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Autore: Tigre Rossa    25/02/2018    1 recensioni
Morire.
Una parola, sei lettere, tre consonanti, tre vocali.
Niente di troppo speciale o terribile, in apparenza.
È solo una parola come mille altre, no?
No.
Non è una parola come le altre.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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To die


 

 

 

Morire significa separarti non solo da quello che eri, ma anche da quello che non hai potuto diventare.
- Gheorghe Gricurcu -

 

 

 


Morire.

 

Una parola, sei lettere, tre consonanti, tre vocali.

Niente di troppo speciale o terribile, in apparenza.

È solo una parola come mille altre, no?

No.

Non è una parola come le altre.

Non è come nascere, crescere, sognare, amare.

Non è come vivere.

Morire è una parola che fa paura.

Morire è una parola che, appena pronunciata od udita, ti apre un buco enorme dentro, una voragine terrificante, che mette i brividi e ti fa tremare fin dentro le ossa.

Morire è una parola inquietante, che molti evitano e anzi vorrebbero cancellare dal proprio vocabolario.

Morire è una parola definitiva, a cui non c’è rimedio alcuno.

Morire è una parola dai contorni inafferrabili, formati da ombre e dolore.

Morire è una parola che sa di inevitabilità e vuoto.

Morire è una parola che ha il sapore sgradevole e definitivo della fine.

Morire è forse la parola più odiata dagli esseri umani.

Ma non è colpa sa, poverina.

Anche lei, forse, avrebbe voluto essere una parola come tutte le altre, all’inizio. In fondo, è formata da semplici suoni ben distinti tra loro come tutte quante; quindi, perché è tanto diversa?

È diversa per quella che richiama alla mente, quando viene usata.

Per quello che rappresenta.

Per il suo significato, talmente spaventoso da gelare il sangue nelle vene.

Per ciò che porta con sé, come il vuoto, il buio, l’oblio.

Ma soprattutto per tutto ciò che porta via.

Il passato che diventa immutabile, impossibile da cambiare od aggiustare.

Il presente, che viene fermato all’improvviso in un unico, solitario momento, tagliato di netto da una nera falce.

Il futuro, improvvisamente solo un’altra dolorosa parola che non potrà essere mai più usata.

Quelle mille possibilità che non potranno mai realizzarsi e resteranno sempre spettri indefiniti.

I sogni che rimarranno per sempre chiusi a chiave in un cassetto dimenticato dal resto del mondo. Gli errori a cui non si potrà più porre rimedio.

I peccati che non potranno essere più essere assolti.

I rimpianti, che rendono l’eterno sonno eternamente straziante.

La vita che avrebbe dovuto essere tua, e che invece è stata rubata in un momento, da una signora dal sorriso gentile ma dagli occhi freddi e senz’anima.

La persona che eri, che sei e che avresti dovuto essere, ridotta a fragili ricordi dispersi dal tempo ed a pianti infiniti che possono ancora udirsi nel vento.

 

Morire è una parola terribile, di cui alcuni non imparano davvero il significato fino a quando non è ormai troppo tardi.

Altri, invece, lo apprendono fin troppo presto, prima ancora di aver compreso fino in fondo il significato della parola vivere.

E io sono tra quest’ultimi.

 

Io, che non avevo mai nemmeno pensato lontanamente che quella parola potesse riguardarmi un giorno.

Dopotutto, i giovani credono sempre, un po’ ingenuamente, di non poter morire mai, no? Si illudono che la loro ora non arriverà mai. Pensano quasi che il loro corpo non diventerà mai freddo, e che loro continueranno ad inseguire la vita con piedi alati e cuore lieto e sereno.

Ed io ero giovane, quando quella parola ha assunto per me un significato terribilmente tangibile e spaventosamente reale.

Avevo solo ventuno anni.

Appena un uomo, insomma; anzi, agli occhi di molti ero poco più che un ragazzo, qualcuno che doveva ancora diventare grande, scrivere la propria storia.

Avevo così tanta vita, davanti a me. Tanti sogni, tanti progetti, tanti desideri.

Credevo di poterli realizzare tutti?

Sì. Un po’ ingenuamente forse, ma sì.

Credevo di avere davvero il tempo di riuscirci?

Sì, certo. Come ho detto, avevo solo ventuno anni.

Avevo ancora tutta la mia vita da vivere.

Mi aspettavano lunghi anni da sentire, respirare, esplorare, riempire, sognare, amare.

Mi attendeva un futuro ancora indefinito, di cui avrei potuto fare tutto ciò che avrei voluto.

Credevo sul serio che per me quella parola non avrebbe mai avuto un significato, o almeno non molto presto.

Credevo . . sì, credevo davvero di avere tutto il tempo del mondo.

Tempo per sognare, scrivere, suonare e cantare.

Tempo per ballare, festeggiare, ridere e sperare.

Tempo per crescere, imparare, sbagliare e tornare indietro.

Tempo per amare, chiedere perdono e ricominciare.

Tempo per abbracciare mia figlia, cantare per lei, vederla diventare grande ed essere al suo fianco passo dopo passo.

Tempo per guadagnare il perdono di mia moglie, dare forma a nuovi progetti, baciarla ancora ed ancora ed invecchiare tenendola per mano.

Tempo per diventare l’Hector che volevo ed avrei dovuto essere.

Tempo per vivere, insomma.

Ma non l’ho avuto.

Il mio tempo è bastato solo per morire.

 

La morte per me è arrivata all’improvviso, quando non me la sarei mai aspettata. Quando credevo di star per iniziare veramente a vivere.

Un momento prima ero vivo, con il mio cuore che batteva come sempre nel petto e nella mente solo il pensiero fisso della mia famiglia che mi aspettava dall’altra parte del Messico.

Poi, quelle fitte pazzesche allo stomaco che mi hanno fatto piegare in due, lasciandomi senza sensi.

E il momento dopo, quando mi sono risvegliato, il mio cuore non batteva più, il sangue non mi scorreva più nelle vene, il mio respiro era fermo per sempre.

Ero morto, quando ancora avevo tutta la vita da vivere.

Ero morto, senza nemmeno sapere cosa significasse la parola morire.

Sono morto, e non sarò mai più nient’altro.

Non potrò mai più essere l’Hector follemente innamorato della propria moglie, tanto innamorato da suonare per lei e da chiederle di sposarlo ad appena diciotto anni.

Non potrò mai più essere l’Hector che stringeva tra le braccia la propria bimba, cullandola per farla dormire e cantandole la ninna che ho scritto per lei.

Non potrò mai più essere l’Hector che cantava come se non ci fosse un domani e che trovava nella musica il proprio rifugio e il proprio sollievo.

Non potrò mai essere l’Hector che è tornato indietro, che ha capito di aver sbagliato e ha tentato di rimediare.

Non potrò mai essere l’Hector che è riuscito a tenersi stretto le cose più importanti.

Non potrò mai essere alcun vecchio Hector e nessuno degli Hector che avrei potuto essere.

Non potrò mai essere nient’altro che l’Hector che è morto lontano dalla propria famiglia, senza avere mai la possibilità di chiedere perdono.

E questo mi fa infinitamente più male della semplice parola morire.

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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