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Autore: shilyss    01/03/2018    9 recensioni
Ecco a voi una raccolta di shot legate alla fanfiction "Tutte le tue bugie." Nonostante alcuni riferimenti alla long fic, potete leggere i vari capitoli anche considerandoli come testi scollegati rispetto alla storia madre.
Dal capitolo 1: Se Loki fosse stato meno sarcastico, se nei suoi occhi chiari Odino avesse visto l’ombra di un sincero pentimento, le cose sarebbero potute andare diversamente. Ma Lingua d’Argento era stato sprezzante e tronfio e si era presentato ammantato di tutta la sua feroce eleganza di fronte al padre adottivo che non lo aveva chiamato figlio, ma prigioniero. Un altro imperdonabile errore dovuto non alla mancanza di discernimento di Odino, ma all’amara constatazione di come Loki, il suo brillante figlio, non fosse poi così acuto come pensava e sembrava.
Dal cap. 4: Solo che Loki era un furfante travestito da principe, un cantastorie come nemmeno nelle piazze più oscure della città se ne trovava uno uguale.
Non tutto è come appare, quando di mezzo c'è il dio dell'inganno in persona.
Capitoli 3-9: Barbare usanze;
Cap. 10 - Forse era scritto nel destino.
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Loki, Odino, Sigyn, Thor
Note: Lime, Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La tela degli inganni'
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Avvertenze:

Questa shot è la prima di una raccolta e fa parte dell’universo che ho creato nella long-fic “Tutte le tue bugie.” In particolare, approfondisce alcuni argomenti accennati nella stessa. Nonostante alcuni riferimenti alla long fic, puoi leggere la storia anche considerandola come un testo scollegato dalla storia madre.

Vanheim, il suo ordinamento politico e culturale, Vili, Sigyn e tutti i personaggi presenti nella fiction oltre a Loki, Odino e Thor così come sono descritti, sono una mia elaborazione. Lo stesso dicasi per gli accenni alla gioventù di Loki e Thor. Per quanto concerne il canone del film, pur utilizzando aspetti, considerazioni e sviluppi provenienti di tutta la trilogia e della saga di Avengers ho rimaneggiato questo universo considerando solamente la fine di Thor: The Dark World. Buona lettura!

 

 

L’ombra che è rimasta di te

 

 

L’ombra che è rimasta di te, fa male solo a guardarla. Fu questo il pensiero che gli attraversò ingiustamente la mente quando la porta si richiuse alle sue spalle. Tentò di mascherare il disagio di quell’ultima, straziante visita sgridando per un nonnulla uno dei domestici di Asgard, colpevole soltanto di non avergli portato abbastanza rapidamente il vino. In un’altra occasione, in un tempo diverso, anzi, il servitore avrebbe risposto con un inchino rigido e risentito al suo sfogo crudele. Invece abbassò il capo e gli porse le sue scuse. No, bugia: disse “mi dispiace,” e il dio degli inganni capì immediatamente che si riferiva non alla richiesta esaudita male, ma al suo, di compito. Quello rinchiuso oltre le pesanti porte di quercia lavorate con un disegno che raffigurava l’Yggdrasill, il frassino sacro, e di cui nessuno, su Godhaimer, poteva parlare. Come spiegare a un popolo di guerrieri feroci e audaci che il loro fiero e capace Re cantava ninnenanne e si era perso in mezzo ai brandelli di un tempo passato, dimenticato?

 

Afferrò bruscamente il corno che il domestico gli offriva regalandogli uno sguardo carico di odio per quell’intromissione inopportuna, scortese; pretendeva di capire come stesse, immaginava gli importasse di quel vecchio avido, bugiardo e crudele che aveva combattuto con tutta la forza e ogni mezzo e, infine, era riuscito a sconfiggere nel peggiore e più doloroso dei modi: spezzandolo dentro. Quando aveva intravisto la mano tremante del padre firmare l’accordo tra Asgard e Vanheim, non era riuscito ad associare l’incertezza del gesto con i primi segni della malattia che lo avrebbe ridotto all’ombra sbiadita e sfilacciata del severo sovrano che era stato. Aveva attribuito all’ira e alla vergogna per la disfatta subita lo spasmo che aveva reso incerta la scrittura di Odino. Un segno di debolezza di fronte cui Loki Laufeyson aveva esultato. Ricordava con assoluta precisione quel momento. Aveva sorriso soddisfatto mentre parlava della necessità che Vanheim e Asgard trattassero da pari, in pace, nascondendo sotto le sue parole brillanti e ponderate la gioia nervosa che la ratifica del trattato tra i due paesi gli provocava: Asgard costretta a venire a patti, ad accordarsi con lui, a causa sua. Sulla carta, i due stati avevano cessato le ostilità di comune accordo, ma il messaggio che era passato nei Nove Regni tutti era stato un altro: gli Asi avevano trovato pane per i loro denti e, per una volta, erano stati costretti ad abbassare le armi e ascoltare.

 

Odino lo aveva visto, quel suo il sorriso laterale e breve. Tra le dita stringeva ancora la lunga penna intinta di inchiostro. Fissandolo, gli aveva detto una delle ultime cose sensate che avrebbe pronunciato in vita. “Sei stato bravo, figlio mio. Davvero bravo. Ma ora toglimi una curiosità: sei soddisfatto?”

Maledetto Odino. Maledetto vecchio crudele, scorretto, bugiardo. Non era nella sua natura la soddisfazione, non lo sarebbe stata mai. La vittoria di un giorno non poteva cancellare l’ingiustizia che credeva di aver subito per una vita intera, né il riconoscimento sporadico della sua abilità era in grado di offuscare le numerose volte in cui l’ombra troppo grande di Thor avevano annichilito le sue imprese. Gli rispose come avrebbe dovuto, sfoggiando il suo tono più indisponente e arrogante, sventolandogli davanti il corno colmo di idromele con cui brindava a quel giorno glorioso.

“Immensamente” mentì, e poi rise fingendo che il liquore sapesse meno di fiele.

Se ne era andato masticando un’amarezza che mal si accordava con la vittoria, irritato con Odino per le sue parole concilianti, per il tentativo sospeso di recuperare un rapporto infranto, lacerato: aveva revocato ufficialmente il bando troppo tardi, lo aveva chiamato di nuovo figlio forse presto. Sì, con tutta probabilità era sempre stato quello il problema, tra loro: non riuscivano a trovare il momento giusto per confrontarsi e scontrarsi, come se le Norne li avessero condannati a una perenne mancanza di tempismo che avrebbe esacerbato sempre di più tensioni e contrasti, esasperando il non detto e travisando il resto. Eppure le loro conversazioni erano sempre state brillanti, vivaci. Dispute affascinanti che si combattevano sul filo dell’astuzia, della retorica e della coerenza, messe in atto da due fuoriclasse: lo scaltro Re dotato di un’astuzia lupesca e il suo furbo e intelligente figlio che da lui aveva assorbito ogni gesto, frase, modo di pensare. Sì, Loki e Odino si assomigliavano come e più che se fossero stati davvero legati da un vincolo di sangue, e il motivo non era da imputare solamente alla brillante capacità del dio degli inganni di imitare alla perfezione il genitore adottivo, ma a qualcosa di diverso, più profondo. Condividevano il modo di ragionare e formulare i pensieri, cui univano la sottile sagacia che sfoggiavano quando manipolavano e irretivano il loro prossimo per ottenere un tornaconto personale. Forse era stata questa estrema somiglianza a far nascere la frattura. Ognuno dei due vedeva nell’altro i propri difetti amplificati, esasperati, ingigantiti, ed era pronto a giudicare azioni e pensieri dell’altro con una precisione spietata e crudele.

Poi c’era la mancanza di tempismo, certo. Quell’errore causato con godimento dalle Norne beffarde e annoiate, che avevano fatto cadere Odino nel suo Sonno proprio mentre cercava di spiegare a Loki come le peggiori intenzioni potessero tradire chi le immaginava e trasformarsi inevitabilmente in qualcos’altro – una lezione che anche il dio degli inganni avrebbe appreso, suo malgrado, ma questa è un’altra storia.

La maledizione si era rinnovata quando Thor lo aveva condotto in catene di fronte al trono: c’era stato un momento, prima che Loki si prendesse gioco di tutta la situazione presentandosi come un ragazzino arrogante di fronte al Padre di Tutto, battendo i tacchi degli stivali e imitando con malcelato spregio l’attenti dei soldati, in cui forse il cuore del dio delle forche avrebbe potuto ammansirsi. Se Loki fosse stato meno sarcastico, se nei suoi occhi chiari Odino avesse riconosciuto l’ombra di un sincero pentimento, le cose sarebbero potute andare diversamente. Ma Lingua d’Argento era stato sprezzante e tronfio e si era presentato ammantato di tutta la sua feroce eleganza di fronte al padre adottivo che non lo aveva chiamato figlio, ma prigioniero. Un altro imperdonabile errore dovuto non alla mancanza di discernimento di Odino, ma all’amara constatazione di come Loki, il suo brillante cadetto, non fosse poi così acuto come pensava e sembrava. Come poteva aver bisogno di sentirsi appellare figlio? Non lo era forse stato? Come osava sputare sopra il progetto di una vita intera schiacciando mondi, con quale faccia arrogante si azzardava a svelare di fronte a tutti le necessarie brutalità compiute per realizzare l’idea che si era concretizzata sopra il sangue e le ossa dei soldati morti in battaglia nella formazione dei Nove Regni? Se Loki fosse stato astuto come spesso dimostrava di essere, forse Padre Tutto non lo avrebbe fatto rinchiudere nelle prigioni sotterranee di Asgard. Solo che il dio degli inganni, prima di perdersi in un abisso senza fondo e lasciarsi cadere in un nefasto oblio, gli aveva confessato, sul ponte del Bifrost distrutto e spezzato, di aver tradito e tramato per Asgard, per lui. Le Norne erano state incerte su quale risposta Odino avrebbe dovuto dare al figlio penzolante oltre il ponte ormai a pezzi. L’interminabile e incessante filare si era interrotto un istante. Quale svolta dare al destino di entrambi, dei Mondi? La scelta era ricaduta su un errore, di nuovo. La frase era giusta, ma il momento sbagliato. Odino avrebbe dovuto salvare Loki e metterlo al sicuro da se stesso e dalle sue ombre e poi, solo poi, spiegargli il suo imperdonabile errore. Così non era stato, e Lingua d’Argento si era affrancato da Asgard per diventare il fiero e feroce principe perduto degli Asi, alleato o avversario a seconda del caso.

 

Ora il tempo era finito, cessato: non ci sarebbero più stati fraintendimenti perché era impossibile ci fosse un dialogo vero. La mente di Odino vagava senza riuscire a collegare tra loro volti e ricordi. L’improvvisa chiarezza di un momento si trasformava in un tunnel di oscura confusione un istante dopo.

 

Loki Laufeyson bevve fino all’ultima goccia di idromele, poi gettò con stizza il corno a terra. Lo vide sbattere sul pavimento lucido e rotolare fino alla punta degli stivali di Thor, che lo attendeva a braccia conserte e con un sorriso mesto sul viso stanco.

“Chi eri stavolta?”

Loki piegò le labbra in una smorfia infastidita. “Ha importanza?”

“Non posso parlarne che con te,” gli ricordò il dio del tuono sfoggiando una sincerità assoluta, perfetta, inattaccabile, vera. Un’ammissione che nemmeno lui poteva ignorare o aggirare.

Lo sguardo di Lingua d’Argento si puntò in quello del fratello. “Mi ha riconosciuto all’inizio, per quello che vale.”

“Sei uno dei pochi fortunati. Io sono il suo barbiere, il domestico, il palafreniere, un fastidioso mendicante, persino,” elencò il tonante nel tentativo di rendere meno pesante l’aria che si respirava in quel corridoio invaso dalla penombra.

“Chissà che belle chiacchierate, che vi fate.” Loki rispose con un certo divertito distacco, ma era evidente come avesse apprezzato il tentativo conciliante di suo fratello e le lusinghe con cui voleva renderlo parte di qualcosa da cui lui, invece, era fuggito.

Ogni volta che attraversava il Bifrost per tornare a Vanheim, dove il suo nome veniva pronunciato con un misto di soddisfazione e dispetto insieme, si riprometteva che quella sarebbe stata l’ultima visita che faceva alla figura sempre più emaciata e smunta di suo padre, perché quel vecchio debole e malato non era più Odino. I loro discorsi non erano che la replica sbiadita di altri già fatti o l’ipotesi amara di un passato inesistente. Ascoltare ciò che rimaneva di Padre Tutto era una straziante perdita di tempo capace solo di ricordargli, una volta di più, le ironiche contraddizioni della sua esistenza. Certamente non esclusive – Loki era troppo intelligente per credersi l’unica vittima di un destino avverso e sapeva perfettamente che ogni essere vivente è costretto a sopportare le sue personali tragedie –, ma non per questo meno dolorose.

“Ieri mi voleva cacciare via con un bastone. Ha chiamato le guardie, diceva che volevo rubargli l’idromele,” raccontò il maggiore dei due.

L’ingannatore abbassò il volto per nascondere il riso divertito che gli era salito inevitabilmente alle labbra immaginando la buffa scena, perché nonostante tutto faceva ridere l’idea che Odino avesse scambiato il suo erede designato per un furfante ubriacone e si fosse messo in testa di chiamare le guardie. Un’ilarità che capitava maledettamente a sproposito, a dire il vero, perché Loki non era ancora disposto a perdonare Asgard o suo padre o Thor e, forse, non lo sarebbe stato mai.

“Deve essere stato spassoso,” confessò nonostante tutto.

“Come no, spassosissimo,” si lamentò Thor indicandogli un livido che gli deturpava la fronte. “Lo vedi, questo? Me lo ha fatto lui. Con te è più tranquillo,” aggiunse.

Il sorriso divertito svanì dalle labbra perennemente ironiche di Lingua d’Argento. “Sono venuto fin troppo spesso qui. I miei affari sono altrove.”

“È nostro padre.”

“Era mio padre quando mi ha rinchiuso e poi bandito?”

“Ti ha perdonato. Dovresti farlo anche tu, viste le sue condizioni.” Com’era cambiato suo fratello! Non era il dio del tuono irruente e guerrafondaio con cui era cresciuto, quell’uomo deciso di fronte a lui che gli parlava del potere liberatorio della clemenza. Aveva un atteggiamento più posato, riflessivo, maturo. Di Re. Loki lo guardò dall’alto in basso e gli rispose con un ghigno tetro, amaro.

“Quanta parte hai avuto in quella decisione?”

“Non ha importanza,” sospirò l’altro. “Ritorna. Fallo per te o per me, se non per lui.”

Il dio degli inganni aveva masticato un’imprecazione tra i denti e si era allontanato per le volte immense e buie di Asgard senza voltarsi.

 

All’inizio Odino lo aveva riconosciuto, era vero. Loki era entrato senza farsi annunciare e lo aveva trovato intento a leggere un poema antico. Con l’indice seguiva le rune che si susseguivano le une alle altre sulla carta e muoveva le labbra senza far uscire alcun suono, come se volesse assaporare meglio il senso di quella lettura.

Il dio degli inganni aveva riconosciuto immediatamente il libro dalla copertina e si era stupito, perché non credeva fosse il genere di suo padre. Si era domandato se lo avesse scelto a causa della malattia che tirava fuori la sua natura senza inibizioni né controlli, o se fosse un’altra delle cose scollegate e senza senso che sempre più spesso gli capitava di osservare. Gli chiese perché lo stesse leggendo e cosa pensasse della storia e dove era arrivato.

Padre Tutto alzò lo sguardo un tempo vivo e acuto su di lui. “Loki, sei tornato. La tua traduzione era così appassionata che volevo controllare l’originale.”

Il dio degli inganni si irrigidì. Non aveva la benché minima idea di cosa stesse dicendo suo padre. Non leggeva quel poema da anni e non ricordava di averlo mai tradotto. Forse, rifletté, la mente di Odino era rimasta impigliata in qualche punto indefinito della sua adolescenza. Sì, forse in effetti poteva aver fatto una traduzione di qualche passo dell’opera quando ancora andava a scuola.

“Non dico che non sia ben fatta, Loki. È solo un po’ libera. Avvicinati,” lo incalzò con un gesto. Loki si accostò cauto alla poltrona dove era seduto il genitore. “Vedi qui? Qui dove il Poeta usa questo verbo? Tu hai tradotto usando dispiacere, ma avresti potuto scegliere un termine differente. Nostalgia o rimpianto sarebbe andato meglio.”

Loki lesse le righe incriminate e cercò di difendere un lavoro che non ricordava di avere svolto, ma dovette ammettere a se stesso che le note di Odino erano esatte. Se avesse dovuto tradurre in quel preciso istante il brano nella lingua degli Asi, avrebbe usato la parola rimpianto, senz’altro. Ma la versione che gli veniva attribuita era comunque corretta e assecondarlo faceva parte del piano, della strategia che lui stesso aveva suggerito con riluttanza a Thor. Sarebbe stato inutile cercare di discutere con un vecchio demente. Meglio compiacerlo, nei rari momenti di serenità come quello.

“Capisco la tua scelta, ma dovresti essere più preciso e letterale. Ogni parola ha un senso preciso, una sfumatura particolare e tu devi scegliere quella giusta, tutto qui,” insistette l’anziano Re sottolineando la frase con un gesto delle sue mani un tempo grandi e forti. Loki non poté fare a meno di chiedersi se quella brillante considerazione gli avesse attraversato la mente quando lo aveva chiamato prigioniero, anziché figlio.

 “Il fatto,” concluse Odino con una punta di improvvisa dolcezza, “è che sei giovane, Loki, sei solo un ragazzino e non sai ancora cos’è il rimpianto, per fortuna.”

Quello non era suo padre. Era la sua ombra sbiadita e scollegata. Il signore di Asgard non aveva tempo per interessarsi dei suoi compiti. Non si era mai speso nello spiegare così approfonditamente qualcosa. L’Odino che conosceva gli avrebbe detto che il suo lavoro era imperfetto, manchevole, inesatto. Voleva sapere perché? Studiasse meglio, allora. Non si aspettava certo che se un giorno avesse avuto un trono sotto le terga qualcuno gli sarebbe venuto a dire dove sbagliava, vero?

Certo, era un padre più vigoroso, giovane e sanguigno di adesso, quello di quando lui era adolescente. Non sembrava nell’aspetto un vecchio pallido e fragile, ma era un uomo vigoroso e nel pieno delle sue forze. A tradire una certa stanchezza ci pensavano la testa già bianca e le molte rughe che gli solcavano la fronte, ma per il resto l’Odino di quel tempo era stato un sovrano dotato di un pugno di ferro. All’epoca in cui Loki si spaccava la testa sulle traduzioni delle Rune, suo padre schiacciava senza pietà popoli ribelli ai confini dei Nove Regni.

No, al tempo in cui quello stesso volume che ora il vecchio sovrano stringeva tra le dita era posato sulle sue ginocchia, Loki non conosceva il rimpianto, ma era già affondato fino all’orlo degli stivali nel sangue e nel fango dei campi di battaglia di Asgard. Aveva provato la paura di morire che tiene svegli la notte e sentito in bocca il sapore metallico del sangue. Si era portato il poema – di questo si trattava, in una campagna militare particolarmente feroce e quella sua traduzione libera l’aveva fatta di sera, mentre accanto a lui Thor dormiva, anzi russava. Lui, con una luce fioca e un foglio trovato per caso, aveva aperto il libro, scelto un passo di media difficoltà e aveva cercato di trovare le parole giuste che sapessero restituire, nella lingua degli Asi, il senso del brano. Era un ragazzino con il moccio al naso, allora, e le aveva appena prese. Non riusciva a dormire perché nella foga della battaglia era stato colpito, e sul suo torace non ancora sviluppato spiccavano i segni bluastri di un grosso livido. Vanno in guerra molto presto i figli degli Asi, e questo è il prezzo da pagare affinché diventino guerrieri feroci e abili.

Il ricordo non riaffiorò immediatamente nella mente di Loki Laufeyson. Lo fece piano, con lentezza, piuttosto, risalendo quando Odino aveva ormai smesso di riconoscerlo e parlargli come se fosse adolescente e si era messo a discorrere scambiandolo per qualcun altro, o forse no. In fondo, anche Padre Tutto parlava con un’ombra, solo che non ne aveva la consapevolezza. Credeva di spiegare un verso straniero al suo giovanissimo figlio dallo sguardo offeso e con un elmo vistoso che gli calzava troppo grande sul capo, e invece quel Loki non c’era più, non esisteva che nella sua testa. Al suo posto c’era un altro, un uomo nel pieno delle sue forze cui non occorreva che nessuno chiarisse niente, tantomeno cosa fosse il rimpianto. Odino continuò il suo chiosare e poi gli raccontò come avesse sempre amato quel testo perché trovava che dicesse cose vere e belle, e aggiunse che il suo autore doveva aver avuto un animo davvero molto sensibile perché sapeva guardare con attenzione dentro al cuore degli uomini.

“Come quel… come quel” s’incartò, sfiorando tra loro i polpastrelli dell’indice e del pollice. Il nome che gli era salito alle labbra e stava per pronunciare davanti a quell’adorabile insolente di suo figlio improvvisamente svanì, sfumò. Non era più di fronte a un ragazzo brillante che andava educato, ma a un viso ben noto e combattuto, di cui non poteva non riconoscere lo sguardo grifagno e fiero.

“Cosa sei venuto a fare, qui?” disse quasi tremando.

Loki non rispose immediatamente. Vide l’occhio vacuo e azzurro di Odino fissarlo in modo cattivo, riconobbe la paura nella sua voce, ma non fu in grado di capire dove volesse andare a parare il genitore, così attese nuovi indizi, pronto a cogliere qualsiasi mutamento nell’aspetto e nelle parole dell’altro.

“Torna da dove sei venuto. Torna in mezzo ai ghiacci,” gridò il vecchio alzandosi all’improvviso dalla poltrona.

Non fu solo il riferimento alla bianca e inospitale Jotunheim, a colpirlo. Fu il corpo di suo padre. Nell’atto di alzarsi la coperta che gli copriva le gambe cadde rivelando la figura emaciata e avvizzita di un vecchio. Dov’era il sovrano prestante che, quando batteva col suo pugno sui braccioli dell’Hlidskjalf, faceva tremare l’intera sala?

Il terribile Re che non si era commosso neanche vedendolo in ceppi dopo averlo creduto morto era svanito, perso. L’ultima volta che Loki lo aveva visto era stato quando, con una punta di esitazione, aveva firmato quel fottuto trattato. “Tu hai permesso la mia presenza,” gli ricordò.

Una mano scivolò rapida sull’elsa del pugnale che teneva sempre al fianco e le dita ne accarezzarono il metallo freddo. Non ce ne sarebbe stato bisogno, eppure era una precauzione che non poteva fare a meno di adottare. Una misura spiacevole che gli scatti improvvisi di Odino rendevano inevitabile.

“Non ti appartiene,” esplose il vecchio. “Non ne hai alcun diritto. Non puoi tornare e ripensarci. Non è una cosa tua, non è un oggetto.”

Le vene sulla fronte di Odino si gonfiarono e la sua voce tornò a essere improvvisamente quella del dio delle forche* spietato e inclemente. Una guaritrice, sentendo le urla, entrò e gli disse che forse era il caso che andasse via per non agitare ulteriormente suo padre e Loki uscì dalla stanza senza ribattere né replicare. Di nuovo, il tempo era loro nemico. A cosa, anzi a chi si stava riferendo? Quale antico avversario gli aveva messo davanti la sua mente sfilacciata? Il dio degli inganni era troppo intelligente per non aver pensato a un nome in particolare e rifletté su quanto fossero state infinitamente meno penose, le volte in cui lo aveva scambiato per il suo guaritore, un lontano parente di Frigga o un commilitone conosciuto quando era ragazzo. La voce di Odino, gonfia d’ira, attraversò la soglia ancora aperta e lo investì per l’ultima volta.

“Un picco di ghiaccio. L’ho trovato su un picco di ghiaccio. Tu cosa ne vuoi fare, adesso? Un’arma contro di me?”

 

 

Era stato allora che Loki aveva ordinato al servitore più vicino di portargli in fretta un corno di idromele, mentre l’urlo sguaiato di suo padre ancora gli rimbombava nelle orecchie e un pensiero lo coglieva: dal fondo del tunnel dove era precipitato, Odino non solo riviveva brandelli di ciò che era stato, ma anche di ciò che avrebbe potuto essere, smarrendosi in un reticolo dove il passato si confondeva con ipotesi, incubi e desideri. Il sovrano di un tempo, temuto e rispettato da tutti i Nove Regni, ora era schiavo delle sue parole e delle sue speranze, in una giostra senza fine da cui non sarebbe sceso mai più. Odino non aveva mai avuto modo di apostrofare in quel modo Laufey, il signore di Jotunheim, ma molto spesso, nel cuore della notte, gli era capitato di immaginarsi quel dialogo. Avveniva quando si affacciava nella camera dei bambini e osservava i suoi figli finalmente addormentati, due pesti fin troppo vivaci che riposavano scomposti in un letto con le coperte aggrovigliate e l’aria serena e beata. Non erano ancora il dio del tuono e quello dell’inganno, ma gli indifesi eredi del suo retaggio. Mentre loro sognavano di essere già grandi, Padre Tutto avrebbe voluto fermare il tempo e lasciare che rimanessero per sempre bambini rumorosi e felici, quasi che una parte di lui avesse sempre saputo, fin da allora – e come avrebbe potuto non essere così, del resto? – che un giorno la verità da cui cercava di proteggere la sua famiglia sarebbe venuta fuori, e la ragione di stato avrebbe fatto i conti con gli affetti.

Loki tutto questo non lo avrebbe saputo mai, né avrebbe potuto immaginare quanto il suo lancinante pensiero si fosse drammaticamente avvicinato al vero. Si maledisse mentalmente per essersi imposto una volta ancora di incontrare quell’uomo anziano e malato che chiamava padre, e gli parve di risentire la sua voce tristemente ironica, mentre tornava a rinchiudersi nel suo esilio volontario su Vanheim. Quella che aveva quando era ancora il sovrano degli Asi e la sua mente non se n’era andata. Le parole dell’ultima frase che gli aveva rivolto mentre siglava con la sua firma il trattato di pace tra Asgard e i Vanir gli risuonarono dentro in tutta la loro profonda semplicità. Toglimi una curiosità: sei soddisfatto?

 

***

 

A Vanheim il freddo era forse meno pungente, ma tirava comunque un vento fastidioso e insolente capace di infilarsi sotto i vestiti e gelare la pelle e le ossa. Loki Laufeyson scelse di entrare da una porta secondaria e, sgrullandosi il mantello dalla neve, si incamminò rapido e deciso verso un luogo neutro, silenzioso e solitario dove avrebbe potuto calmare i propri nervi esasperati: la biblioteca, il posto perfetto dove rinchiudersi se era troppo presto per dormire e non era dell’umore adatto per cercare compagnia. Il vecchio Njord** non era un lettore accanito né un uomo particolarmente colto, ma amava collezionare testi rari e fare sfoggio della propria ricchezza. Nel corso del suo lunghissimo regno, aveva accumulato una quantità enorme di volumi, tanto che le sale che costituivano la biblioteca avevano dovuto essere ampliate per ben due volte. A usufruire dell’impressionante raccolta era quasi esclusivamente Loki, motivo per cui aveva sempre con sé una copia delle chiavi delle ampie stanze ed era solito entrare e uscire nelle ore più disparate. Fu questo il motivo per cui vi si rifugiò senza nemmeno prendere in considerazione l’idea che avrebbe potuto non essere solo.

Le sue aspettative vennero immediatamente disattese dalla penombra calda che regnava nella biblioteca e dall’odore sottile e amarognolo di brace. Il gigantesco camino che scaldava le stanze era acceso e un fuoco flebile e tremante, ormai vicino a spegnersi, gettava una luce rossastra sugli scaffali ordinati ricolmi di libri, sui pesanti tavoli di quercia dalle zampe intarsiate e sulle poltrone rivestite di pelle. Su una di queste dormiva, rannicchiata sotto a una coperta leggera, l’intrusa che aveva osato violare il suo spazio. Sigyn.

Al dio degli inganni non poteva interessare di meno del perché la nipote di Njord fosse lì nel cuore della notte. Gli sarebbe importato molto di più sapere il motivo per cui la ragazzina aveva scelto proprio la sua poltrona per addormentarsi. Lanciò appena uno sguardo sbieco e rapido ai libri posati sul tappeto, ma poi i suoi occhi finirono inevitabilmente per salire con lentezza sulla lana in cui era avvolta la Vanir, sulla figura snella che intuiva sotto lo strato spesso di stoffa, sulle ciocche bionde sparpagliate sul bracciolo e sulle labbra leggermente schiuse. La coperta penzolava da un lato scoprendole appena la dolce linea del collo e il principio della scollatura rotonda del vestito. Indovinò che indossava un abito semplice e femminile, capace di esaltarle le forme senza accentuarle e si sposava fin troppo bene con la sua carnagione chiara. Loki si stravaccò sulla poltrona gemella, sistemata di fronte a quella dove dormiva Sigyn.

Non avrebbe cambiato posto perché lì c’era lei. Aprì un testo zeppo di rune e formule, appuntandosi su una pergamena brevi sunti dei punti più salienti. Ciò che i Vanir non capivano, quello che non riuscivano a interiorizzare e a far proprio, era che non bastava accumulare libri od ottenere una vittoria, per poter dire di essere potenti. Occorrevano costanza, determinazione e fermezza per mantenere i punti fermi acquisiti e accaparrarsene di nuovi. Se ora Njord poteva trattare da pari con gli Asi era perché lui, Loki Laufeyson, si era preso l’onere di guidare le sue armate e decidere le tattiche militari migliori e continuava a lavorare per non perdere terreno e prestigio. Era anche per questo che tutti gli dovevano qualcosa, a Vanheim. Alzò la testa per sgranchire il collo contratto, e il suo sguardo pungente e accigliato si posò di nuovo su Sigyn addormentata. Oltre l’orlo del corsetto che le fasciava il busto sporgeva la dolce curva del seno che si alzava e abbassava con placida lentezza. Una visione disturbante, piacevole, rubata e per questo più intrigante, soprattutto in quell’ora della notte in cui ogni rumore o pensiero veniva ingigantito dal buio. Una scena simile sarebbe capitata in un altro luogo, in un tempo diverso, ma identico sarebbe stato il desiderio.

“Sigyn.” La svegliò lui? Pronunciò veramente il suo nome? La ragazza stesa davanti a lui sospirò stirandosi appena sotto la coperta di lana e poi batté lentamente le palpebre, aprì gli occhi assonnati e gonfi, sussultando nel ritrovarsi il suo sguardo verde addosso a quell’ora, nella penombra della biblioteca deserta.

Era bella e non lo sapeva. Si sollevò rapidamente dalla poltrona, senza accorgersi del disordine in cui versava, spettinata com’era. Loki Laufeyson ne approfittò per guardarla ancora e di nuovo, crogiolandosi nel suo disorientamento perché amava ammirare il caos, quando se lo trovava di fronte.

“Dove sei stato?” Una domanda insolente detta con voce impastata, ma non priva di una nota di estranea dolcezza e di una familiarità che non avrebbe dovuto esserci.

Sigyn lo disapprovava apertamente eppure, alle volte, lo guardava negli occhi e gli faceva quelle domande assurde, perché nella sua realtà fatta di libri e grandi ideali l’ipocrisia dei Vanir era un’offesa e la gentilezza andava elargita a tutti, persino al dio degli inganni con cui litigava ai banchetti. A Vanheim, Loki era un cortigiano indispensabile e scomodo allo stesso tempo che non faceva parte di nulla, di niente. Lei conosceva ciò che si diceva su di lui, aveva cognizione di chi fosse e cosa avesse fatto, eppure talvolta si permetteva di bacchettarlo, apostrofarlo, litigare, perché l’Ase avrebbe potuto scegliere di essere dalla sua parte nelle varie conversazioni che si tenevano a cena e forse sotto sotto lo era, ma preferiva lasciare che si arrangiasse e assecondava Njord per mero comodo. Lei questo lo sapeva e con quei suoi begli occhi grigi non glielo perdonava, ma talvolta ugualmente gli riservava la dolcezza che l’aveva resa cara a Njord e a molti altri. Era stata premurosa, ecco. Loki arricciò le labbra in una smorfia di disappunto, perché gli affondi della sua lingua affilata e crudele erano meno potenti, se venivano contrapposti alla gentilezza e alla cortesia.

 “Ti stai interessando dei miei spostamenti.” Più che una domanda retorica era un’annotazione, un appunto che sottendeva quanto fosse stata inappropriata la sua battuta.

Sigyn inclinò leggermente il capo da un lato e si passò una mano tra i capelli in un altro dei suoi gesti sensuali e irresistibili che faceva con infinita grazia e totale inconsapevolezza. Se non fosse stata la nipote di Njord, Loki avrebbe ghignato di fronte alla sua bellezza e avrebbe cercato un modo per avvicinarsi di più a quel corpo snello e invitante. Solo che toccare Sigyn o anche guardarla troppo intensamente era più di un reato: se solo l’avesse sfiorata, gli sarebbe pesata immediatamente sul capo un’accusa di alto tradimento, perché nelle vene che spiccavano sotto i polsi chiari della ragazza scorreva il sangue della stirpe che aveva governato Vanheim da sempre. Loki strinse leggermente le palpebre affaticate e scosse il capo come se volesse scacciare un pensiero fastidioso; l’ora tarda e la stanchezza gli avevano fatto guardare per un attimo la bionda Sigyn in una maniera sbagliata, diversa.

 

“Stasera a cena mi sono mancate le tue battute. Tutto qui,” sospirò lei lanciandogli un sorriso d’intesa.

“Da quando le mie battute ti mancano, principessa? Non ricordo una cosa su cui siamo mai stati d’accordo.” Il titolo servì a ristabilire gerarchie e lontananze, a rammentare all’Ase quanto fosse impossibile ottenere la ragazza di fronte a lui. Deliziosamente impossibile.

“No.” Sigyn guardò in basso, verso il tappeto finemente intrecciato con fili blu, verdi, bianchi e dorati che la scarsa luce notturna rendeva un’unica macchia indistinta. “Noi su alcune cose la pensiamo allo stesso modo, solo che a te non conviene dirlo. Non lo ritieni utile.”

Loki si protese verso di lei e rise, freddamente divertito per la compita serietà di Sigyn che si fissava la punta degli stivaletti scuri.

“Sarei ipocrita?”

La ragazza scosse la testa e lo guardò con aria affranta. La puntuale perifrasi dell’Ase era stata scarna e pungente, ma non esatta. C’era troppa crudeltà nella definizione che aveva dato. “Ti chiamano dio dell’inganno”, spiegò. “Esibisci atteggiamenti che non ti appartengono. Solo che questo modo di fare tu non lo mascheri né te ne vergogni. Non te ne penti. Sei tu e basta.” Si alzò tirandosi appresso la coperta di lana che ancora tratteneva il calore del suo corpo.

“Sembrerebbe un’amara constatazione,” fu la laconica risposta.

“Non è amara. Davvero. Tu valuti se appoggiare un punto di vista rispetto a un altro, ma non pretendi di essere ciò che non sei. Ti fai chiamare dio degli inganni: chiunque scelga di parlare con te sa già cosa rischia,” puntualizzò Sigyn. “Discutevano del Solstizio, stasera,” proseguì, “mancano ancora tre mesi e già si preoccupavano di quanto dovessero essere grandi e sontuosi gli addobbi e i festoni.”

“Una conversazione irrinunciabile.”

“Appunto. Me l’avresti resa più tollerabile.”

“Proprio tu dici questo? È la tua festa preferita,” ricordò l’Ase giocando con le pagine del volume che aveva scelto di consultare quella notte.

“Lo è perché vivo dentro queste mura. Se fossi povera o senza una famiglia non lo penserei, ti pare?” Sigyn si morse le labbra. Non riusciva mai a dire la cosa giusta, quando parlava con Loki. Discorrere con lui era qualcosa di esaltante e terribile. La viva intelligenza di Lingua d’Argento la irritava, la spronava, la lusingava e la conquistava allo stesso tempo, provocandole un miscuglio di sensazioni che nessun altro interlocutore era capace di farle provare.

“Godi di quello che hai, allora.”

Sigyn aggrottò le sopracciglia, si strinse di più nella coperta. La frecciata era stata involontaria, e questo l’Ase senz’altro lo aveva capito o forse non gli interessava, anche se la piega nostalgica delle sue labbra ironiche suggeriva altro e contrastava con la durezza del suo sguardo. La ragazza pensò anche a cosa avesse e cosa, invece, le mancasse, e scoprì che le assenze avevano un retrogusto amaro, come la festività sontuosa e inevitabilmente tragica che si avvicinava. No, gli occhi di Loki non erano severi e protervi, tutt’altro. In loro c’era un rimpianto oscuro che lei non poteva conoscere né toccare.

“Le Norne non hanno filato per noi un destino eterno, Sigyn. Tutto quello che abbiamo, che odiamo, che desideriamo finirà, prima o poi.” Glielo disse senza guardarla, continuando a sfogliare distrattamente le pagine scritte fitte del volume, ma alla ragazza sembrò che il dio degli inganni stesse cercando non di convincere lei di quanto fossero provvisori e fugaci i mondi retti dall’Yggdrasill, ma se stesso. Se ci fosse stata una maggiore confidenza tra lei e l’Ase, forse Sigyn si sarebbe arrischiata a domandargli il motivo per cui parlava come se avesse diverse migliaia di anni sulle spalle, ma lei e Loki non condividevano nulla se non l’ironia con la quale alle volte osservavano quanto fosse ipocrita il mondo e un certo interesse per i libri, così tacque.

Addentrarsi in una conversazione sulla caducità dell’esistenza sarebbe stato affascinante, ma la notte era troppo profonda e dietro il sorriso laterale e breve di Lingua d’Argento c’era un’inquietudine che la ragazza riconobbe come pericolosa, in qualche modo.

“Credo che mi preparò una tisana, per dormire,” annunciò. “Potrei farla anche a te.”

Il dio degli inganni le puntò addosso il suo sguardo trasparente e aguzzo, come se volesse valutare le sue reali intenzioni. “Non c’è bisogno,” si affrettò a rispondere ripristinando all’istante posti e ruoli.

Sigyn sospirò allontanandosi “Potrei farne troppa comunque e lasciarla nelle cucine,” concesse esitando, e sparì nell’ombra assieme al suo profumo.

 

***

 

Loki tornò ad Asgard quando mancava appena un mese al Solstizio. Lo fece sfruttando sentieri noti a lui solo, con il favore delle tenebre. Thor gli aveva detto che Odino era peggiorato, e anche se si era ripetuto mille volte che ogni sua curiosità era stata soddisfatta e non voleva più vedere il disfacimento fisico e mentale dell’uomo che aveva chiamato padre, si era ritrovato suo malgrado a calpestare di nuovo la terra brulla degli Asi già ricoperta di soffice neve. Non si tolse il mantello, al cospetto di quello che era stato il sovrano di Asgard. Si lasciò cadere sulla poltrona più vicina osservando la figura indaffarata dell’uomo che gli aveva insegnato a trattare e a mentire e che, nascondendo sotto un’espressione indecifrabile l’ammirazione, si era accorto per primo del suo talento con le Rune***. Se solo glielo avesse detto.

Odino rovistava nei cassetti e negli armadi e sembrava non prestargli alcuna attenzione. Di tanto in tanto, alzava il suo unico occhio su di lui per esortarlo a cercare delle pinze, un po’ di colla o a prestargli uno dei pugnali che gli scintillavano al fianco e che il vecchio intravedeva sotto il mantello.

“Sei pigro, sei pigro. Vivere lontano da Asgard anziché fortificarti ti ha reso debole,” sentenziò con voce stentorea.

Loki attese prima di rispondere, chiedendosi una volta di più come facesse, la mente scollegata di Odino, a cogliere e a riconoscere in maniera sorprendente alcuni dettagli e ignorarne completamente altri. Forse aveva registrato il pesante mantello di lana e aveva notato i fiocchi di neve che erano rimasti aggrappati sulle sue spalle, ragionò, ma questa spiegazione, per quanto fosse plausibile, non bastò a placare la sua inquietudine.

“Per cosa?” domandò inclinando il capo.

Padre Tutto lo fissò come avesse due teste o fosse ubriaco. “Lo hai sentito prima, no? Non riesco a sopportare che stia così e che mi guardi a quel modo. Devo fare qualcosa, e ci riuscirei, se solo trovassi le mie pinze.”

Se Thor era stato più volte preso a bastonate da Odino e scambiato per un ladro, il motivo era da imputarsi solo e soltanto alla sua scarsa, anzi inesistente capacità di adattarsi alle circostanze, rifletté Loki. Di fronte alle domande e alle azioni del fratello il vecchio genitore si innervosiva, perdendo ancora di più il filo dei suoi ragionamenti labili. Con lui, in effetti, generalmente era più calmo perché lo assecondava adattando risposte e reazioni al momento.

Batté le palpebre, espirò con forza. “Certo. Hai provato in quel cassetto?”

Aveva indicato uno spazio qualunque della stanza, ben consapevole di ritrovarsi all’interno di una recita senza sapere il ruolo che gli era stato assegnato. L’attimo di disorientamento, l’istante in cui Lingua d’Argento osservava suo padre chiedendosi cosa l’altro vedesse al suo posto, rappresentavano non solo per Thor, ma anche per lui un momento di puro, incalcolabile panico.

Odino seguì il suo sguardo, si accarezzò la barba bianchissima. “Può darsi, in effetti.”

“Potresti aspettare domani,” lo interruppe Loki. “Non credo se la prenderà. Ormai è sera: beviamo un po’ di idromele e raccontiamoci qualche vecchia battaglia,” propose.

Odino aggrottò la fronte e, per un attimo, il suo occhio azzurro recuperò la severa durezza dei passati fasti.

“Tu non hai figli e non sai che vuol dire vederli tristi.”

Lingua d’Argento si mosse nervosamente sulla poltrona. “Li vizierai.”

“Ma figurati!” rise Odino. “Saranno Asi. Cresceranno forti e sani e guideranno le mie armate,” preconizzò con una voce traboccante orgoglio. Strano, perché lui e Thor avevano comandato innumerevoli volte le truppe scelte di Asgard, e raramente il sovrano era sembrato soddisfatto del lavoro svolto. Quando il dio degli inganni non era che un ragazzo, capitò che rimanesse ferito durante un assalto. Aveva perso i sensi ed era svenuto in mezzo al sangue e ai cadaveri degli altri soldati. Fortunatamente, Thor era riuscito a trovarlo e a trarlo in salvo, caricandoselo letteralmente sulle sue forti spalle. Odino lo aveva raggiunto quando ancora era ricoverato nell’infermeria del campo e, fissandolo dall’alto in basso senza soffermarsi con troppa attenzione sulle bende ben visibili che si incrociavano sul suo torace, gli aveva rivolto parole dure e secche. “Sei tu che devi mettere in salvo le Armate che ti affido, e non viceversa.” La soddisfazione non era nella sua natura, ma nemmeno in quella del suo vecchio padre, rifletté. Fu colto da un’idea crudele.

“Tutti saranno Asi, Odino? Che ne sarà del figlio del gigante?” insinuò.

Un tremito. L’anziano sovrano interruppe la sua ricerca e aggrottò le sopracciglia bianche. “È mio figlio.”

Loki si alzò e gli girò attorno incurante, per una volta, delle reazioni che avrebbe potuto avere quell’uomo stanco e malato di fronte alle sue parole. “No, e lo sai. Un giorno scoprirà la verità e sarà peggio.”

“Definisci peggio.”

“Potrebbe rivoltare le sue armi contro di te.”

Odino illividì e gli puntò il dito contro. “Cosa dici, Vili? Hai forse smesso di bere al solo scopo di diventare insopportabile? Che ne sai tu, di Loki? Hai forse parlato con le Norne?”

Lo aveva apostrofato con il suo tono più duro e tagliente, non privo di un certo crudele sarcasmo. Il dio dell’inganno si ritrasse appena, sorpreso per la reazione caustica del genitore. Ecco chi era, nella mente svagata di Odino: Vili****, il fratello che aveva scelto di vivere abbarbicato sui monti perennemente ricoperti di neve posti molto a nord di Asgard. Un guerriero dal fare spiccio e dai modi decisamente discutibili, non particolarmente buon visto a corte; un eremita solitario che Padre Tutto non era mai riuscito completamente a gestire e di cui disapprovava apertamente abitudini e pensieri, legato alla più pura tradizione degli Asi. Vili era un predone che aveva scelto di rifiutare la politica pacifista che Odino aveva abbracciato a un certo punto del suo regno, quando Thor era nato. Le divergenze sorte erano state tali che il fratello del re aveva deciso di vivere per conto proprio, palesandosi solo di rado ad Asgard. In un’altra occasione, Loki avrebbe trovato un filo offensivo il paragone, ma non quella notte.

 

 “Prevedo solo l’ovvio risultato di un tuo comportamento,” precisò con voce cattiva allargando le braccia. Non gli interessava imitare Vili, né rispondergli in modo coerente con il personaggio. Le Norne avevano filato che non potesse esserci alcun chiarimento, tra lui e suo padre, ma sembrava si divertissero a tormentarlo con quelle recite fini a se stesse, dove Loki poteva parlare, sì, ma con l’ombra sbiadita di Odino, nient’altro. Sfidando la prudenza gli si avvicinò fin troppo, tanto da vedere il rancore e l’odio nell’unico occhio azzurro dell’altro.

“È mio figlio,” ripeté il vecchio quasi tremando, avendo cura di scandire ogni sillaba con precisione.

“Non l’hai portato qui con buone intenzioni, e lo sai.”

“L’ho cullato quando piangeva, consolato quando era malato e accudito dal primo istante in cui l’ho trovato su quel picco di ghiaccio,” ricordò Odino. “Tu c’eri! Tu hai visto dove lo avevano abbandonato a morire, da solo,” tuonò, incapace di contenere l’ira per l’accusa che lo aveva tormentato per una vita intera.

“Se non fosse stato il figlio di Laufey, lo avresti fatto?” Era crudele, il dio degli inganni, come solo un Asi o uno Jotunn, nei Nove Mondi, poteva essere. Provava un piacere tutto suo nel rimirare gli avversari sconfitti: persino quando era stato rinchiuso nelle celle sotterranee di Asgard, non aveva resistito dal cercare con lo sguardo i prigionieri che scontavano lì la loro pena a causa sua, per il solo gusto di compiacersi della loro disperazione.

“È un piano che mi è sfuggito di mano, d’accordo,” ammise Odino tremando. “Non lo avrei accolto nella mia casa, se non fosse stato il figlio di Laufey, ma poi, poi, è diventato mio figlio, Vili. Quando ha mosso i primi passi e iniziato a parlare, era già mio. E adesso passami almeno della colla per riparare questo giocattolo,” insistette.

Gli occhi di Loki assunsero una trasparenza quasi liquida. “Se lo sono conteso?” sussurrò.

“Come sempre, come tutto,” scosse il capo il vecchio re, “ma Loki adora questo drakkar e voglio ripararglielo.”

“Non lo farai mai. Non ricordo tu l’abbia mai fatto.”

La voce di Lingua d’Argento era bassa e roca e piena di un rimpianto incolmabile, insuperabile. Quella non era la realtà né la replica di qualcosa accaduto anni prima. Si trattava dell’esternazione di un antico rammarico di suo padre per un momento che non si era verificato, un gesto che non aveva avuto il tempo di compiere. Qualunque cosa fosse, faceva male a entrambi e basta, perché non leniva le ferite del passato né poteva risanare gli strappi in vista del futuro.

“Potrebbe essere su quella mensola, è sempre tutto in disordine qui.” Odino cercava ancora gli strumenti per riparare quel giocattolo fantasma che era stato distrutto da tempo e il dio degli inganni nemmeno ricordava.

“Avresti potuto dirlo quando Thor mi riportò in catene, dopo Midgard. Invece mi condannasti.”

Incurante di aver gettato la maschera, osservò l’anziano genitore continuare ad arrovellarsi nella sua ricerca vana, consapevole di non stare parlando più con suo padre, ma con l’ombra sempre più inconsistente che era rimasta di lui, fatta di brandelli di ricordi, volontà e desideri, incapace di riconoscerlo o di avere qualsiasi tipo di conversazione. Odino era morto quando una notte si era sentito soffocare e il suo cervello era rimasto isolato un momento di troppo. Ciò che rimaneva, era un guscio vuoto che talvolta sembrava ascoltarlo e comprenderlo, impossibile da ascoltare.

“… Ma dov’è la barca, Vili? Non la trovo.”

 

Non tornò più ad Asgard fin quando Odino visse.

 

***

 

Le Norne sono beffarde, ironiche, crudeli. Giocano con il tempo in maniera imprevedibile, caotica, quasi. Per questo Loki Laufeyson ne ammirava spesso l’operato fantasioso; il modo becero in cui talvolta intrecciavano tra loro i destini e gli eventi era divertente agli occhi di chi, come lui, fingeva di non provare rimorsi per nessuna azione. Un pomeriggio nevoso anche il suo filo vibrò, e non importò alle tre filatrici che la loro vittima stavolta fosse proprio il dio dell’inganno in persona. Del resto, il fiero Ase avrebbe finito per accettare con principesca grazia l’ennesima sarcastica trovata delle tre creature. Il punto è che il tempo scorre anche nei Nove Mondi legati tra loro dall’Yggdrasill, il frassino sacro, ma talvolta si arrotola e pare ripetersi in un circuito senza fine né cognizione.

Per Loki il cerchio si chiuse quando erano passati ormai diversi anni dalla sera grigia e triste in cui aveva lasciato senza voltarsi la stanza di Odino. Si ritrovò tra le mani un giocattolo rotto, il modellino di un drakkar. Rigirandoselo tra le dita ne osservò l’albero irrimediabilmente spezzato. Riconobbe la manifattura propria degli Asi e ipotizzò che dovesse trattarsi di un regalo di Thor.

Sua figlia era entrata nello studio come un tornado, arrampicandosi con proterva indifferenza sulle sue gambe per mostrargli il terribile danno. “Non adesso, Sonje*****,” le aveva risposto con voce severa.

Doveva scrivere almeno una decina di lettera, prima di potersi alzare da quella sedia. Missive urgenti che giacevano già da troppo tempo sulla bella scrivania di frassino dalle zampe intarsiate. Poi però vide gli occhi disperati della bimba già in lacrime, grigi, rotondi e dolci come quelli di lei, e disse che gli serviva un taglierino e della colla e, dopo aver pronunciato quella frase, si bloccò un momento, perché così aveva detto Odino durante il loro ultimo incontro. Di fronte al destino che si replicava con straziante e impietosa puntualità, non poté far altro che mascherare sotto un sorriso storto e mesto e una carezza distratta ai ricci neri della figlia, l’acuta nostalgia per quel vecchio crudele e spietato, bugiardo più di tutti, che lo aveva ingannato e solo nella pazzia gli aveva mostrato un pizzico di dolcezza. Troppo tardi, si ripeté per l’ennesima volta.

Sonje alzò lo sguardo umido e supplichevole verso l’Ase. “Non si può riparare papà? È rotta per sempre?”

Già le lacrime le bagnavano le ciglia lunghe e nere. Il dio degli inganni si chinò verso di lei. “No, questa no. La aggiustiamo. Serve della colla,” ripeté e mentre la bimba gli buttava le braccia al collo, si mise a cercare l’indispensabile armamentario che la mente persa del vecchio Odino, una sera lontana, non aveva potuto trovare. Per la prima volta dopo molto tempo, gli parve di provare una sorta di nostalgica pietà per quel sovrano spietato che lo aveva tirato via da un picco di ghiaccio e gli aveva mentito per tutta la vita. Riparò l’albero del drakkar spezzato e, mentre lo faceva, Sonje rimase a fissarlo riempiendolo di mille domande, perché Loki Laufeyson si era messo a raccontarle le storie ormai lontane del regno che era stato di Odino e di come il Re degli Asi avesse combattuto persino nella terra dei ghiacci perenni, Jotunheim.

“Il re degli Asi è zio Thor,” notò la piccola a un tratto assottigliando gli occhi grigi.

“Odino era suo padre.” Una pausa, una smorfia impercettibile increspò le labbra concentrate di Lingua d’Argento. “Nostro padre,” si corresse.

Sonje non fu l’unica ad ascoltare quelle storie. Anche Sigyn le udì, oltre la porta socchiusa. Sporgendosi appena nello studio del marito, colse l’immagine del dio degli inganni che consegnava il giocattolo aggiustato nelle mani della loro saltellante ed entusiasta bimba, e le si strinse suo malgrado il cuore nel vedere la figura alta e nervosa dell’Ase chinarsi per ricevere dalla piccola un sentito abbraccio e un sonoro bacio sulla guancia. Poi Sonje si girò verso la porta e le corse incontro per mostrarle il prodigio di quella riparazione esemplare e perfetta. La principessa dei Vanir sorrise al dio dell’inganno che tornò ad occuparsi delle sue molte scartoffie.

“Sto preparando una tisana. Te ne porto una tazza?” domandò prendendo per mano la figlia.

Loki le puntò addosso il suo sguardo trasparente e aguzzo, come se volesse valutare le sue reali intenzioni e capire quanto avesse ascoltato delle storie appena raccontate. “Non mi dispiacerebbe,” rispose abbassando gli occhi verso la lettera che stava scrivendo.

 

 

 

 

Caro Lettore,

La neve che ha imbiancato le città i questi giorni ha fatto slittare – nota il gioco di parole, ti prego, la pubblicazione di questa storia che si inserisce nell’universo di “Tutte le tue bugie”. Ti aspettano altre storie legate a quella long fic, oltre a un seguito più corposo, quindi… tieni gli occhi aperti! Ma veniamo a noi. Finalmente ti ho svelato Sonje: ebbene sì, la nostra coraggiosa Sigyn era incinta di una bimba. Che dire? Come al solito ti ringrazio del tuo tempo e di essere giunto fino a qui. Se te la senti, fammi sapere cosa ne pensi lasciandomi un feedback, lanciandomi una ciabatta virtuale, scrivendomi una riga, o che so io. A presto.

*Uno dei nomi dati ad Odino dai norreni è quello di “dio delle forche,” perché fu impiccato all’albero dell’Yggdrasill, ma questa è un’altra storia.

**In questa storia, Njord è l’anziano re di Vanheim, nonno di Sigyn e padre di Freyr e Freya. La mitologia norrena è stata stiracchiata all’occorrenza, dato anche lì Njord è padre di Freyr e Freya ma non c’è alcun legame con Sigyn.

***Nella vulgata dei film di Thor, è Frigga, la moglie di Odino, la maga della situazione. In verità anche Padre Tutto utilizza incantesimi.

****Vili nella mitologia norrena è veramente il fratello di Odino, ma il suo carattere me lo sono inventato.

*****Nel mito, Loki e Sigyn sono una coppia con due figli maschi. Nell’universo che ho creato hanno una figlia femmina, Sonje. Il nome dovrebbe significare qualcosa come saggezza, stando a una rapida consultazione di Google.

   
 
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