A ogni alba scura, quando il sole si spegne come una candela, quando il cielo si dipinge di rosso per poi morire e cadere nel mare lontano. Qualcosa accade.
In un cimitero distante, delle lapidi senza nome dimorano come alberi tetri, unici testimoni di chi riposa. Lì, tra file di pietre lisce e levigate, piantate nel terreno con perizia, al crepuscolo, le porte si aprono.
Casse di legno si squassano con crudeli suoni.
Dita atrofizzate, diafane, maciullate dal tempo e dal fuoco, si alzano come oscuri rampicati che invocano il cielo nero.
Gli arti deformi e disossati si tendono senza muscoli, elevando gli scarni volti di antichi fantasmi dalle orbite vuote al di sopra del loro sonno senza sogni né pace.
Così la marcia putrescente e mortuaria si mette in moto, spinta da un solo desiderio.
Essere ricordati.
Nessuno, tuttavia, potrà ricordare gli uomini e le donne senza nome che un tempo furono seppelliti per essere dimenticati.
Triste è la storia di coloro che non possono essere ricordati.
Perduta ormai negli antri del tempo.
Eccoli, elevano il loro grido.
Urlo dissennato di malinconici e muti ricordi che si perdono in un vento inesistente.
Vi era una volta, un villaggio formato da coloro che venivano chiamati streghe e stregoni.
Puttane e carnefici.
Essi vivevano liberi da quel mondo che li aveva ripudiati. Deliberatamente gettati nelle fiamme indegne dell’idiozia.
Si sostentavano di agricoltura e bestiame, ossequiavano i riti degli antenati e, al centro del piccolo villaggio avevano piantato la più grande quercia che esistesse, rigogliosa e forte si estendeva insinuandosi in ogni anfratto e casa. Come una madre silente, proteggeva il proprio popolo esule.
Tre generazioni dopo avevano dimenticato le atrocità commesse dai loro simili. Erano nati uomini e donne di grande intelletto, e col passare del tempo, quell’intelletto si espande a tutti, costruendo una società ben più evoluta di quella che l’aveva cacciati.
Osservavano ancora ciò che gli antenati gli avevano trasmesso. Avevano imparato da loro e per nulla al mondo li avrebbero dimenticati, né si sarebbero separati da quella terra che come una madre li aveva cullati tra i suoi venti caldi e freddi, scandendo il tempo che passava incessante.
Un giorno, tuttavia, il mondo che li aveva ripudiati ricomparve, grondando sangue e cenere il mondo oscurò l’idillio del villaggio.
Bruciò l’antica quercia.
Bruciò i cuori e le membra.
Di ciò che vi era, restarono solo tombe senza nome.
Ora la quercia era cenere. Quella stessa cenere che bruciava negli individui inesistenti che marciavano recitando al vento la loro storia.