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Autore: Fannie Fiffi    21/02/2018    4 recensioni
[Bellarke; S1; #TRADUZIONE]
Compie un altro passo avanti, completamente fuori dall’ombra degli alberi, e le parla: « Ehi, Artemide. È questo il punto in cui mi trasformi in un cervo? »
« Vedo che qualcuno è impazzito. » Risponde lei, la voce più tagliente di quanto lo sia stata la sua, pungente nell’aria notturna, e Bellamy ride e solleva lo sguardo, scuotendo la testa con un mezzo sorriso che si contorce sulle labbra.
« Artemide era una dea. » Le dice. « Era un complimento, Clarke. »
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti!

La mia nuova proposta è la traduzione di una meravigliosa, toccante e ruvida storia che ho avuto il piacere di leggere appena pubblicata e che non ho potuto fare a meno di voler condividere con voi. So già di non averne reso la totale profondità, nonostante io abbia cercato di fare il mio meglio.

Non posso quindi che ringraziare la dolcissima
elle_stone per avermi permesso di tradurre la sua mozzafiato We're Home At Last.

Un grazie anticipato a chi leggere e a chi vorrà lasciare un piccolo pensiero. Tanto io che Elle ne saremmo estremamemente entusiaste.

Buona lettura.

 



Quando Clarke arriva al torrente, la fonte di un leggero sussurro d’acqua sulle rocce che l’ha guidata attraverso un lungo sottobosco, cade immediatamente in ginocchio. Protende entrambe le mani e le pone sopra l’acqua, poi le lascia scivolare giù sotto la superficie. La corrente s’increspa e scivola tra le sue dita. Lei chiude gli occhi. Ad eccezione del fluttuare dei rumori del ruscello, non sente niente, e nessuno.

Il Campo è da qualche parte nel crepuscolo calante dietro di sé, ma sembra distante quanto l’Arca. L’Arca: piena zeppa di gente, i suoi corridoi sempre affollati, file che si formano nel reparto medico e nella caffetteria e al mercato, mai una doccia libera, nemmeno nei giorni in cui le spetta.  E il Campo: chiassoso e senza legge, litigi che scoppiano per il cibo, ragazzini che se la fanno nelle ombre della Navicella, rombi di risate che sembrano ululati di lupi. Bellamy che governa su tutto.

Come il Cancelliere della Terra.

No. Clarke si rimette in piedi di nuovo, una riluttanza le stringe le ginocchia come se fosse improvvisamente vecchia, e si libera della giacca, si leva i polsini, calcia via i suoi stivali. Si leva l’orologio di suo padre e lo nasconde al sicuro nella sua tasca. Dopo il tramonto il bosco si raffredda e lei rabbrividisce, un bel brivido profondo che le crepita nelle ossa.

Fissa gli alberi dall’altra parte del torrente, e poi su, su e su nel grigio del cielo che si scurisce e sulle prime leggere tracce di stelle lontane e pensa no, quello è Wells, che ci prova così tanto, che si sta aggrappando alla normalità come un uomo che affoga. Wells, uno che segue le regole.

Si toglie i calzini e li getta senza cerimonie sulla pila crescente dei suoi vestiti. I suoi piedi si ritirano al primo contatto con il terreno. Piccolissime rocce le pungono la pianta del piede. La Terra è fredda e irregolare ed imperfetta e vecchia, e ora è proprietà di chi infrange le regole, e lei è una di loro.

Bellamy non è il cancelliere perché il cancelliere impone una serie di regole; rispetta una struttura di ferree linee e angoli affilati. E Bellamy preferirebbe fare tutto a pezzi, costruire una pila con i resti e sedercisi sopra. Nessuna regola, nessun piano, nessun futuro. Soltanto un fuoco che esplode in una notte che non finirà mai. Soltanto il suo potere e la bruta forza dalla quale questo deriva, cosparsa sulle fiamme come benzina.

Clarke si solleva la maglietta e la toglie, scivola fuori dai pantaloni. Prende un profondo respiro dell’aria serale per sfidare i limiti dei suoi polmoni.
Perché dovrebbe pensare a Bellamy, ora, qui, quando si sente l’ultimo essere umano sulla Terra? Se ne sta in piedi al bordo del torrente e immerge le dita dei piedi nell’acqua, e si domanda se questo sia il modo in cui si sono sentite le prime persone sullo Spazio, se hanno tremato con lo stesso senso di abbandono e novità e scoperta, se hanno sentito le vertigini sotto quest’onda di terrore e ammirazione. Ha percepito l’acqua prima d’ora, ma non così.

Non con calma e volontà, lasciando che il momento filtri attraverso di sé come se l’acqua stessa stia filtrando attraverso la sua pelle. I capelli dietro il suo collo si drizzano mentre immagina gli occhi che la potrebbero star guardando. Sussurra fra sé e sé che è al sicuro. Ma anche se la foresta si chiude ad entrambi i suoi lati, e questo piccolo luogo sembra vicino e sicuro, e suo, già suo e da lei reclamato, tuttavia il torrente si allunga fin dove riesce a vedere alla sua sinistra e alla sua destra, e il mondo è così tanto più immenso di quanto fosse la Stazione Alpha, e in mezzo alla mozzafiato meraviglia davanti a tutto questo c’è anche, nel brivido dell’aria sul suo corpo nudo, un balzo di vulnerabilità.

Clarke immerge tutto il piede nell’acqua. Al Campo, forse stanno festeggiando. Forse Bellamy se ne sta in piedi davanti alla porta della Navicella, a supervisionare la pazzia e il caos e a ghignare, perché è suo. Come questo torrente è di Clarke. Ma lei non è il Cancelliere del Torrente e lui non è il Cancelliere della Navicella, lui è più come… un Re.

Quei ragazzini, loro lo seguono come se fosse un reale.

Mentre affonda lentamente la gamba nell’acqua, sente subito il letto delle rocce e del terreno, e capisce che non è profondo. Quindi si toglie l’ultimo indumento ed entra.
 





Bellamy scivola fuori dal Campo al tramonto e cammina velocemente, saltando oltre le radici degli alberi, correndo verso ciò che resta della luce all’orizzonte. Era solito avere questi impeti anche sull’Arca: qualcosa che gli urlava da dentro di andarsene e basta. Ma poiché non poteva fuggire, schiacciato dalle sue responsabilità e intrappolato da ogni parte dal vuoto senz’aria dello Spazio, ha seppellito quell’istinto giù, giù in fondo insieme alla sua paura e alla sua rabbia e al suo orgoglio.

Ora, come un vaso di Pandora dei suoi peggiori istinti, lascia andare tutto.

Il mondo è vasto, privo di confini, privo di fine, e le sue gambe si muovono a lunghe falcate, fino a che l’ultimo dei rumori della Navicella si perde lontano e la calma della foresta lo accoglie. Ascolta il fruscio dei suoi passi, le foglie che scivolano e ondeggiano mentre lui le muove con i piedi, l’irregolare urto del suo corpo che inciampa sulle pendenze, finché alla fine supera l’ultimo ostacolo e si trova davanti alla strada libera.

Vede prima il torrente che luccica sotto la luce di una luna a tre quarti. Poi, un momento dopo, un’ increspatura della superficie, sufficiente a farlo trasalire, a farlo indietreggiare di mezzo passo indietro, e –

Clarke.

Lei si strofina via l’acqua dagli occhi e scuote la testa, così che i suoi capelli lasciano cadere gocce d’acqua nel ruscello, e poi solleva lo sguardo e lo fissa, ad occhi spalancati e silenziosa e sorpresa.

Bellamy è immobile come una statua e altrettanto sorpreso. Durante una pausa nella foresta, dove si aspettava di trovare solo la quiete della Terra indisturbata, lontano dalla rivolta e dalle fiamme del Campo, un luogo solitario in cui far scoppiare la bolla dei propri pensieri, ha trovato lei. La Principessa del Cielo durante un bagno privato.

Lancia uno sguardo alla riva, dove i suoi vestiti sono impilati appena oltre la portata dell’acqua.

Oppure non così privato, ormai.

Compie un altro passo avanti, completamente fuori dall’ombra degli alberi, e le parla: « Ehi, Artemide. È questo il punto in cui mi trasformi in un cervo? »

Clarke assottiglia gli occhi. Galleggia indietro di un paio di passi insieme alla corrente, un lento movimento che gli fa immaginare i suoi piedi sulle punte sul letto del ruscello mentre scivolano sulla liscia superficie delle rocce, e le sue gambe, che si muovono nell’acqua, e le sue braccia, appena visibili, che ondeggiano. È invidioso.

« Vedo che qualcuno è impazzito. » Risponde lei, la voce più tagliente di quanto lo sia stata la sua che sferza l’aria notturna, e Bellamy ride e solleva lo sguardo, scuotendo la testa con un mezzo sorriso che si contorce sulle labbra.

« Artemide era una dea. » Le dice. « Era un complimento, Clarke. »

Lei si solleva – lui vede le sue spalle nude e lo splendore dell’acqua sulla sua pelle, la linea del collo, il modo in cui il torrente traccia una linea imperfetta sul suo petto, e la sua gola è secca – poi lei si riabbassa di nuovo, il mento appena adagiato sopra la superficie dell’acqua. Ha sollevato i piedi, pensa; sta galleggiando.

Poi: è bellissima. La bellezza sua e della Terra, l’una riflesso dell’altra, o parti di un tutto. Il pensiero lo sorprende, lo tiene a galla. Ma la sua bocca è ancora arricciata nello stesso ghigno sapiente.

« Entri o no? » Chiede lei.

Lui si sta già togliendo la giacca e calciando via gli stivali.

Clarke, ha pensato mentre cercava di cacciarla dai suoi pensieri, che puntualmente lei invade nei momenti peggiori, è semplicemente prepotente, animata da un’eccessiva confidenza che sfocia nell’arroganza. Al peggio di sé, è imperiosa. Ma non lo dà a vedere. Non c’è mai una traccia di dubbio nei suoi occhi, anche se lui non può biasimarla per questo, perché sa cosa significa non lasciar spazio dentro di sé a incertezze. Scommettere tutto sul proprio istinto. Essere tutt’uno con il proprio spietato desiderio: autoconservazione, sopravvivenza, e poi un po’ di più, se ci riesci.

Lei è lui, ma non lo sbandiera.

Lei è cresciuta con la corona. Non deve provare il suo status a nessuno.

A volte lo fa infuriare. Ma lo ha invitato nell’acqua e ora lo sta fissando, come se fosse veramente la dea che lui l’ha definita per gioco, o come se per lui sia così –

Lui si getta nell’acqua e poi affonda, giù.

La loro prima notte sulla Terra ha percepito la pioggia, l’ha sentita prima arrivare come un boato nel cielo e poi l’ha percepita, un diretto velo di pioggia dall’alto, una scossa e un rombo di rumore, innumerevoli piccoli tagli sulla pelle, e gli ha dato potere, gli ha dato coraggio. Come se l’avesse chiamata lui stesso. Come se fosse sua.

Essere immerso nel torrente è diverso. È circondato, sopraffatto, e i suoi pensieri tremano; si dimentica cosa significhi respirare. I suoi piedi toccano con difficoltà la sabbia. Si ritrova a pensare che non gli dispiacerebbe se, incastrandolo, togliendogli l’ultimo briciolo di equilibrio, la corrente lo sollevasse e lo portasse via.

Quando emerge, le mani di Clarke sono sui suoi avambracci e i suoi occhi sono spalancati di preoccupazione. Ma lui prende due respiri profondi, e un terzo, si scansa gocce dalle ciglia e dalla punta del naso, e un piccolo sorriso inizia ad affiorare sulle sue labbra.

« Stai bene? » Chiede lei.

Sta bene.

« Sì. »

I suoi polmoni si riempiono d’aria notturna; è pulita e affilata, profuma di sporco e corteccia e ultimi momenti di tramonto, e pensa potresti essere un uomo diverso, mentre respiri quest’aria e non possiederai mai questa Terra, ma lei possiederà te.

Abbassa lo sguardo. L’acqua si increspa in motivi frastagliati in mezzo a loro.

« Bene. » risponde Clarke. La sua voce suona ruvida e piccola, e le sue mani sono ancora sulle sue braccia.

Lui pone le sue sulla sua vita, sicure ma leggere, come lo scivolare dell’acqua sulla loro pelle. E mentre lo fa, lei compie un passo avanti, una mano che afferra più forte il suo bicipite come se volesse lasciare un marchio su di lui, e l’altra che fa scivolare lunghe, aristocratiche dita sul retro del suo collo e fra i suoi selvaggi capelli bagnati.

Bellamy non riesce a guardare da nessun’altra parte se non nei suoi occhi. Qualcosa dentro di questi s’illumina, qualcosa simile alla temerarietà e  alla ribellione che ha già visto in lei, ma più luminoso, una scintillante fiamma di sole a forma di desiderio.

« Bene. » Sussurra lei di nuovo. Poi prende un respiro profondo –

Nell’acqua, è facile sollevarla. Lei avvolge le gambe attorno alla sua vita e lui arranca indietro; c’è un mezzo secondo di incertezza, la pianta del suo piede che scivola su una lunga e liscia roccia; e poi Bellamy trova il palmo della mano di Clarke, sorprendentemente gentile, adagiato contro il lato del suo volto.

Reclina la testa indietro per guardarla. Lei si piega giù finché la fronte non tocca la sua. Bellamy ascolta lo scivolare e l’ondeggiare dell’acqua attorno a loro che cerca di opporsi ai loro movimenti, disturbata dalla loro incertezza e dall’esitante pausa che si fa sempre più esile fino al momento in cui la bocca di lei, aperta, incontra la sua.

In parte bacio, in parte respiro in sincrono.

Le punte delle dita di Clarke tremano contro la sua guancia.

Lei piega la testa a destra, e Bellamy si protende verso di lei. Per un momento quasi perde la presa, ma lei non si lascia cadere, avvolge le braccia attorno a lui con maggiore sicurezza. Bellamy chiude gli occhi. Percepisce ogni centimetro della sua pelle bagnata dal ruscello, morbida e calda, il modo in cui la lingua preme sulla sua, l’allarmante graffio delle sue unghie, e la parte di sé che è ancora arrabbiata e sveglia e che strilla dice una ragazza Alpha, la principessa del cielo – una settimana fa non ti avrebbe nemmeno guardato.

E l’altra parte, la parte che si è buttata nel torrente ancora ruvida di cenere del fuoco e di sporco della foresta, e che poi è sprofondata ed è emersa, con gli occhi puliti, tremante sotto le stelle, pensa: siamo entrambi creature della Terra.
 






Che lei lasci se stessa indietro quando viene al torrente o che sia più se stessa in quel luogo di qualsiasi altro posto o momento nella sua vita, Clarke non lo sa. È certa solo del fatto che qualcosa sembra cambiare dentro di sé mentre si siede in riva, i piedi nell’acqua mentre aspetta che Bellamy arrivi.

Ascolta ma non sente niente di più dello scorrere della corrente sulle rocce e del fischio del vento, stanotte forte, attraverso i rami degli alberi alle sue spalle.

Dopo la prima notte, avevano deciso di non voler essere un gossip, che gli altri non avevano bisogno di una distrazione e che non si sarebbero mostrati vulnerabili davanti a loro. Avrebbero tenuto ciò che era successo, e ciò che erano certi sarebbe successo di nuovo, soltanto tra di loro. Non avrebbero lasciato intravedere che qualcosa è cambiato.

« Ma è cambiato qualcosa? » Si era domandata. Un ramoscello era scricchiolato sotto il suo piede, abbastanza forte da nascondere la nota di incertezza nella sua voce.

Bellamy aveva scrollato le spalle. « Cosa non è cambiato? » Aveva replicato, e lei immediatamente aveva capito che, mentre i suoi pensieri ancora aleggiavano, pacifici e caparbi, nel torrente, nel momento in cui i denti di Bellamy avevano morso il suo labbro inferiore, i suoi erano già andati avanti. Giù alla Navicella e al nuovo mondo che ancora si dispiegava sotto i loro piedi.

Quella prima notte, per evitare di far sorgere sospetti, avevano deciso di tornare separati, prima Bellamy. Lei era rimasta indietro al cancello e lo aveva osservato attraverso una serie di colonne di alberi caduti. Lo aveva guardato essere avvistato, camminando a testa bassa e con discrezione, ma con quell’andatura che attira l’attenzione, e poi circondato: prima Miller con un resoconto, Murphy con un commento dei suoi, almeno tre ragazzini con domande – durante tutto ciò, Bellamy aveva annuito, con le spalle squadrate e le braccia conserte.

Non il Cancelliere, aveva pensato di nuovo. Il Re.

Un Re che lei terrà sott’occhio.

Un Re a cui pensa, a volte di notte, con pigrizia, per prevenire la paura che arriva più forte nella quiete e nella falsa calma del Campo a riposo; e alcune volte in luminosi raggi durante il giorno, provocata dal modo in cui il suo braccio si flette mentre si toglie la giacca o dal severo ringhio di un ordine gridato a voce troppo alta; ma mai più fieramente e più chiaramente di quando lo aspetta vicino all’acqua, mentre attende che l’altra parte di sé torni e che Bellamy appaia finalmente dietro di lei, al di là degli alberi.

Tornando al presente, rabbrividisce di nuovo. Questo freddo è forse segno dell’arrivo dell’inverno?

Clarke ha studiato le stagioni sull’Arca, ma sui libri erano solo una sterile, ristretta colonna di parole. Fatti che ha memorizzato, ripetuto, e poi semplicemente riposto via. Un po’ di più della cultura generale.

A volte le sembra che la sua esistenza sullo Spazio non fosse molto di più di una vita in coma: la sua mente viaggiava in modi che la persona cosciente che è ora non può più comprendere, ma il suo corpo era immobile. Ora che è sulla Terra, percepisce il mondo con sensi che non aveva mai saputo di avere prima; vede con occhi che non avevano mai visto, ascolta con orecchie che non avevano mai ascoltato, percepisce gli odori con un naso che non aveva mai percepito nulla, assapora con una lingua che non aveva mai assaporato. Ora prova un brivido simile al fuoco contro la pelle alla più semplice brezza, perché non ne ha mai conosciuto il contatto.

Quando Bellamy arriva, finalmente, si inginocchia dietro di lei, le sposta i capelli sulla spalla, e le preme un bacio esitante sul retro del collo. Le sue palpebre si socchiudono. Clarke lascia andare un basso, irregolare respiro.

« Perché ci hai messo così tanto? »

Lui sta sorridendo. Riesce a sentirlo.

« Mmm – mi ci è voluto un po’ per andarmene. » Traccia con un bacio una linea verso il suo orecchio. Lei protende il collo, il volto sollevato verso la luna. « Sai com’è. Ora lascia che mi faccia perdonare. »

 





Una notte, Bellamy porta una delle coperte arancioni dalla Navicella; la distendono sull’erba prima di cadere in ginocchio, spogliandosi l’un l’altra in fiera competizione.

La mente di Bellamy ronza, meravigliata, per i nuovi angoli che i loro corpi trovano e per il modo in cui le labbra di Clarke si aprono, il grande nero delle sue pupille alla luce del crepuscolo mentre lo fissa. Le dita di lui prudono per seguire le curve del suo corpo. Non riesce a respirare, a volte, mentre affoga in una nuova carnale conoscenza di lei, in quest’onda d’oceano di piccole intimità.

È questo il modo in cui sentirebbe l’oceano, un freddo gelido di pura acqua che si increspa alle curve della terra, su di sé?

Non lo sa, ma sa questo:

Le ha baciato la colonna della spina dorsale, contando le vertebre con la lingua; ha morso una mezzaluna sul suo fianco proprio sopra la sporgenza dell’osso; ha assaggiato il sudore che brilla fra le sue clavicole nonostante il freddo della notte; si è sistemato su di lei, afferrando il suo corpo come un’ancora, il proprio respiro irregolare nel suo orecchio.

Sono rotolati fuori dalla coperta e hanno scopato nello sporco. Lui ha percepito le rocce e i rami pizzicargli fra le scapole mentre sopra di sé lei si inarcava verso la luce della luna, gli occhi chiusi, la testa reclinata; mentre le sue dita scivolavano senza forza sui suoi fianchi, e i capelli di Clarke le scivolano sulle spalle, dietro la schiena.

Ora Bellamy riposa la testa sulla sua pancia. Riesce a percepire il tremolio dei suoi polmoni mentre respira, il peculiare terreno morbido e duro dei suoi muscoli e dei suoi organi, il distante pulsare del battito del suo cuore. Con le punte delle dita, sente la pelle d’oca sulle sue braccia (fa così freddo ora, un acuto gelo che raffredda il sudore sulla loro pelle),  e sul suo petto, attorno un capezzolo, di nuovo giù sul suo fianco e poi all’interno della sua coscia. Lei ride, un ghigno involontario, e lui mormora: « Scusa » e registra nella mente l’informazione: in quel punto Clarke soffre il solletico, sulla parte più soffice della sua pelle.

Lui avvolge un braccio attorno alla sua vita e si muove quel che basta per premere un bacio, un leggero bacio a bocca aperta, sullo spazio vuoto dove le due metà della sua gabbia toracica si curvano.

Le dita di Clarke stanno tracciando ghirigori sulla parte superiore del suo braccio.

« Mi sono sbagliato, prima. » Dice, perché parlare è meglio che permettersi di immaginare come possano sembrare dall’esterno, ripiegati l’uno sull’altra, circondati da erba e terra,  confinati dalla foresta e dal torrente.

« Hmmm? » Le dita di lei si fermano. Bellamy si domanda quale distante treno di pensieri abbia interrotto.

« Mi sono sbagliato. » Ripete, e si solleva su un gomito per guardare giù verso di lei.

Lei lo guarda di rimando, pensierosa e curiosa, poi muove la testa di lato, solleva un sopracciglio, e dice: « Lo sapevo già. Magari potresti essere un po’ più preciso. »

« Divertente. » Vorrebbe baciarle via quel ghigno dalla faccia. Invece, lo riflette sulla propria. « No. » Avvolge l’altro braccio attorno a lei, l’avvicina in modo che siano petto contro petto e naso contro naso. « Mi sono sbagliato quando ti ho chiamata principessa. Guardarti adesso – »

« Mentre ero sopra di te? » La sua voce contiene un ritmo provocatorio ma il suo sguardo è fisso sulla sua bocca e poi è silenziosa, silenziosa come se temesse un’eccessiva interruzione della calma.

« Sì, ma non solo prima. » Il palmo della mano di Bellamy scivola giù sulla curva del suo fianco, giù sulla gamba.

Quando mi hai afferrato i capelli, quando ho visto il tuo tallone premere nella terra, quando mi hai avvicinato a te per un bacio. Ogni volta che mi avvicini a te per un bacio. Quando guardo in alto verso di te dal mio posto tra le tue gambe. Perfino la prima volta che ti ho vista emergere dalla superficie dell’acqua. Anche alla Navicella, a volte, come questa mattina, mentre stavi in piedi all’entrata con le tue braccia incrociate e il tuo sguardo affilato, a controllare ogni cosa –

In qualche modo, si è ritrovato a baciarla di nuovo. Clarke lo sta stringendo forte come se la Terra stesse per inghiottirli entrambi.

« Tu non sei una principessa. » Mormora di nuovo. Mentre lascia andare un respiro, i loro nasi si incontrano. « Sei una Regina, Clarke. Una fottuta Regina. »
 




Lei racconta a se stessa che Bellamy l’abbia chiamata in quel modo soltanto per adularla o per sedurla, anche se, a quel punto, era davvero necessario? E poi, quelle parole non sembravano uno stratagemma, ma più una confessione strappata dalle sue profondità mentre, nella meraviglia dopo il rapporto, aveva abbassato le sue difese. Bellamy era sembrato quasi devoto. Preso dalla maestosità della sua scoperta.

Anche lei è meravigliata, ora. È stato difficile lasciare il Campo per qualche giorno ormai, ma sono tornati: lui la sta premendo contro l’erba incolta.

Le mani di Clarke sono fermamente aggrappate alle sue spalle e sta soltanto ora riprendendo il respiro. Bellamy esce da lei lentamente, e poi si
piega in modo che la propria fronte riposi contro il suo petto. Lei si lecca le labbra e assapora il sale del proprio sudore.

Quella mattina si è svegliata presto e si è seduta fuori dalla sua tenda, le braccia attorno alle ginocchia, e ha guardato l’alba sanguinare luminosi e sconosciuti colori nel cielo. L’alba, e il cambio della Guardia. Tiratori dagli occhi assonati che incespicavano fuori dalle loro tende, scuotendosi per svegliarsi, stiracchiandosi e strofinandosi gli occhi prima di raggiungere le postazioni.

Bellamy era già in piedi, fermo vicino l’entrata della Navicella, con il suo fucile appeso dietro la schiena e i suoi stivali ben piantati nel terreno. Un generale stanco del mondo, aveva detto a se stessa. Più anziano dei suoi anni. Nemmeno un frammento di delicatezza in sé.

Nessuno crederebbe che un tale uomo sia capace di questo: del modo in cui la bacia un’altra volta, con dolcezza e lentezza e teneramente, e le sorride mentre lei si curva contro il suo fianco.

L’ha chiamata una regina e una dea. Che strane, queste parole. Sono un indizio distante, come un barlume di un bellissimo paesaggio appena visibile alla fine di un tunnel buio, di credenze nascoste, passioni, conoscenza, tutto dentro di lui, che Clarke riesce appena a comprendere.

« Raccontami della dea. » Dice.

Bellamy si irrigidisce, incerto e confuso, poi ride e domanda: « Quale dea? »

« Il primo giorno in cui mi hai trovata qui. Mi hai chiamato in quel modo – »

« Artemide? »

« Sì. Cosa significa? »

Lui borbotta qualcosa, fa scivolare il braccio giù attorno alla sua vita e lei si sposta, cercando il punto perfetto per ascoltare il battito del suo cuore e la sua voce, mentre gioca a immaginare quale sia l’espressione sul suo volto.

« Non ne hai mai sentito parlare? »

« No. Ovviamente. » Le divinità dei tempi antichi non sono argomento di Abilità sulla Terra, dopotutto.

Forse sembra offesa, perché Bellamy ride di nuovo e le bacia la testa. « Era una dea », spiega, « adorata dagli antichi Greci. Dea della caccia e della natura selvaggia. »

La natura selvaggia. Clarke lancia uno sguardo alle scure sagome degli alberi, enormi e spessi dal suo punto d’osservazione sul terreno, ascolta il riverbero e il flusso dell’acqua dietro di sé. Una forte brezza la fa rabbrividire, e lei aggroviglia le gambe attorno a quelle di Bellamy, cercando calore umano. Cosa fa una dea della natura selvaggia? Si domanda. La protegge? L’addomestica? La comanda?

« In uno dei miti », Bellamy sta dicendo, « un cacciatore chiamato Atteone la sorprese in un bagno nei boschi e, come punizione per aver visto il suo corpo nudo, Artemide lo trasformò in un cervo, e lui fu cacciato e ucciso dai suoi stessi cani. »

Clarke ha sempre immaginato che, nei boschi del suo pianeta natale, ci sarebbero stati più animali. I rumori degli animali. Il loro muoversi velocemente, i suoni di piccole creature, l’andatura degli zoccoli sulle foglie. Ne ha visti un po’. Una pantera morta abbandonata vicino al loro fuoco.
Un cervo con due musi.

« È una storia violenta. » Puntualizza.

Bellamy conferma. Ha iniziato a  far scivolare le dita fra i suoi capelli. « Lo è. » Concorda. « Molti miti sono violenti. »

« È per questo che ti piacciono? »

Lui sbuffa, e Clarke non riesce a capire se si senta offeso o stia fingendo. « No. Sono semplicemente belle storie, Clarke. »

Lei vorrebbe che lui lo dimostrasse, che le raccontasse di più. Ma invece, per ora, risponde: « Non ti avrei ucciso. La nostra storia ha un finale migliore. »

« Lo ha. » Dice lui. Ma sembra a disagio. Clarke lo capisce: presto dovranno alzarsi di nuovo, e vestirsi, e tornare al Campo. Scivolare di nuovo dentro le mura che proteggono la Navicella e tenere i Terrestri lontani. E non sanno cosa succederà dopo. Non hanno per niente raggiunto l’epilogo della loro storia, e non sanno se sarà felice o no.
 





Bellamy infila il piede nella scarpa e poi si piega su un ginocchio per allacciarla. Clarke è seduta su una grossa roccia vicino al torrente, si sta infilando i calzini. Lui osserva il suo profilo: c’è una tesa, nervosa espressione sul suo volto, le sue labbra contratte, mentre si sfila un sassolino dalla scarpa. Non gli sta rivolgendo la minima attenzione, ed è per questo che Bellamy riesce a dare forma in parole ad un sentimento che è cresciuto dentro di sé per giorni, un sentimento tanto spaventoso quanto irrazionale, ciononostante innegabile e vero.

Si alza, infila le mani nelle tasche e l’aspetta.

Quando si trova in questo luogo, si sente a tal punto parte della Terra da pensare di esserne figlio; un suo servo, ma anche il suo comandante, Re della terra e della notte, con Clarke, proprio come le ha detto, in qualità di sua Regina. E all’inizio, ha pensato amo questo sentimento, questo potente sentimento –

Clarke si mette in piedi, si pulisce i palmi delle mani, e si volta verso di lui. « Pronto? »

Bellamy afferra il suo zaino e se lo fa scivolare sulle spalle, e lei solleva la propria giacca e fa scivolare le braccia nelle maniche.

« Sì. Andiamo. »

Ma quello non è tutto.

Clarke avvolge il braccio attorno al suo braccio mentre camminano verso gli alberi.

Lui lo vede, ora, il resto: che la ama. Che, con una terrificante inevitabilità, come affondare giù sott’acqua, un brivido simile al riemergere attraverso la superficie e respirare profondamente l’aria, al sentire in modo diverso il solido potere dei suoi polmoni, si è innamorato di lei. Re della notte, Regina del torrente. Un’unione predestinata.

Un’unione che non spezzerà nemmeno se minacciato dal peso del mondo intero.

 
 
 



 
  
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