ricambio ogni occhiata. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è essere visti come prede succulente su cui avventarsi alla prima occasione. Dopo alcuni, sfinenti secondi, ognuno riprende l’allenamento, tornando ad ignorarci come se non fossimo mai esistiti.
“J-John?” mi chiama flebilmente Molly, appena nascosta dietro di me. “C-che facciamo?”
Mi guardo intorno, studio la situazione e penso. Penso a cosa sia giusto fare in questo momento. Penso a cosa potrebbe fornirci il risultato più fruttuoso. Non mi è piaciuta l’occhiata che ci hanno appena rifilato. Siamo soli e a quanto pare stanno già cominciando a formarsi gruppetti coalizzati.
“Ci facciamo qualche bell’amico.” dichiaro imprimendo un tono ironico nella voce e facendo un passo avanti. “Dobbiamo capire quelli di cui non ci fidiamo e, una volta scartati quelli, vediamo chi ci resta. Okay?” Non aspetto risposta e avanzo alla mia sinistra mentre le indico col mento la destra.
Comincio a studiare i vari tributi di cui non ricordo neanche con precisione i nomi. Chi? Chi potrebbe rivelarsi un buon alleato? Mi passano davanti ragazzi dallo sguardo iniettato di sangue, altri spauriti, che se ne stanno in un angolo, altri ancora che maneggiano goffamente un qualunque attrezzo.
“No… no… no… no…” scarto mentalmente passando ognuno in rassegna. E continuo fino a quando i miei occhi non incontrano una figura inginocchiata di fronte a… qualcosa. Inforcati sul naso, un paio di occhiali neri con lenti rotonde, rosse e blu, estremamente singolari. Sherlock Holmes. o no?
Sherlock Holmes = stronzo.
Sherlock Holmes = intelligente.
Sherlock Holmes = affidabile?
Ritengo che un tentativo sia… d’obbligo… Faccio per avvicinarmi, quando fra me e lui si frappone la figura slanciata di Irene Adler.
“Ciao.” lo saluta con voce improvvisamente civettuola. Lui non si smuove e continua imperterrito il suo lavoro. “Attenendoci ai soliti stupidi modi di fare conversazione che hanno come base quella di sottolineare l’ovvio, io sono Irene Adler, distretto uno, e interessata a te.”
Inarco un sopracciglio evidenziando la mia perplessità di fronte a quella scena. Sherlock Holmes, di nuovo, non dà segni di averla sentita.
“Oh!” esclama la Adler incrociando le braccia al petto. “Ora mi è tutto più chiaro: sei il classico uomo che fa il difficile… Va bene, lo rispetto e ti ammiro. Ho una proposta per te: perché non…” si china su di lui, sfiorandogli un orecchio con le labbra e mormorandogli qualcosa che non riesco ad udire da qui.
Finalmente, Sherlock Holmes si raddrizza appena, la schiena magra irrigidita completamente. Si alza in piedi e punta su Irene Adler uno sguardo torvo e di sufficienza. “Oh, andiamo. Se io sono il classico uomo che fa il difficile tu sei la classica donna che non si fa problemi ad andare a letto con chiunque per arrivare ai suoi scopi. Compiaci la gente per avere ciò che vuoi, ti impiastri la faccia di trucco per sottolineare i tuoi punti di bellezza, ti cospargi di profumo per risultare più seducente, e hai questo atteggiamento provocatorio per apparire desiderabile. Smettila di annoiarmi e vattene, ho qualcosa di decisamente più sexy di te a cui pensare.”
Spalanco gli occhi e rimango pietrificato. Irene Adler è completamente cinerea, gli occhi infiammati di rabbia, le mani chiuse a pugno. Rimane qualche istante a fissarlo con uno sguardo carico di odio puro prima di retrocedere ed eclissarsi in direzione di qualche poveretto da accalappiare. Sherlock Holmes fa per tornare a lavoro, ma lo vedo immobilizzarsi improvvisamente, il corpo intero in tensione. Infine, si rilassa e riprende il suo operato. “Watson, mi stavi cercando?”
La sua voce mi raggiunge come uno schiaffo e mi gela il sangue nelle vene. Merda… Mi ha beccato. “I-io non…”
“Puoi prestarmi la tua penna? Ho bisogno di scrivere la reazione di questa pianta velenosa sull’epidermide umana.”
“L-la mia…”
“Coraggio, Watson. Sono un tributo dotato di un’intelligenza suprema, un sociopatico incline all’iperattività, non fare quella faccia stupita.”
“Sì, però…”
“E tu sembri non essere in grado di completare una frase per intero, andrai perfettamente.”
“Andrò perfettamente per cosa?”
“Come alleato. E sì, questo è il mio modo per dirti che accetto la tua offerta.”
Me ne sto fermo come un idiota, a contemplare la sua schiena. Ha parlato senza prendere fiato, senza degnarmi di uno sguardo e senza neanche constatare che fossi davvero io.
 
  1. Come diavolo mi ha notato?
  2. Come faceva a sapere della penna?
  3. Come ha fatto a capire che avevo intenzione di chiedergli di formare un’alleanza?
 
“Watson? Oltre ad essere muto sei anche sordo? La penna, per favore.” mi ripete, stavolta voltandosi e guardandomi.
“S-sì…” balbetto stupidamente mentre immergo la mano nella tasca dei pantaloni e ne estraggo la penna. Mi avvicino con passo titubante e gliela porgo tenendomi a una certa distanza. Mentre lui me la prende dalle mani, le sue dita sfiorano le mie e mi rendo conto che sono incredibilmente fredde.
“Grazie.” borbotta prima di appuntarsi freneticamente qualcosa di incomprensibile, fatto di formule e simboli che non capisco. Sherlock Holmes… si è offerto volontario, sta mettendo la sua vita a rischio spontaneamente, ha accettato di abbandonare la sua casa e la sua famiglia di sua intenzione. Perché? E’ davvero così affamato di gloria? Di denaro? O è solo disperato? “Quanti anni fa se n’è andato?”
Quella domanda mi riscuote dai miei pensieri. “Scusa?”
“Tuo fratello. Da quant’è che non lo vedi?”
Fratello? Sta… sta parlando di Harry? Come fa a sapere… Chi diavolo è questo ragazzo?
Mi mordo febbrilmente il labbro inferiore e mi attardo a rispondere. “Sei mesi, ma come facevi a saperlo?”
Lui mi restituisce la penna, evitando di voltarsi e scatta in piedi in modo pimpante, col suo foglio completamente imbrattato d’inchiostro in mano. “Sto lavorando a un piano che possa permetterci di non essere la fonte di due dei primi dodici colpi di cannone, ma per farlo ho bisogno della tranquillità adatta, cosa che non posso sicuramente trovare qui dentro. Sono tutti così agitati…”
Con una mezza piroetta lascia correre lo sguardo intorno, e si blocca soltanto quando i suoi occhi s’imbattono in un gruppetto esiguo radunato in un angolino. Con un balzo all’indietro si porta alla mia altezza e si china appena su di me, il mento che guizza verso quella direzione. “Non fidarti di loro, di nessuno di loro. In particolare, non fidarti di quel James Moriarty.” mi sussurra all’orecchio con voce bassa, profonda. Deglutisco istintivamente nell’udire quel suono così cupo e tenebroso e mi limito ad annuire.
Quando però lo vedo proseguire elegantemente verso l’uscita quel briciolo di lucidità che avevo perso durante tutta la conversazione con lui mi ripiomba addosso con tutta la sua chiarezza.
“Tutto qui?”
“Tutto qui cosa?” mi fa eco lui degnandomi appena di uno sguardo.
“Ci siamo appena incontrati e ora siamo alleati in un gioco in cui potremmo perdere la vita.” osservo ironicamente assottigliando gli occhi.
“Problemi?”
Un sorrisetto istintivo mi sfocia sulle labbra. “Non sappiamo nulla l’uno dell’altro, non so a che progetto stai lavorando per salvarci le penne e so a malapena il tuo nome.”
Sherlock torna sui suoi passi, avvicinandosi a me come farebbe un entomologo con un insetto. “Io so che tu sei un ragazzo che crede di avere molte ragioni per tornare a casa, ma la verità è che della tua vita non ti importa veramente così tanto, non se questo può comportare di cambiare radicalmente il tuo modo di essere. So che hai un fratello con cui non hai più rapporti da tempo, dato che se n’è andato di casa, probabilmente perché avete avuto una discussione riguardo il suo alcolismo o più semplicemente perché di recente ha lasciato sua moglie. E so anche che quando sei solo e pensi che nessuno possa vederti, tiri fuori quella penna e ti aggrappi a lei come se fosse animata… E’ sufficiente per essere alleati.”
Il mio volto si maschera di sbigottimento. Vorrei ribattere, vorrei anche solo spicciare parola. Maledizione, è davvero… davvero un tipo fuori dal comune. Deve aver fatto delle ricerche su di me, deve per forza averle fatte! Eppure, mentre si allontana leggiadramente, mi rendo conto che sono diabolicamente attratto dalla sua capacità… divinatoria? Intellettiva? Non ho nemmeno idea di che cosa sia, ma ho idea che presto lo scoprirò…
 
***
 
La sera è ormai scesa su Capital City. Il cielo di pece è spennellato di puntini pulsanti e scie di astri che dall’alto ricambiano la mia occhiata dal basso. Persino le stelle assistono freddamente a questa strage che si sta compiendo silenziosamente e sotto gli occhi inconsapevoli di tutti. Un tempo, quando mia nonna era ancora in vita, la sera mi capitava di pregare chissà quale Dio affinché io e Harry ricevessimo la grazia del cielo. Ora, in questo sinistro spettacolo di indifferenza da parte degli astri stessi, non provo altro che rassegnazione. Rassegnazione per un destino che non posso scansare. Ripenso alle parole di quello Sherlock Holmes: sei un ragazzo che crede di avere dei molte ragioni per tornare a casa, ma la verità è che della tua vita non ti importa veramente così tanto.
Non lo so nemmeno io quello che sento, come può saperlo quello stronzetto saccente? Ho parlato con Greg a proposito dell’incontro, a cena: ho raccontato, restando sul vago, dell’esuberanza di Sherlock, di come sapesse del mio desiderio di formare un’alleanza – non necessariamente con lui – ancora prima che avessi aperto bocca… Molly si è semplicemente lasciata andare ad un sospiro pateticamente invaghito, mentre Greg ha cominciato a tamburellare con le dita sul vistoso tavolo, pensoso.
“E’ un ottimo punto di partenza. Lui è di certo uno dei Favoriti, dovete cogliere questa opportunità al volo, ragazzi.” ha esclamato infine vuotando il bicchiere con la birra.
“Sono d’accordo.” ha cinguettato in risposta Molly cominciando a tormentarsi i capelli con le dita su cui è magicamente apparso dello smalto – opera di Ella, suppongo.
Io, invece, mi sono alzato silenziosamente e diretto verso l’enorme vetrata da cui si riesce ad abbracciare gran parte della capitale con un solo sguardo. “Non mi fido di lui.” ho sentenziato dopo poco. La verità è che non mi fido di nessuno. Sono tutti così diversi da me… A loro non interessa trasformarsi in animali, in carnefici, in mostri. Loro farebbero qualunque cosa pur di salvarsi, mentre io…
Greg ha cercato, come al solito, di spiegarmi che era per il nostro bene e che questa scelta ci avrebbe fruttato molto, bla, bla, bla…Dopo circa un minuto, avevo già distolto l’attenzione dalle sue parole agli Hunger Games che si stanno avvicinando. Il fatto che Sherlock Holmes sia geniale e, presumo, uno dei pochi che mi pare non essere un completo squartatore patentato, non riesce a placare il dubbio. E contemporaneamente, il fatto che io dica di non fidarmi… non so, è come se non potessi non fidarmi di lui. Come se stamattina mi avesse gettato un amo a cui io ho abboccato immediatamente, senza neanche rendermene conto. Merda.
Le uniche luci accese della nostra suite sono ormai soltanto le mie. Greg e Molly sono andati a riposare un’ora fa. Lei era sfinita per il duro allenamento a cui ci siamo sottoposti e anche io avverto un tedioso intorpidimento alle membra, ma non ho alcuna voglia di dormire. Se dormo ho paura che possano venirmi incontro visioni del mio distretto, di mia madre, della mia vecchia famiglia… Percepisco una strana sensazione di soffocamento, come se non riuscissi a respirare bene, come se l’aria che mi entra nei polmoni non fosse abbastanza. Mi porto immediatamente una mano alla gola, gli occhi sbarrati, e cerco di contenere il battito impazzito del mio cuore che sta marciando così forte e impetuoso da farmi male. Mi chino a terra e cerco di respirare. Capisco praticamente subito che cos’ho. Tutti i manuali di medicina di mio padre mi tornano alla mente con uno sfogliare frenetico di pagine e di argomenti a partire dalle più banali influenze alle malattia più seriose. Comincio a contare lentamente da cento in giù, cercando di sincronizzare ad esso il mio respiro, mentre le mie dita si serrano attorno alla penna. Dopo qualche minuto, le palpitazioni cessano, così come la sensazione di soffocamento. Attacco di panico. Mio padre ne soffriva… ma a me non era mai successo prima d’ora.
Mi rialzo con cautela, aiutandomi con l’appoggio della parete. Forse è meglio che ora vada a letto e mi riposi… Non faccio in tempo a pensarlo che una domestica in camicia da notte mi si avvicina, porgendomi un telegramma. “Per lei, signorino Watson.”
Io la ringrazio distrattamente, completamente assorto da questa sorpresa inaspettata. Prendo il foglietto su cui sono appuntate poche, semplici parole: Alloggi Distretto Due, vieni se possibile. Se non puoi, vieni lo stesso. SH
Aggrotto la fronte e rileggo il messaggio, completamente allibito. Sherlock Holmes mi vuole vedere adesso? Alle due e mezzo di notte?
“E’ sicura che sia per me? Magari si è sbagliata e…”
“Nessun errore, signorino. Ora, se non le dispiace, ritorno alle mie stanze.” mi interrompe, assonnata e trattenendo visibilmente uno sbadiglio, per poi voltarsi e schizzare via per tornare a letto. Poveretta.
Sospiro rassegnato e, ficcandomi il biglietto in tasca, mi dirigo verso gli alloggi del distretto due.
 
***
 
“Era ora.”
Mi fermo, una falcata ancora a metà. Eh no. Non ce la posso fare. Sento che potrei strozzarlo. “Sai com’è… La gente alle due e mezzo di notte è solita dormire. Sono stupide consuetudini, nulla da tenere in considerazione. Ho solo vagato per tutto questo fottuto palazzo cercando il distretto giusto visto che pare che anche il resto della gente a quest’ora dorma.”
“Non mi dire…” risponde distrattamente, non percependo o ignorando spontaneamente l’acida vena ironica impressa nelle mie parole. E’ seduto su una poltrona di pelle, intento a leggere un qualche pesante tomo. “Siediti, se trovi qualche spazio libero.”
Alzo gli occhi al cielo mentre mi guardo intorno: il caos qui dentro regna dittatorialmente, ricoprendo ogni singolo angolo dell’ampio salone. “Che disastro…” mormoro sedendomi su una poltrona rossa, accanto a una pila di volumi sulla cui sommità e poggiato un teschio estremamente inquietante. “Le domestiche puliscono mai?”
“La signora Hudson non fa che ripetere che dovrebbe dare una sistemata, ma io odio che gli altri tocchino le mie cose.”
I miei occhi vengono attratti da una pantofola singolare, azzurra, con fregi dorati e articolati. Ciò che non mi sarei mai aspettato di trovarci dentro è un pacchetto di sigarette. Gli lancio un’occhiata incredula. “Tu fumi?”
“No, o almeno, non sempre. Soltanto quando mi annoio. Ho praticamente smesso.”
“Mhm... Un toccasana per i polmoni.” noto poggiando la ciabatta a terra e facendo correre lo sguardo per l’intonaco bianco e nero a un certo punto sormontato da un enorme smile giallo.
“Ah, respirare… Respirare è noioso.” replica con tono traboccante di boria su cui però decido deliberatamente di sorvolare altrimenti alla fine di questo incontro lo avrò ucciso per la sua saccenteria.
“E quello?” domando indicandogli lo schizzo sulla parete. Lui segue il mio dito puntato e sorride arrogantemente.
“L’ho disegnato io.”
“Sono fori di proiettile quelli?”
“Mi annoiavo.”
“E hai deciso di prendertela col muro?”
“Il muro se l’è meritato.” ribatte spocchiosamente prima di richiudere platealmente il libro sui stava facendo scorrere rapidamente gli occhi. “Ad ogni modo, ti ho fatto chiamare qui perché credo che dovremmo conoscerci meglio.”
Spalanco gli occhi e lo fisso come si fisserebbe un pazzo. “Sei serio? Cioè, fammi capire: tu mi hai buttato giù dal letto nel cuore della notte solo per… fare conoscenza?”
Lui scrolla le spalle con non curanza. “Esatto, non sono gentile?”
Gentile… No, no, Holmes, svegliare la gente alle due di notte non è gentile.”
Sherlock Holmes rotea gli occhi con fare tediato. “Quanto la fai lunga, Watson, tanto lo so che non dormivi.”
“Ma davvero?” gli faccio con un sorrisetto di sfida.
“Sì, davvero.”
Cala qualche istante di silenzio durante cui ci scrutiamo in cagnesco, gli occhi ridotti a due fessure inespugnabili. Non so che cosa mi tradisce. Forse la tensione, forse lo sguardo improponibile di Sherlock, forse tutta la situazione in generale. Cerco di trattenermi, ma una risata sincera abbatte le mura elevate dai miei denti stretti e fuoriesce fragorosa, scomposta. Una risata che non credevo sarebbe più potuta uscire dalle mie labbra.
“Cosa?” mi chiede Sherlock inarcando un sopracciglio.
“Niente, solo… Ti sei accorto che continuiamo a chiamarci per cognome e che non facciamo altro che inveire l’uno contro l’altro?” La sua espressione, prima sconcertata, si rilassa appena e si scioglie in un sorriso. Mi alzo dalla poltrona con un sospiro e gli tendo una mano, arricciando le labbra divertito da tutto questo. “Ricominciamo da zero: John Watson, piacere di conoscerti.”
“Che stai facendo?” mi chiede di rimando lui sbattendo ripetutamente le palpebre.
“Non mi hai chiamato qui per… conoscerci meglio? Dato che Capital City ha bruciato per noi le tappe iniziali sarebbe bene recuperare, quindi mi pare d’obbligo cominciare con le presentazioni.”
“Noioso.”
“Cosa?”
“Tu. Sei noioso.”
“Sto cercando di fare conversazione!”
“No, stai cercando di annoiarmi, è diverso.”
“Sembri proprio un bambino, sai?”
“Non sono io il bambino, sei tu che sembri morire dalla voglia di sottolineare l’ovvio.”
Faccio per ritrarre la mano, imbufalito da questo atteggiamento così maledettamente irritante, ma subito lui me l’afferra, con un gesto fulmineo, e la stringe lentamente, addolcendo appena lo sguardo. “Comunque, già che ci siamo… Io sono Sherlock Holmes e, sebbene non sia realmente convinto di quello che sto per dire, anche per me è un piacere.”
Mi ritrovo inspiegabilmente a sorridere, come un idiota, e a ricambiare quella stretta così terribilmente confortante. Per un lasso di tempo esageratamente dilatato. “John?” mormora Sherlock chiamandomi per la prima volta col mio nome. Fa uno strano effetto sentirlo pronunciato da lui. Sembra quasi racchiudere un senso smisurato di tenebrosità, come gli abissi di un oceano.
“Mhm?” mugugno solo.
“La mano.”
“Come?”
“La mano. Credi potrei riaverla entro domattina?”
Abbasso gli occhi e mi rendo conto solo in questo istante che le mie dita stanno ancora arpionando la sua mano candida e nodosa. Ritraggo subito il braccio, imitando una finta tosse per dissimulare l’imbarazzo che sono certo abbia cominciato ad imporporarmi le gote.
“Mi…” biascico rocamente, cercando di incatenare questo disagio che è improvvisamente scoppiato in me. “… mi spieghi che ci fai con tutta questa roba? E’ tua?”
“Yep.”
“Ma non è illegale portarsi cose da casa?”
Lui mima un gesto d’insofferenza con la mano, storcendo appena le labbra in un’espressione di completa noncuranza. “Essere il fratello di un’ex Capo Stratega avrà pure un suo valore, no?”
“E la Donovan?”
“Secondo alloggio del secondo distretto. Non ero di certo desideroso di avere la sua lingua di vipera – e in particolar modo il suo pugnale – a poca distanza dalla mia faccia. E lei mi è sembrata raggiante all’idea di avermi fuori dai piedi.”
“Vi odiate proprio tanto, eh?” osservo amaramente riaccomodandomi sulla poltrona e lanciando uno sguardo di compassione al povero teschio che ha dovuto affrontare tutto questo trambusto.
“Io non la odio, ritengo semplicemente che sia la classica idiota che si ostina ad essere stupida invece che aprire la sua mente. Lo dico per lei.”
“Commovente, davvero.” constato con un mezzo sorriso. “Ti fa onore.”
Lui sospira sonoramente e stringe le dita sui braccioli della poltrona di pelle. “Ad ogni modo, sei qui per una ragione ben precisa.”
“Credevo volessi conoscermi meglio.”
“Ovviamente non è la verità. Ti ho fatto chiamare perché ho bisogno di elaborare un piano lungimirante a proposito dei Giochi. Il tuo punto di forza?”
Io prendo a tamburellare con le dita sul mio ginocchio, un’espressione divertita in volto. “Stai scherzando?” Lui mi fa segno di non aver capito. “Davvero credi che io venga a dire a te i miei punti di forza?”
Punti di forza, quindi, eccellente.” osserva Sherlock annotandosi qualcosa su un block-notes che tiene in equilibrio sulle gambe. “Problemi di fiducia…” mormora poi congiungendo le dita in un gesto simile a quello di preghiera. “Non ho bisogno che tu mi dia delucidazioni: potrei benissimo scoprire ogni cosa limitandomi a guardarti.”
“Come?”
I suoi occhi di ghiaccio si accendono, come se non avesse aspettato nient’altro fino ad adesso.
“Quando ti ho chiesto da quanto tuo fratello se ne fosse andato, mi sei sembrato stupito.”
“Come facevi a saperlo?”
“Non lo sapevo, l’ho dedotto. Dopo la tua intervista, ti ho visto tirar fuori la penna e così stamattina ho dedotto che l’avessi ancora con te e che la portassi ovunque tu vada. Parliamo della penna, dunque: è elegante, molto elegante, troppo elegante per un distretto come il sette. E’ il classico regalo di matrimonio per cui non si bada a spese. Potrebbe appartenere a tuo padre, ma lo ritengo alquanto improbabile dato che questo è un modello recente, uscito otto mesi fa direttamente dalle fabbriche del distretto uno, perciò no, non può appartenere a tuo padre. Ora, l’incisione: Clara… chi è Clara? Tre baci indicano un coinvolgimento amoroso, il costo della penna un rapporto coniugale. Tuo fratello se n’è andato sei mesi fa, lasciandoti il regalo di nozze di sua moglie, indicando dunque che la loro storia è finita. Se fosse morta o se fosse stata lei a lasciare lui l’avrebbe tenuta, invece lui la ricicla, regalandola a te. No, dev’essere stato lui a lasciarla. Tu e tuo frtello non vi sentite più dato che nella tua intervista, quando Caesar ha accennato alla famiglia, tu hai fatto riferimento soltanto a tua madre e non a tuo fratello, perciò ne deduco che corrano cattivi tempi fra di voi.”
“…Come diavolo sai che Harry beve?” lo interrompo di getto.
“La punta della penna è leggermente danneggiata ai lati, sintomo che la sua mano tremava. Un alcolismo compulsivo porta un frequente tremore alla mano, soprattutto la mattina dopo l’ubriacatura, momento più probabile nella giornata in cui scrivere – magari una lista, magari un appunto sul calendario –. Come faccio a sapere che è un alcolista e non soffre di una qualche patologia? Se avesse avuto problemi di salute molto probabilmente una madre forte come tu descrivi la tua l’avrebbe sicuramente tenuto accanto a sé e tu stesso ti sentiresti un miserabile nel provare una forma attenuata di odio nei confronti di tuo fratello. Invece no, tua madre l’ha lasciato andare e tu lo ripudi. Quindi sì, confermo la mia teoria sull’alcolismo di tuo fratello.”
Tace. Le parole sfumano. Il silenzio regna. Lo fisso con occhi sgranati, completamente rapito dalla valanga di spiegazioni che mi ha appena fornito. Cerco di deglutire ma sembra che abbia dimenticato come si faccia. Lui, invece che rivolgermi uno dei suoi sguardi saccenti che ho ormai imparato a conoscere, evita il mio sguardo, come se fosse in qualche modo pentito… anzi no, come se attendesse l’arrivo di una qualche tempesta.
“E’ stato…” mormoro riprendendomi a poco a poco. “… incredibile.”
Sherlock alza di scatto la testa, stavolta la confusione regna sul suo di viso. “Davvero?”
“Ma certo, semplicemente… sensazionale.”
Il suo stupore si liquefa come un cubetto di ghiaccio al cielo e un sorriso sollevato fa guizzare gli angoli delle sue labbra verso l’alto. “N-non è…” balbetta suscitando in me una strana tenerezza. “… Non è ciò che la gente dice di solito.”
“E cosa dice la gente?”
“Fuori dai piedi.” Porta una mano al suo zigomo e se lo massaggia piano, dolcemente, uno sguardo triste in volto. Lo guardo e sento qualcosa. Qualcosa che non so spiegare. Non è… pena, è qualcosa di diverso, di più forte, di nuovo è… fiducia. Non posso non fidarmi di questo ragazzo. E’ la mia unica possibilità di sopravvivere e… e non ho scelta.
“So sparare.” confesso. “Mio padre aveva una pistola e mi ha insegnato ad usarla da piccolo. Ma ovviamente fra le armi dell’Arena non è presente una pistola, quindi…”
“Una balestra.” controbatte sveltamente lui. “Una balestra è quello che ci serve. Il meccanismo è pressoché identico, non avrai problemi con quella.”
Mi trovo a concordare con lui annuendo col capo. “Conosco un sacco di piante e i loro effetti.”
“Sempre ammesso che la locazione preveda una foresta, altrimenti non ci sarà di nessun aiuto.”
Incrocio le braccia, corrucciato per essere stato appena sminuito in questo modo. “So curare le ferite. E’ da quando ho tredici anni che studio sui tomi di medicina di mio nonno.”
“Questo è meglio. Nient’altro?”
“Sai, non sono una fabbrica di punti di forza, sono solo io. Tu invece?”
Mi sorride con fare enigmatico e si sporge in avanti, intrecciando le lunghe dita candide. “Ogni cosa a suo tempo, John.”
Io mi sporgo in avanti a mia volta, le nostre ginocchia che si sfiorano impercettibilmente. “Io ti ho detto i miei punti di forza, non è giusto che tu…”
Lui balza sulla poltrona come un felino e si allunga indietro, rischiando quasi di cadere. Quando ritorna seduto, in braccio stringe con fare paterno un oggetto dotato di un corpo di legno lucido, da cui si estende un lungo collo sormontato da diverse corde. Mi incanto nel contemplare tale bellezza. Sherlock lo accarezza con delicatezza e mi lancia sguardi divertiti. “E’ un violino.”
“Un cosa?”
“Un violino.” ripete, ma diversamente di come mi sarei potuto aspettare se fossi stato nel pieno delle mie facoltà e non imbambolato ad ammirare quell’aggeggio così bello, la sua voce non contiene tracce di saccenteria. E’ nostalgica, toccata da una punta di tristezza. “Ormai è da molto tempo che qui su Panem non se ne vedono in giro, specialmente nei distretti inferiori.”
Mentre ancora sta parlando, assume una posizione elegante, il mento poggiato sulla pancia di questo violino, la mano sinistra stretta attorno al collo e la destra intenta a sollevare un… non saprei come definirlo, alla cui presenza non avevo neanche fatto caso.
“Questo, invece, è un arco. E’ dotato di una corda fabbricata con crini di cavallo. A contatto con le corde del violino riesce a sprigionare dei suoni indescrivibili.”
Trattengo il fiato, torcendomi interiormente in questa sfibrante attesa che ha il sapore acre della sete. Sete di conoscenza. Voglio sentire quei suoni indescrivibili e per un attimo Sherlock sembra sul punto di cominciare a… tirar fuori quei suoni, ma dopo un po’ abbassa il violino e fa per lasciarlo nuovamente ricadere sulle gambe.
“Perché non…”
Mi mordo la lingua, trattenendo le parole a stento. Lui ha assunto un’espressione fragile e incommensurabilmente lontana. Sembra distante miglia e miglia, imprigionato in un universo sconosciuto.
“Ho smesso. Il violino… appartiene a un’altra vita, a un altro me. Non lo suonerò mai più… Mai.”
Vorrei chiedergli perché. Perché non suona più, perché tutto quello appartiene ad un’altra vita, ad un altro lui. Ma il suo volto è sprangato come un’inferriata. E non siamo arrivati ad un livello di conoscenza tale che mi autorizzi ad intromettermi nelle sue questioni private. E tra l’altro non m’interessa neanche instaurare chissà quale rapporto con lui. Alleati. Solo alleati.
“Comunque, su una cosa hai sbagliato.” confesso ridacchiando interiormente per la batosta che gli sto per dare. “Harry è il diminutivo di Harriet.”
“Tua… tua sorella?”
Lo vedo rabbuiarsi come un bambino capriccioso. Sorrido di fronte a quella visione così singolare: a quanto pare sono uno dei pochi ad essere riuscito a zittire Sherlock Holmes
“Perché non te ne torni a dormire? Domani sarà una lunga giornata.”
La sua voce interrompe il filo dei miei pensieri. Mi limito ad annuire e ad alzarmi. Domani sarà una lunga giornata… come dargli torto. Lo sarebbe stata anche quella dopo. E quella dopo ancora. Ma io sono John Watson. E la morte… la morte non mi fa paura.

SPAZIO AUTRICI
Hola Chicos! Tutto bene? La settimana, fortunatamente, è giunta al termine. Non ne potevo più!!! La scuola è snervante e stancante. Fortuna che un piccolo ritaglio di tempo riesco a trovarlo per scrivere. Non c'è molto da dire: spero vivamente che la lettura fin'ora vi sia piaciuta e che troviate interessante questa fusione tra i mondi di Sherlock e di Hunger Games. Idea malsana di una persona altrettanto malsana. Scusatemi, ma dovete prendermi così come sono. Ad ogni modo, mi auguro che possiate continuare a leggere questa fanfiction e che non mi tiriate troppi pomodori. Buon fine settimana e possa la fortuna essere sempre con voi!
   
 
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