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Autore: _FallingToPieces_    04/02/2018    3 recensioni
Kathleen ha perso i genitori a causa di un S.I. che si è lasciato esplodere al centro commerciale di Pasadena. A quattordici anni è stata data in affidamento alla famiglia Hotchner.
A quindici anni si è resa conto di avere una cotta per il figlio maggiore della coppia, Aaron.
A sedici è stata violentata dallo zio di questi.
A diciotto è stata presa di mira da un serial killer con la passione per le ragazze dai capelli castani.
A ventitré anni si è laureata in giurisprudenza come Hotch, seguendo le sue orme, e poco dopo è riuscita ad entrare nell’FBI.
A venticinque anni si presenta alla BAU come nuovo membro della squadra. E Hotchner si sentirà confuso: Kathleen non è più la timida e impacciata ragazzina di un tempo.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aaron Hotchner, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chi è Aaron Hotchner per Kathleen?
Un ragazzo alto, dal sorriso candido e l’atteggiamento esperto in qualunque cosa faccia. Il ragazzo che la chiamava sempre fiorellino, quando le dava la buonanotte e le rimboccava le coperte.
No. Kathleen scuote fortemente la testa. Ora è il suo capo, un uomo algido che non sorride quasi mai, dall’atteggiamento stoico e distante anche con lei, lei che lo ha venerato per anni.
-Jennings, riunione al tavolo tra cinque minuti.-
-Jennings, tra dieci minuti si decolla.-
-Jennings, smettila di scherzare con Reid e mettiti al lavoro.-
Aaron Hotchner, per tutti semplicemente “Hotch”, la riprende sempre quando chiacchiera e ride con Spencer Reid. Il più delle volte si aggiungono anche Garcia e Morgan, che li scherniscono perché sembrano una coppietta. Ma a Kathleen Spencer non interessa, se non come amico. C’è sintonia tra loro, sì, ma nulla di più. E poi, deve ammettere che Reid è talmente intelligente da farla sentire spesso a disagio.
Ma perché Hotch la chiama sempre per cognome? Jennings di qua, Jennings di là. Mai Kathleen, o Kath, come la definiscono tutti alla BAU.
Pare quasi che Hotch sia seccato dalla sua presenza all’unità di analisi comportamentale.
Kathleen bussa alla sua porta, quel venerdì, per chiedergli di avere il weekend libero.
-Avanti-
Si mostra ai suoi occhi, scostando l’uscio, e attende che le dica di accomodarsi. Ma Hotch non lo fa, e anzi rimane con il naso tra le scartoffie.
-Cosa succede, agente Jennings?-
Succede che mi ignori, e io ci rimango sempre male. Vorrebbe rispondergli così, ma non è più la ragazzina di un tempo.
-Volevo sapere se è possibile avere il fine settimana libero, signore.-
Signore. Non sopporta di chiamarlo così, quando per quattro anni è sempre stato Aaron.
-Non penso sia possibile. Abbiamo del lavoro da fare-
Non le domanda nemmeno perché vorrebbe due giornate di riposo. Gli avrebbe risposto che ha in programma un’uscita da amici con Reid, e forse l’avrebbe fatto per scatenare in lui una qualche sorta di gelosia.
-Lavoriamo ventiquattr’ore su ventiquattro dal lunedì al venerdì, signore.-
-Dove devi andare di tanto urgente, Jennings?- Finalmente Hotch alza gli occhi scuri su di lei e la inchioda con quel suo sguardo penetrante.
Kathleen crede di essersi presa una cotta per lui anche per via di quello sguardo, a quindici anni. E prima che le gote le diventino rosse al sol ricordo, si schiarisce la voce e dice: -Io e Spence avremmo organizzato una vacanza.-
-Spence?- ripete Hotch, il sopracciglio nero sollevato con scetticismo.
-Il dottor Reid, signore.-
Quanto la mette in soggezione, con quello sguardo indagatore.
-Permesso negato, agente Jennings.-
A Kathleen poco importa se le ha negato il permesso, in fondo potrà andare in vacanza in un momento più opportuno, e in quell’istante può solo fissare la bocca semichiusa del suo capo che lascia intravedere i denti bianchissimi che tanto ha ammirato da piccola.
E Dio, se vorrebbe baciarlo su quelle labbra ridotte ad una linea sottile per il disappunto e carezzargli quei capelli corvini sempre in perfetto ordine.
Kathleen non si sta affatto controllando.
 
-Mi dispiace, Spence, non se ne fa niente- annuncia, ritornando nella sala dove si riunisce la squadra. È tappezzata di tabelloni e grafici. -Il capo non vuole-
-Non vorrei essere pesante, ma te l’avevo detto- dice Reid, facendo spallucce e continuando a roteare la penna tra le dita.
-Hotch è fatto così- si intromette J.J., sorridendo a Kathleen.
E Kathleen non riesce a sopportare, sotto sotto, che qualcuno le dica come è fatto Aaron. Lei lo conosce benissimo, non ha bisogno di spiegazioni.
Certo, Aaron Hotchner non è più il ragazzo dinoccolato con una passione per la giurisprudenza che le sorrideva sempre, che la accudiva come un babysitter e che, prima di dormire, la salutava con un bacio sulla fronte. Aaron Hotchner è diventato un uomo, ormai.
Kathleen riflette sulla loro differenza di età e si rabbuia per un attimo.
-Il capo non sorride mai. Avevate ragione- ammette. Ha perso la scommessa.
-Mi devi venti bigliettoni- fa Morgan, allungando la mano grossa.
-Che cosa succede qui?-
Quella voce, forte e sicura e suadente. Kathleen arrossisce.
-N-Nulla. Noi... Nulla, signore- balbetta, mentre gli altri, compreso Gideon, sorridono sotto i baffi.
Oh, a venticinque anni è ancora capace di percepire le guance imporporarsi all’istante, quando Aaron è nei paraggi. È un bel guaio.
 
-Mi ha chiamata, signore?- Kathleen si affaccia sull’ufficio di Hotchner, in attesa.
Quando J.J. le ha detto di presentarsi da lui, quasi quasi avrebbe voluto fare i salti di gioia.
-Sì, siediti.-
La ragazza si siede di fronte a lui e tamburella le dita sulle ginocchia. È nervosa, è solo la seconda volta in quattro mesi che entra in quella stanza semibuia e impersonale. L’unica cosa che salta all’occhio è la foto di una donna bionda sulla scrivania. Haley.
-Abbiamo un caso tra le mani, e non puoi partecipare alle indagini- le spiega Hotchner. -Vai pure a casa, per oggi hai finito-
-Come? Credevo di avere la tua fiducia, ormai. Pensavo che...-
-Agente Jennings, questo è un ordine. Va’ a casa a riposarti. Ti chiameremo quando avremo terminato-
Non gli chiede il perché, sa che non glielo rivelerebbe mai. È un’indagine, dopotutto.
-Va bene- afferma, la voce un po’ troppo incrinata. -Andrò a casa, signore-
E girata di spalle, mentre sta per aprire la porta e andarsene, non può sapere che Aaron Hotchner la sta osservando intensamente e sta pensando che, per la miseria, è cresciuta tanto dall’ultima volta che si sono visti.
 
È Reid a rivelarle, o meglio a lasciarsi scappare, che sono sulle tracce di un soggetto ignoto perso di vista sette anni prima. Un serial killer, un sadico sessuale, che rapiva e violentava vittime dai capelli castani e gli occhi nocciola.
E Kathleen perde il controllo completamente, al telefono con Reid. Chiede dove si trovano e alla risposta, Los Angeles, compra il primo biglietto disponibile. Non servono a niente le suppliche di Reid di fingere che non le abbia detto una virgola sul caso. Kathleen decide di partire subito, ma sta tremando come una foglia.
 
Li trova alla stazione di polizia, indaffarati a diramare il profilo del serial killer agli agenti presenti.
Aspetta che la riunione sia finita, prima di farsi avanti e pretendere spiegazioni da Hotchner.
Gideon non vede di buon occhio che lei sia lì, ma lo ignora e va dritta dal moro.
-Perché non me l’hai detto?- alza inavvertitamente la voce.
-Agente Jennings, ora non è il momen...-
-Sai benissimo che voglio prendere quel figlio di puttana più di chiunque altro!-
Non è professionale scaldarsi così, e Kathleen in cuor suo sa di non poter partecipare alle indagini perché emotivamente troppo coinvolta; ma è troppo da mandare giù, quel bastardo rimasto ignoto le ha rovinato la vita quando aveva solo diciotto anni.
-Vieni con me.- Hotchner la prende per il polso e la porta in uno degli uffici, abbassando tutte le persiane. -Tu non prenderai parte a questo caso, intesi?-
Kathleen mostra un’espressione sconcertata. -Lo conosco meglio di voi. Posso dare una mano, Aaron.-
L’ha chiamato Aaron, proprio come ai vecchi tempi.
Lui tuttavia non si scompone. Probabilmente tutta quella confidenza non gli piace, ma non fa una piega. Non si scompone mai, dopotutto.
-Il modus operandi è sempre lo stesso, ma ha cambiato città e ora si concentra sulle minorenni. Non puoi aiutarci, Jennings.-
-Perché?- Kathleen lo domanda con tono esausto. Non vuole arrendersi, ma sa che dovrà farlo. -Dammi una motivazione e io lascio perdere.-
È conscia che Hotchner non ammetta quel suo comportamento, eppure continua su quella strada. Vuole saperne di più, vuole una ragione per farsi da parte, se esiste.
-Io non permetterò che tu sia di nuovo esposta al pericolo. Non permetterò che quel mostro ti venga vicino. Ci siamo capiti?-
Kathleen non si aspetta certo quella motivazione, così vacilla per un attimo e deve appoggiarsi alla poltrona. Il suo Aaron desidera proteggerla. Solamente quello.
E se la ragazzina in lei sta esplodendo di gioia, la donna che è divenuta invece non può accettarlo.
-Sono abbastanza grande da poter decidere da sola. Voglio stanare quel bastardo- dice, determinata.
Hotchner scuote la testa, puntando gli occhi indagatori su di lei. -E io sono il tuo capo. Non ammetto discussioni in merito, Jennings. Non sei più una ragazzina, sei una donna adulta; fai un passo indietro e lascia che siamo noi a prenderlo.-
Kathleen si è impuntata, ormai. Non mollerà. -Se mi reputi una donna adulta, perché vorresti proteggermi?- Si avvicina a lui e indirizza l’indice verso il suo petto. -Perché ti interesserebbe tanto se venissi esposta al pericolo?-
-Agente Jennings, la conversazione è finita. Torna a casa.- Hotchner la ignora, abbassando per una frazione di secondo lo sguardo.
-No, mi dica il perché, signore.-
E in tutto questo tempo non si sono accorti della mano di Hotchner stretta attorno al polso di Kathleen. È un contatto che improvvisamente inizia a bruciare come il fuoco.
A tal punto, Kathleen rilassa i lineamenti. -Aaron- pronuncia il suo nome in un sospiro. -Perché siamo così distanti?- gli domanda.
Hotchner la osserva e nei suoi dolci occhi marroni intravede la stessa purezza di cui si era invaghito anni fa. -Io sono il tuo capo. E ora ho deciso di mandarti a casa. Obbedisci, per favore.-
-Mi tratti ancora come se fossi un’adolescente. Perché?-
-Cosa cambierebbe se ti dicessi che ai miei occhi sei ancora quel piccolo fiorellino di un tempo?-
-Cambierebbe tutto- mormora Kathleen, sorpresa.
-Niente deve cambiare, agente Jennings. E adesso fammi il piacere di obbedire agli ordini dei tuoi superiori.-
Hotchner le apre la porta. E Kathleen non può fare a meno di andarsene.
 
Sono passati tre giorni da quando Kathleen è stata praticamente cacciata dalla squadra, e in quei tre giorni si è mantenuta più che attiva: grazie ad una rivelazione che per sbaglio si è lasciata scappare Garcia, sa che sono sulle tracce dell’assassino, Michael Kirston. E sa anche che in poco meno di cinque minuti partiranno per catturarlo.
Li seguirà con una macchina che ha noleggiato. Gli inseguimenti sono la parte divertente del suo lavoro, dopotutto.
 
Procede a velocità rapida, superando i limiti, e lascia che la squadra le apra la strada senza tuttavia farsi scoprire. Indossa un cappello da baseball e degli occhiali da sole; con l’utilitaria grigia che guida, può passare eccome in anonimato.
Il suv lucido nero che sta portando Morgan si appresta a sostare davanti a una villetta dall’aria deliziosa.
L’utilitaria allora si ferma vari metri prima, e il motore si spegne. Kathleen scende dall’auto, pistola alla mano, e circonda la casa da dietro. Vuole entrare dalla porta secondaria.
Ed è in quel momento che accade tutto. Un uomo di mezza età, dai capelli grigi e il sorriso beffardo, appare dinnanzi a lei.
È lui, quella persona che le ha procurato incubi ogni notte per duemilacinquecento notti.
Kathleen ode dei passi al di là della villa, delle voci concitate, ma le tralascia in una remota parte del suo cervello.
-Ti ricordi di me?-
L’uomo la fissa senza dire una parola. La sua espressione sembra preoccupata, come se Kathleen avesse mandato a monte i suoi piani.
-Sono la ragazzina che sette anni fa hai torturato e violentato, brutto bastardo.-
Non è cambiato neanche un po’. Kathleen ricorda nitidamente quel sorrisino da sadico, da pazzo.
Gli punta contro la pistola. -Fai un solo passo e ti ammazzo.-
Lui alza le mani all’aria, proseguendo a sorridere. -Tranquilla, rimango qui. Non mi muovo.- Ha una voce suadente, parla lentamente.
-Giuro che ti...- La frase minatoria di Kathleen si smorza subito, terminando in un gorgoglio di dolore. Una fitta all’altezza della tempia la coglie impreparata, acuta come se le avessero conficcato un chiodo nella testa.
Cerca di tastarsi quella zona, ma le gambe barcollano all’indietro. Vede con la coda dell’occhio un secondo uomo alle sue spalle e si dà mentalmente della stupida per non aver pensato a un complice.
-Kathleen!-
Sente la voce di Hotchner un’ultima volta, prima di svenire, ma non sa se se l’è immaginata. Tutto diventa nero.
 
Quando si risveglia, la prima cosa che riesce a mettere a fuoco da dietro le palpebre pesanti è uno sguardo angosciato che manda lampi disperati. È il suo sguardo, quello per cui ha una cotta da quelli che sembrano secoli.
-Hotch?- Questa volta lo chiama come fanno tutti.
-Vorrei essere arrabbiato, ma non ci riesco- dice lui, scuotendo il capo.
Kathleen percepisce la tempia dolerle e batterle. Tenta di sedersi, ma Hotchner la trattiene sdraiata. Si trovano sul divano di quella casa degli orrori, la sua testa è appoggiata alle gambe di lui, fuori è scesa la sera.
-Sei stata bravissima, Kathleen- mormora Hotchner al suo orecchio, accarezzandole i capelli castani imbrattati di sangue.
È da sette anni che non usa il suo nome. Kathleen vorrebbe sorridere, ma le fanno tanto male la testa e gli zigomi da non riuscire a muovere un singolo muscolo facciale.
Le lacrime presto le rigano le guance, rendendola imbarazzata davanti all’uomo dei suoi desideri.
Si è sempre lasciata toccare solamente da lui, in seguito allo stupro. Non ha mai avuto nessuna relazione, non ne è stata all’altezza. Anche una sola carezza per Kathleen significa molto sforzo.
È imbarazzata perché non ha fatto niente per meritarsi quel “sei stata bravissima”, se non ostacolare la squadra e farsi colpire da un oggetto contundente.
-Ora riposati, okay? Rimani qui tranquilla fino all’arrivo dell’ambulanza. Nessuno oserà più farti del male finché ci sarò io.-
Kathleen annuisce, tirando su col naso. E gli crede fermamente, non ha alcun dubbio. Se c’è lui, si sente protetta come una bambina.
Aaron Hotchner si china su di lei e le lascia un bacio sulla fronte, come ai vecchi tempi. -Buonanotte, fiorellino- sussurra, stringendola a sé.
E Kathleen chiude gli occhi, serena per la prima volta dopo sette anni.
 

Questa breve OS nasce dalla mia passione smisurata per Aaron Hotchner, passione che è nata sin dal primo episodio di Criminal Minds. È la prima volta che oso scrivere qualcosa su questa serie, perché trovo particolarmente difficile caratterizzare i personaggi in modo che non vengano fuori OOC.
Spero di aver fatto un buon lavoro, sebbene la One Shot sia incentrata soprattutto sulla figura di Kathleen.
Grazie per aver letto! xx
_FallingToPieces_

 
  
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