Film > Iron Man
Ricorda la storia  |      
Autore: _Lightning_    27/01/2018    5 recensioni
Rimase in piedi con la mano sul telefono, fissando assente le linee del parquet. A Villa Stark il silenzio era normale, ma ora pesava sulle sue orecchie con una pressione insistente. Fino a poco prima, era stato persino contento di essere da solo a casa.
[young!Tony // Missing Moment // Introspettivo/Triste // PoV Tony]
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Tony Stark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Elle me dit'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

In Black

 

"So how come things move on?
How come cars don't slow
When it feels like the end of my world?
When I should but I can't let you go?"


[Everglow – Coldplay]

 

 

«Mi dispiace, ragazzo, l'ho appena saputo. Condoglianze.» La voce di Obadiah gracchiava disturbata nella cornetta. «Vorrei tornare, ma sono bloccato qui. Ho le mani legate.»

«Certo, capisco. Non preoccuparti,» rispose Tony con voce piatta, mentre giocherellava col filo del telefono.

Si distrasse mentre l'uomo continuava a parlare. Un qualcosa su delle riunioni improrogabili e sul caos in cui si trovava a navigare in quel momento. Parole che non gli interessavano; gli arrivavano in un ronzio smorzato, come di una mosca che sbatte ostinatamente contro una finestra.


«Arrivo appena posso, ok? Tu tieni duro. Il mondo non è ancora finito, mi hai capito?»

«Certo, Obie.»

Riattaccò la chiamata senza attendere la sua risposta, probabilmente un'altra sfilza di stentate parole di circostanza. Obie non era mai stato bravo con quel genere di cose ed era sicuro che adesso avesse già abbastanza problemi da risolvere in Sokovia. Rimase in piedi con la mano sul telefono, fissando assente le linee del parquet. A Villa Stark il silenzio era normale, ma ora pesava sulle sue orecchie con una pressione insistente. Fino a poco prima, era stato persino contento di essere da solo a casa.

Da quanto non c'erano i suoi? Da quanto non c'erano davvero? Forse i due fatti coincidevano. Non avrebbe saputo dirlo con certezza.

Si staccò dal mobiletto e si diresse in salotto a piedi nudi, rabbrividendo per il pavimento gelido; si appoggiò mollemente a un termosifone, con lo sguardo che vagava senza una meta precisa, sfocato. L'improvviso squillo del telefono lo fece sobbalzare; fece per andare a rispondere, infastidito dalla suoneria vivace, ma si bloccò dopo un paio di passi. Lo lasciò squillare a vuoto. Probabilmente erano altre condoglianze da parte di persone che non conosceva. Si passò una mano sul volto, rendendosi conto di aver sudato freddo per quel suono inatteso. Ripiombò nei suoi pensieri, distanti dal salone vuoto, dalla luce grigia e invernale che filtrava dalla finestra, dall'oceano plumbeo che ondeggiava cupo fino all'orizzonte.

Quanto tempo era passato da quella chiamata? Tentò di nuovo di riportare alla mente i dettagli che continuavano a volergli sfuggire. Due giorni? Tre? Il tempo era diventato un concetto estraneo: gli sembrava di vederlo scorrere da un'altra dimensione con dei paramentri di riferimento completamente diversi. Un'ora sembrava un giorno. O forse il contrario.

Il mondo invece non sembrava rendersi conto della differenza. Era ancora dicembre del 1991, in un giorno imprecisato a ridosso del Natale. In TV passavano pubblicità e jingle natalizi, c'erano festoni di agrifoglio sulle cornici delle porte, in frigo giaceva una bottiglia di eggnog superstite e l'albero di Natale troneggiava in salotto, addobbato con cura. S'incantò a fissare le lucine colorate e intermittenti che guizzavano tra i rami ornati di neve finta. Quell'anno sua madre aveva voluto fare le cose in grande, visto che era appena rientrato dall'estero dopo sei mesi di assenza. Sbatté un paio di volte le palpebre e distolse lo sguardo, puntandolo nuovamente sul telefono.

Avrebbe dovuto contattare un'impresa funebre. Almeno, credeva che funzionasse così. Quel dubbio si aggirava nella sua testa da quella mattina. Non aveva idea di come si organizzasse un funerale e non c'era nessuno che potesse farlo al posto suo. Dove volevano essere sepolti i suoi? Avevano lasciato delle volontà, un testamento? Chi avrebbe dovuto invitare alla funzione? Doveva chiamare qualcuno? Magari l'avrebbero chiamato loro. Non sapeva esattamente chi fossero "loro", ma qualcuno doveva pur essersi occupato dei...

I suoi pensieri si inabissarono come piombo, svanendo alla sua percezione e rintanandosi nella parte più profonda sua mente. Gli rimase addosso solo un vago senso di smarrimento a cui iniziava a fare l'abitudine. Aveva avuto delle priorità bizzarre, in quel lasso di tempo irreale. Per esempio rimettere a posto da cima a fondo la cucina in subbuglio, come se ci fosse ancora qualcuno che potesse rimproverarlo. O scartare il suo regalo di Natale rimasto sotto l'albero – una maglietta dei Black Sabbath piuttosto retrò, un chiaro, discutibile tentativo di regalargli qualcosa che non avesse a che fare con robot e meccanica. O fare un giro di chiamate per annullare il toga party con gli ex-colleghi del MIT, temendo che qualcuno, chissà come ignaro della notizia ormai di dominio pubblico, gli si presentasse comunque alla porta. O andare all'obitorio così come era vestito al momento della chiamata, con addosso gli stessi pantaloni del pigiama e la stessa maglietta ridicola che portava in quel momento.

Non sapeva quali dovessero essere le sue priorità. Non aveva nemmeno qualcuno a cui poterlo chiedere.

Riprese ad aggirarsi per casa come un sonnambulo, senza prestare attenzione a quel che faceva, trovando i corridoi e le stanze più opprimenti e bui del solito. C'era un odore di legno vecchio e tappeti polverosi che gli dava l'impressione di essere in un museo, coi pavimenti di parquet lucidi e le vetrine traboccanti di apparecchiature elettroniche ormai antiquate, immerse in una luce soffusa. Si soffermò ad osservare pigramente la riproduzione in scala di un reattore arc, l'orgoglio di suo padre, ma se ne disinteressò ben presto e lo lasciò alla sua teca polverosa, riprendendo la sua ronda insensata attraverso la villa. Si arrestò brevemente dinanzi alla stanza del pianoforte, socchiusa, poi passò oltre ed entrò in camera sua, luminosa in modo quasi fastidioso rispetto al resto della casa. Chiuse di riflesso la porta dietro di sé, per poi rendersi conto dell'inutilità di quel gesto.

La lasciò chiusa e si guardò attorno un po' spaesato: da quando era tornato la sua stanza di ventenne gli sembrava estranea, con tutte le sue cianfrusaglie elettroniche, le sue "inutili invenzioni" e i vari gadget ammassati ovunque tra tomi di fisica e pile di fumetti. Sulla porta giganteggiava il poster di una pin-up e sopra il letto sopravviveva ancora quello della Stark Expo del '74 che aveva attaccato da bambino e che non si era mai risolto a staccare. L'ampia finestra si affacciava sul mare, aprendosi su un terrazzino dove dall'estate passata erano abbandonate una sdraio pieghevole e un paio di infradito.

Si sedette pesantemente alla scrivania, sulla quale troneggiavano il suo computer ormai obsoleto e un manuale di robotica applicata sommerso da fogli di appunti disordinati. Si era ripromesso di continuare a studiare anche durante le vacanze per bruciare le tappe dei suoi esami e tornare in patria al più presto, così da potersi finalmente trasferire. Si rigirò l'anello del MIT sul dito, osservandone distrattamente le incisioni dorate e chiedendosi che fretta avesse adesso. Prese a sfogliare svogliato il libro, prima senza realmente vederlo, poi leggendo qualche parola o formula sparsa, poi le prime righe di ogni paragrafo. Si ritrovò ad appuntare qualche nota a margine come in trance.

Quando rialzò la testa dalle pagine, si era ormai fatto buio. Accese la lampada da tavolo colorata, illuminando la stanza di una tenue luce azzurrina. Scoccò un'occhiata all'orologio: le sette passate. Doveva mangiare? Intrecciò le mani dietro la nuca e poggiò i gomiti sulla scrivania, a testa china, cercando di capire cosa volesse il suo corpo e non avvertendo alcuna fame.

Stava mangiando, quando l'aveva chiamato la polizia. Si era fatto portare una pizza a casa, ignorando le regole di suo padre, e si era piazzato a fare zapping fregandosene del divieto di mangiare sul divano e dei cuscini nuovi, ridendo di gusto per una qualche commedia natalizia demenziale. Quando era successo? Non riusciva a concentrarsi. Si sfregò gli occhi, sentendosi assonnato nonostante non avesse fatto altro che ciondolare qua e là per tutto il giorno.

Si coricò vestito sulle coperte ancora rimboccate di fresco, lasciando la luce accesa.

 

§
 

Non vestiva spesso di nero: trovava che non gli si addicesse, e poi bastava suo padre a girare costantemente in giacca e cravatta come un damerino.

Lui invece non ne aveva neanche una, di giacca nera. Le sue giacche eleganti erano rimaste al campus, oltreoceano. Era rimasto così frastornato dall'improvvisa mole di preparativi che si era trovato a dover affrontare, che aveva posto in secondo piano il fatto di dover presenziare lui stesso al funerale. L'idea di come si dovesse vestire non l'aveva minimamente sfiorato. Era come se si aspettasse di far vivere quei momenti a qualcun altro, a un sosia anonimo che si sarebbe fatto carico di ogni singolo gesto e parola che avrebbe dovuto pronunciare nelle vesti di figlio dei defunti coniugi Stark. Un sosia che, ovviamente, avrebbe avuto un completo nero e nessuno dei suoi problemi in quel momento.

Chiuse l'anta dell'armadio con uno scatto secco e si guardò allo specchio, che gli restituì impietoso la sua immagine in mutande, con una camicia bianca mal stirata addosso e un paio di scarpe di vernice che gli andavano strette in mano. Le gettò per terra in un improvviso moto di rabbia e quelle finirono sotto il letto ancora immacolato. Perché diavolo gli importava così tanto? Non era una delle sue feste universitarie: si sarebbe potuto presentare in jeans e maglietta e non avrebbe fatto alcuna differenza. Cosa importava a loro come era vestito?

Uscì dalla sua stanza improvvisamente irrequieto e si ritrovò in cucina senza sapere come ci fosse arrivato. Aprì meccanicamente l'armadietto degli alcolici, guidato da una sicurezza che non sentiva sua; afferrò la prima bottiglia che gli capitò a tiro e ne prese un lungo sorso, ignorando il bruciore nello stomaco vuoto e lungo la gola. Avvitò nuovamente il tappo con mani tremanti e ripose il whiskey, in attesa di una reazione che tardava ad arrivare. L'alcol doveva disinibirlo, giusto? Così almeno sarebbe riuscito a provare qualcosa, invece di quel vuoto ghiacciato e opprimente al petto.

Sentì la pendola tuonare in corridoio, come a ricordargli che il tempo aveva deciso di riprendere a scorrere al doppio della velocità per compensare quei giorni di stasi interminabili. Si concesse di chiudere per qualche istante gli occhi prima di schiodarsi da lì e dirigersi quasi a passo di carica nella camera dei suoi genitori. Spalancò la porta e si aspettò qualcosa. Qualunque cosa, una qualsiasi emozione estranea che rompesse l'apatia illogica che gli congelava le viscere.

Fissò il letto matrimoniale, le foto sui comodini, il vestito a fiori di sua madre ben ripiegato sulla sedia. Una delle luci del lampadario era ancora rotta. Nell'aria c'era il solito, lieve sentore di acqua di colonia. Non accadde nulla. Si trovò solo a pensare, come sempre, a quanto fosse brutto il quadro sopra la testiera del letto, un astratto indecifrabile dai colori cupi.

Si risolse ad entrare, sentendosi inquieto, quasi deluso. Cosa si era aspettato, esattamente?

Avanzò a passi lenti verso l'armadio di legno massiccio, sentendosi un infedele che profana un tempio, temendo un castigo divino. Aprì l'anta del guardaroba di suo padre con mani tremanti, come se ne dovesse balzare fuori una qualche chimera, di quelle che la scorsa notte avevano punteggiato i suoi sogni. C'erano solo odore di naftalina e una fila di completi ordinatamente appesi, tutti di colori sobri. Ne scelse uno dei tanti neri, senza stare a pensarci troppo, per poi mettersi alla ricerca delle cravatte. Trovò finalmente il cassetto giusto e si stupì nel vedere che quasi tutte erano piegate con cura per preservare il nodo già fatto, pronte ad essere indossate. Sentì un lieve sorriso incrinare il suo volto. Aveva sempre avuto il sospetto che l'artefice di quei nodi perfetti fosse sua madre e adesso era abbastanza sicuro che suo padre le conservasse con così tanta cura per non doverle chiedere di aiutarlo ogni volta. Accarezzò brevemente la stoffa satinata di una cravatta rossa e oro, seguendo il contorno regolare del nodo con la punta delle dita.

Ne scelse infine una nera e se la strinse con fastidio al collo, lieto di non doverla annodare. Al contrario di suo padre, lui non avrebbe saputo a chi chiedere aiuto. Si infilò i pantaloni: gli andavano bene, sperò solo che nessuno notasse che erano leggermente troppo corti. Indossò finalmente la giacca e si voltò verso lo specchio con un moto di sollievo che lasciò ben presto largo allo sconforto. La giacca gli andava decisamente larga sulle spalle e il nodo della cravatta era troppo grande e importante per lui. Provò ad abbottonarla, ma non fece che aumentare l'impressione che le spalle fossero troppo larghe per il suo corpo. Guardò se stesso negli occhi. Sembrava esattamente ciò che era: un ragazzino coi vestiti del padre addosso.

Sentì un improvviso groppo che gli chiudeva la gola e cercò di trattenere il singhiozzo che gli risalì nel petto. Voltò le spalle al suo riflesso e le sue gambe ebbero un tremito che lo costrinse a sedersi sulla sponda del letto. Si coprì la bocca con una mano, nel tentativo di calmarsi, ma le lacrime erano già traboccate. Un dolore al petto lo trafisse, come se qualcosa si fosse spezzato e i suoi bordi taglienti lo ferissero ad ogni respiro, infiggendosi sempre più profondamente nella sua carne. Si concentrò su quella sensazione, sui battiti sempre più forti e irregolari del suo cuore, che sembrava rassicurarlo col suo pulsare nuovamente energico.

Si sfilò la giacca e vi affondò il viso, soffocando un singulto mentre tra le dita stringeva convulsamente la stoffa, ormai vuota, informe, ma che ancora recava l'ombra di un profumo conosciuto. C'era qualcosa di liberatorio in quel dolore, un qualcosa di molto più naturale della morsa gelida in cui si era sentito stritolare fino a quel momento, e sentì di potercisi abbandonare senza paura.

 

***


Così andava bene, concluse, calzando meglio i jeans. Si ravviò rapidamente i capelli con una presa di gel e lisciò una piega sulla maglietta dei Black Sabbath, prima di uscire dal bagno senza ulteriori ripensamenti. Si buttò sulle spalle il suo giacchetto di pelle, inforcò gli occhiali da sole e scese in garage, avvicinandosi a passo svelto alla sua auto, parcheggiata tra quelle d'epoca di suo padre.

Ebbe un attimo di esitazione di fronte alla portiera del passeggero, poi si riscosse, fece il giro e si sedette al posto di guida. Lanciò un'occhiata all'orologio sul cruscotto.

Era in ritardo.




 

 



Note dell'Autrice:

Ogni tanto, più o meno una volta ogni due o tre ere geologiche, mi rimetto a scrivere. Circa nell'80% dei casi, mi ritrovo a scrivere su Iron Man. E al 99%, quel che esce fuori fa desiderare a Tony Stark di non aver mai attirato la mia attenzione. E stavolta sono pure stata buona a non aggiungere turbe mentali e psicofisiche a quelle che già ha di suo.
È la prima volta che mi cimento a descriverlo in questa fase della sua vita: ho già trattato di Tony bambino, ma il Tony adolescente/giovane adulto tendeva a sfuggirmi di mano e ho sempre preferito evitarlo, fino ad ora, quando si è più o meno sviluppato e formato di sua volontà in un qualcosa che ho ritenuto soddisfacente. 
Detto ciò, non vorrei dilungarmi troppo, ma sono pronta a mollarvi un papiro di chiarimenti e digressioni in risposta alle eventuali recensioni (che, mi rendo conto, non è un ottimo modo per invogliare la gente a commentare. Oh, beh).

Grazie a chiunque leggerà <3

-Light-

 

 
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, né l'autorizzazione a ripubblicare le mie storie altrove, anche se creditate e anche con link all'originale su EFP, né quella a rielaborarne passaggi, concetti o trarne ispirazione in qualsivoglia modo senza mio consenso esplicito.

©_Lightning_

©Marvel
   
 
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Iron Man / Vai alla pagina dell'autore: _Lightning_