Premessa: questa fan fiction è una what-if.
Riprende gli eventi successivi all’incontro di John, Sherlock e Mary
all’interno della Casa Vuota (3x03 – scena in cui Sherlock, fuggito dall’ospedale,
smaschera Mary di fronte a John, dimostrandogli che non era, appunto, chi
diceva di essere).
In questa versione, Mary non è mai stata incinta e viene arrestata per i suoi
crimini subito dopo.
Arrabbiato con il mondo e bisognoso di elaborare l’intera faccenda, John rimane
a vivere da solo nel proprio appartamento.
The Courier
(if the truth is what I owe you)
“Sherlock, fermati.” John solleva i palmi delle mani, le sue dieci dita tozze
si distanziano e irrigidiscono come le zampe di una gallina. “Cosa stai
cercando di dirmi?”
È convincente.
Per il detective, quell’interruzione è un po’ come una rinascita, un brutale
ritorno al mondo fisico e percettivo, crudele oltre ogni limite, per nulla
piacevole.
L'emorragia verbale si arresta di colpo. Sherlock vede il suo dramma lì,
barbaramente esposto e denudato di fronte ai suoi occhi; di fronte al volto
confuso e accigliato di John che lo scruta con vacillante compostezza, e si
sorprende quando quest’ultimo avanza ancora il suo “Cosa è successo?” – non è
già chiaro?
Schiude la bocca. Qualcosa sul fondo della propria gola preme ad uscire, ma è
solo un suono gutturale e privo di senso, una risposta che non porta il Dottor
Watson da nessuna parte.
“Ebbene?”
Deglutisce. Fa un altro tentativo, ma la sua
lingua fa sapere che ha appena proclamato la completa secessione dal cervello,
e ciò che viene fuori, è un nuovo bolo di parole che Sherlock non sa dire se a
John possano apparire ulteriormente criptiche o ulteriormente insensate, ma ciò
di cui è assolutamente certo (il modo in cui ha ritirato il mento e stretto le
mani sui braccioli della sua sedia ne è una prova concreta), è che la pazienza
del dottore non durerà ancora molto, e non sbaglia.
“Sherlock...”
“Ho qualcosa dentro di me,” sfugge
inavvertitamente alle sue labbra, un atto di forza del cervello che tenta di
sottolineare la propria autorità sulla lingua. “Ho–ho introdotto qualcosa dentro
di me,” aggiusta subito dopo, con il tono di chi sa bene che non vi è molto
da aggiustare, ma sente che è suo dovere rispondere quanto più possibile ai
bisogni di un intelletto ordinario come quello del Dottor Watson.
“...dentro di te?” John piega il viso. “Cioè un corpo estraneo?” - e Sherlock
accenna un sorriso pieno di gratitudine, pieno di sollievo, quando questo
disperde lo sguardo su di lui, e poi, di colpo, sgrana gli occhi, schiude la
bocca, lo guarda con un orrore tutto nuovo– sì, lì vorrebbe quasi abbracciarlo!
Davvero!
E non gli sembra umanamente possibile che John possa ancora mandare tutto in
aria con il suo “Sherlock, cosa diavolo hai ingoiato!?” - che mette fine
a ogni speranza di poter farla finita presto e senza troppe spiegazioni.
E fa sul serio. Con un’urgenza ritrovata, John
scosta da sé la sedia, balza in piedi e Sherlock non ce la fa davvero a
dissuaderlo, è ancora confuso, e seriamente - non riesce quasi a muovere
le labbra quando questo ripete, nuovamente, la stessa stupida, ottusa
domanda.
“John, per l’amor del cielo, non urlare! C’è gente in sala d’attesa.”
E a questo punto, il Dottor Watson sembra
riprendere consapevolezza dell’ambiente circostante. Si guarda intorno
stordito, prende un profondo respiro da entrambe le narici.
Il petto nascosto dal camice bianco si gonfia; è evidente che non abbia voglia
di dargli la soddisfazione di obbedire a un suo ordine, quindi incalza di
nuovo.
“Sherlock,” congiunge l’indice con il pollice a pochi centimetri dal proprio
viso, traccia nell’aria una riga invisibile. “Dimmi esattamente cosa hai
ingoiato. Subito.” E Sherlock sa che sta mentalmente contando sino a
dieci, perché è un paio di numeri indietro rispetto a lui, quindi non si
sorprende di essere guardato così in cagnesco, oh no. Capitan-John-Watson-del-Quinto-Reggimento-Fucilieri-di-Northumberland
quando arriva, non va via così facilmente: ha bisogno di tempo.
Sbatte più volte le palpebre, ci riprova. “John—“ Niente da fare.
Balbetta parole a caso del tutto sconnesse, e diavolo – quando ha fatto quei
passi indietro?
Il dottore a quel punto ha chiaramente esaurito qualsiasi aspettativa nei suoi
confronti e scuote la testa.
La scuote forse anche solo per accelerare il ritorno del Dottor-Watson-medico-di-famiglia-generico
(quello buono e paziente, si intende; quello che ha a che fare con vecchiette
sorde e uomini di mezza età ipocondriaci, per capirci), prima di poggiare le
anche su un angolo della scrivania (dove sono sparite già da un po’ tutte le foto
di famiglia) e alzare svogliatamente la cornetta di un telefono.
“Va bene,” dice John componendo un numero “vorrà
dire che saranno le radiografie a parlare. Sarà difficile convincere il Dottor
Sullivan a non inserirti in un programma di recupero pazienti suicidi, chiaro,
ma almeno potremo vedere cosa la tua mente bacata possa aver pensato bene di
ingoiare.”
“Non l’ho ingoiata.”
“Come, prego?”
“Non l’ho ingoiata, ho detto.”
Qualcuno dall’altro capo del telefono ha risposto, ma a John, che ha già
coperto con una mano il ricevitore, sembra non interessare più.
Lo sguardo vacuo e quella bocca schiusa che Sherlock riceve in risposta,
chiamano da soli il commento.
“Oh, John.” Sherlock inclina la testa, un sorriso nervoso, completamente
sbagliato, distorce i suoi lineamenti. “Le tue capacità deduttive non sono mai
state un granché, ma un paio di anni fa avresti capito subito l’antifona, sei
peggiorato così tanto in mia assenza?”
Ancora un’altra manciata di secondi fuori dal
mondo, poi qualcosa sembra finalmente stuzzicare le rotelle arrugginite del
dottore; la sua espressione cambia, le sue pupille si assottigliano sotto al
fascio di luce che giunge ad illuminare la sua mente lasciando una scia di
immagini; quelle giuste, a giudicare da come spalanca gli occhi sotto una
coltre di orrore.
“Cristo...” sussurra, e Sherlock a quel punto
ha già previsto una serie di reazioni, tra cui un pugno in faccia, nel più
fortunato dei casi, o
quello sguardo carico di tutto il disprezzo dell’universo che solo John Watson
sa dare (e quello sì che avrebbe fatto male), nel peggiore. O appunto, le dita che affondano alla cieca sul
telefono, accanendosi con eccessiva forza sul tasto che interrompe la chiamata
in corso, per poi comporre, sempre alla cieca, un altro numero.
“Mike,” dice ad un perplesso Stamford al di la’ della cornetta, “non aspettarmi
per il pranzo.”
Il clack del telefono che torna al suo posto gli morde lo stomaco, lo
sguardo fisso di John sulla sua figura, qualcosa di più vicino a quella materia
incorporea e dibattuta che a qualcuno piace chiamare ‘anima’.
“Sul lettino lì in fondo, svelto,” indica con un cenno severo del mento mentre
scivola via dalla scrivania e si precipita a frugare tra i vari armadietti
dell’ambulatorio.
“Ah! Sherlock!” si ricorda improvvisamente, “N-non—“ Chiude gli occhi, cerca in
un respiro profondo la calma che gli permetterà di non balbettare. “Non
sederti. Per l’amor del cielo, non sederti assolutamente! Sono stato
chiaro?”
Il detective annuisce in silenzio.
“Cristo, Sherlock. Cristo!“ impreca il
dottore tra sé e sé mentre trasporta a piene braccia delle scatole, oggetti
sigillati in cellophane scricchiolante e altre cianfrusaglie,
scaricandole goffamente sul ripiano superiore di un carrello parcheggiato
accanto al lettino.
“Non so cosa ti sia passato per la testa, ma questa è senza dubbio la più
grande, stratosferica idiozia autolesionista che tu abbia mai potuto
fare. Se me lo avessi accennato prima, avrei potuto darti io una buona ragione
per finire sotto ai ferri, a calci!” gracida in un crescendo di rabbia, e
Sherlock arriccia le labbra, soffia uno ‘Shhhh’, gli rammenta, roteando
le iridi, la presenza di altra gente fuori dalla porta.
“Ho avuto i miei buoni motivi per farlo, John.
Motivi di vitale importanza,” si difende, ma a John non interessa, non vuole
sentire altro, mentre lo aiuta a sfilarsi il cappotto e, con movimenti lenti e
cauti, distendersi supino sul lettino senza assolutamente sedersi, come
gli preme sottolineare con picchi di disperazione, ad ogni singolo movimento
del bacino.
“Da quanto tempo è dentro?”
Il volto di John gravita adesso sul suo, e
Sherlock sente di non desiderare altro che quella piccola eclissi a schermarlo
dalla fastidiosa luce bianca della lampada che ha appena acceso.
“Dieci ore e ventisette minuti.” risponde
letargico; un lettino da esame, non gli è mai sembrato così comodo sino ad ora.
“Cristo–” sibila per l’ennesima volta, e Sherlock non fa resistenza quando
questo gli solleva la manica sinistra scoprendo l’avambraccio, e lo chiude
nella fascia dello sfigmomanometro.
Accetta passivamente anche il freddo disco dello stetoscopio sotto di essa, e
non ha assolutamente da ridire neppure quando John, chiaramente deluso dalla
sua pressione sanguigna, struscia con fare clinico le mani sulla fronte e poi
sul collo, mugugnando altre imprecazioni che Sherlock non si sforza di
decifrare.
“Hai la febbre,” annuncia livido dopo la
conferma del termometro timpanico, e il suo ‘devo aver preso freddo
ultimamente...’ gli fa capire John, può simpaticamente metterselo nello
stesso posto in cui dieci ore prima ha deciso di già mettere qualcosa.
Il detective lo scruta, ne interroga i movimenti con la stesso incanto con cui
John interroga adesso il suo ventre che ha denudato; la mascella serrata, lo
sguardo serio e concentrato. Quasi dubita delle sue buone intenzioni.
“Fa male qui?” domanda premendo delicatamente
intorno alla fossa iliaca. Sherlock scuote la testa, e
le mani del dottore non perdono tempo, si spostano un po’ più a destra, poi
nuovamente a sinistra, poi in alto, poi in basso. Sempre la stessa domanda,
sempre la stessa risposta. Sino a quando non vanno a posarsi su un punto un po’
strano, poco più sotto dell’ombelico, tra le anse dell’intestino tenue, e ci
prova a dissipare ogni cosa, ma è su un territorio estraneo, a quel punto
– un territorio che non gli compete, e non è così sciocco da sperare che
la quasi impercettibile smorfia giunta a spremergli il viso possa passare
inosservata all’occhio del Dottor Watson.
“Sherlock, fa male?” tasta ancora il dottore, preme un po’ più forte.
“John, non ho una peritonite in corso. Stai tranquillo...” Sherlock leva uno
sbuffo pieno di noia.
“Se permetti, questo sarò io a determinarlo.
Tu pensa solo a rispondere alla domanda: fa male o no?”
“No...”
“Ne sei sicuro?”
“È solo fastidioso...”
John rotea gli occhi. Lo ha già preso come un
sì.
“Okay, e in una scala da uno a dieci, quanto sarebbe fastidioso?”
“Andiamo, John, ti ho già detto che...”
“Sherlock-“
“Quattro. Okay? Quattro.” Non ha sparato un numero a caso, è sincero, e
John non mette minimamente in dubbio la sua parola. Allontana le mani dal
ventre, allenta la tensione sulle spalle; non fa ulteriori domande.
In qualche modo, quella conferma lo rilassa – o per lo meno, sembra fargli
recuperare le redini della situazione, e questo, apparentemente, gli basta.
“Va bene,” borbotta tra sé e sé. “D’accordo,” continua ancora, e Sherlock trova
davvero una accortezza adorabile il fatto che la sua prima mossa sia quella di
recuperare il telecomando del riscaldamento e aumentarlo di almeno cinque-sei
gradi.
Si china sul suo volto, la ricerca del suo
sguardo non è casuale. Attende di ritrovare le sue iridi allineate alle
proprie, prima di articolare Il Discorso (Quel discorso. Quello
con la lettera iniziale maiuscola).
Sherlock si convince che non vi è alcun sentimentalismo dietro quella mano che
va a posarsi sulla sua spalla; è certo che sia un gesto che John riserverebbe a
qualsiasi paziente nelle sue condizioni.
“Qualunque cosa tu abbia introdotto nel tuo corpo, dobbiamo rimuoverla.” Di
questo non ha dubbi (dopotutto, non è che il primo pensiero del mattino sia
stato quello di andare a fare una capatina da John senza alcuna ragione).
Tuttavia quella conferma arriva con una drammaticità tutta nuova, tutta
terribilmente reale e allo stesso tempo, paradossalmente rassicurante, alla
quale niente avrebbe potuto prepararlo davvero.
“Ti avverto: non sarà divertente.”
E tutto ciò che Sherlock riesce a fare mentre
il suo stomaco viene sviscerato da una branco di mostri invisibili senza che
lui opponga la minima resistenza, è sogghignare.
“Non sei mai stato divertente,
John,” dice, mentre una serie di soffi scappano alle sue narici.
E John è lì lì per dargli una delle sue
risposte, ce l'ha sulla punta della lingua, ma è saggio, e si contiene.
Ha impegni più importanti, e si complimenta con se stesso, Sherlock – perché sa
che è anche merito suo se adesso John ha imparato così bene a prevedere le sue
reazioni e soprattutto, reagire ad esse nel modo più opportuno (o per lo meno,
così Sherlock gli lascia credere).
È pronto a giurare che John si sia morso la
lingua, prima di scuotere la testa e raggiungere uno dei carrelli. Per la
prima volta in tutta la giornata, Sherlock si sente inspiegabilmente sereno.
“Braccio sinistro.” Il resto delle spiegazioni, John le offre mentre appende un
paio di sacche trasparenti su un’asta accanto al lettino. “Cominciamo subito
con un ciclo di antibiotici ad ampio spettro. Non ho idea di cosa stia
accadendo tra i tuoi intestini ma di certo non è prudente aspettare ancora.”
Ed è velocissimo a destreggiarsi tra tubi e tubicini; davvero. Sherlock deve
riconoscere che è abile quasi quanto lui a beccare la vena ‘buona’ (okay, lo è più
di lui) e la cosa gli fa storcere il naso.
In due minuti regola diffusore e velocità, e sembra pronto per il resto–
Sherlock lo capisce dal modo in cui il suo cuore ha ripreso a battere veloce.
“Diamoci una mossa, prima che la situazione precipiti ulteriormente.” Ed
effettivamente, il detective non può che concordare, ma sente il sudore tornare
copioso sulla fronte, e i brividi (di febbre, chiaro) corrergli su
tutto il corpo come pulci impazzite quando John si disinfetta le mani e indossa
un nuovo paio di guanti di lattice; non fatica certo a immaginare le prossime
mosse, e si sente un po’ stupido ad ammettere di non esserne esattamente
entusiasta, per così dire.
“Togli i pantaloni—piano!” lo blocca subito, con severità. “Solleva il
bacino molto lentamente! Molto, molto lentamente!”
Visibilmente insoddisfatto del modo in cui
esegue i suoi consigli (ordini?), il dottore decide allora di provvedere da sé
alla rimozione del rischioso indumento, ed è abile e discreto mentre gli
slaccia la cintura e fa scivolare i pantaloni e boxer giù dalle gambe pallide.
A giudicare dalla praticità dei suoi movimenti, Sherlock direbbe che non faccia
altro tutto il giorno, ma non riesce tuttavia a evitare che il cuore non gli
muoia in gola nell’istante in cui si ritrova completamente esposto dalla vita
in giù su quel lettino; non riesce a evitare il tremolio che lo coglie sulle
labbra e sulle palpebre quando la consapevolezza di essere nudo di fronte a
John (e per mano di John), di punto in bianco, lo abbaglia.
Ma il dottore non batte ciglio, e non commenta
neppure il rossore apparso sul suo volto. Si muove ostentando una assuefazione
che Sherlock in un altro momento avrebbe bollato come fasulla, ma adesso non
vuole bollarla proprio in alcun modo, non vorrebbe neanche che esistesse, in
verità, e per sua fortuna, John non si perde in banali smancerie;
semplicemente, lascia che un lenzuolo ospedaliero plani su di lui e smorzi,
temporaneamente, ogni imbarazzo.
“Cercherò di fare in fretta, va bene?” dice
con il tono di chi non si aspetta davvero una risposta, mentre con una mano
sulla sua coscia (adesso coperta, grazie a Dio), e una sulla sua spalla, lo
spinge dolcemente sul lato sinistro, accompagnandone i movimenti.
“Piega la gamba destra, lascia la sinistra distesa.” Ha già rimodulato la voce,
“Inarca la schiena un po’ di più, ancora un po’—bene, rimani così.“
E con quella voce, il detective è pronto a scommettere che riuscirebbe a fargli
compiere qualsiasi cosa.
“Non irrigidirti, eh. Rilassati e non
muoverti.” La mano che poggia sul suo fianco poco prima di scoprirlo, la prende
come un tentativo di scusarsi anticipatamente di ogni cosa.
John dirige il braccio della lampada scialitica verso l’area di interesse,
Sherlock serra la mascella, cerca di non pensare a come non vi sia un singolo
millimetro di pelle che in quel momento non si stia increspando sotto allo
sguardo silenzioso e inquisitore del dottore. Si rifugia in quell’angolino di
Mental Palace dove vi sono alcuni dei casi più sciocchi del passato, li
ripercorre a uno a uno come fossero articoli di una rivista sfogliata per caso
in attesa del treno: Tim Foster e il caso dell’amica immaginaria della figlia,
Coraline McKing e il ladro di manichini sartoriali, Mary Morstan.
Il detective sente indicativamente il dottore aspirare tra i denti ed emettere
un suono di disapprovazione: solo dopo si rende conto che gli ha appena
separato le natiche e ha trovato, tra di esse, qualcosa che con molte
probabilità, gli piace poco.
Non fatica neanche ad immaginare cos’è, decide quindi di anticiparlo.
“Non—“ prova a deglutire, ma la bocca è completamente arida, e fa male. “–non
avevo il giusto equipaggiamento. Ho dovuto improvvisare.”
“Improvvisare...?” L’incredulità spiazza il
dottore. “Improvvisare!?”
Teme di aver innescato la miccia di una bomba,
con quell’uscita.
“Non sono solito a introdurre oggetti nel mio corpo, John. Non avevo gli strumenti
giusti; mi sono dovuto arrangiare...”
Segue un lungo, pesantissimo silenzio –
l’anticamera dell’Inferno più realistica che potesse immaginare, e strizza gli
occhi in attesa dell’esplosione, Sherlock. Li strizza, ma la deflagrazione non
arriva. Al suo posto, giunge un sospiro carico di tutta la costernazione
dell’universo, e le dita del dottore, nonostante tutto gentili (e nonostante
tutto, misericordiose) che vanno a sfiorare il sangue incrostato,
valutando la gravità delle lesioni.
“Tu sei completamente pazzo, Sherlock.
Completamente, irrimediabilmente pazzo...”
E Sherlock sorride a palpebre chiuse, perché sa bene quanto quel commento sia
solo un sunto dell’infinità di insulti che John ha dovuto filtrare dalla sua
mente, e quanto, tutto sommato, gli sia andata bene.
Continuando a bofonchiare a bassa voce, John
rilascia le natiche per poi afferrare qualcosa dal carrello accanto a sé.
“Mi domando ancora cosa possa averti spinto a fare una tale atrocità senza la
benché minima accortezza!”
“Ho avuto le mie ragioni,” ripete ancora, e
quasi non fa caso alla schifezza fredda e viscida che John gli passa intorno
all’orifizio infiammato.
“Spero ne sia valsa la pena, almeno.”
“Direi di sì—ah!“ Sherlock sobbalza,
lascia che un gemito sfugga alla sua gola arsa. L’indice che John ha insinuato
dentro di lui, giunge alle sue carni inaspettato e fastidioso oltre ogni
ragionevole aspettativa. Per questo agita le anche, inarca il bacino, segue un
copione che John ha senza dubbio vissuto almeno un centinaio di volte; o così
dice a se stesso quando la mano libera del dottore si piazza sapientemente sul
suo fianco e qualsiasi resistenza viene presto messa a tacere.
“Fermo,” ordina, “—va tutto bene.” Il che è
senza dubbio una esagerazione (‘tutto’ era lontano anni luce dall’andare
bene) ma decide di crederci, e si concentra, cerca di ignorare il fastidio.
Anche perché, John si è messo a spiegare per filo e per segno le sue
intenzioni, e in quella valanga di inutilità, per lo meno, Sherlock riesce a
trovare il tempo necessario per abituarsi alla scomoda presenza dentro di sé.
“Cercherò adesso di individuare il corpo
estraneo, ma se non dovessi riuscirci, allora ti spedirò dritto in
chirurgia.”
Certamente una minaccia per intimidirlo, ma Sherlock ma non sa dire sino a che
punto.
“Ci ho già provato.”
“Cosa vorresti dire?”
Finalmente, una buona scusa per non trattenere oltre la propria frustrazione:
“Per l’amor del Cielo, John, non crederai davvero che io non abbia già tentato
di recuperare da solo la ‘pecorella smarrita’ ed evitare l’inconveniente
di venire da te. Se me lo avessi detto prima ti avrei avvisat—John!”
Non è la pecorella smarrita, ma quando il dito del dottore incontra ed
esamina la prostata, la reazione non è meno eclatante.
Tuttavia, John è di altro avviso: non cela per
nulla il malcontento quando abbandona l’interno del detective ancora tremante.
Si sfila i guanti con aria sconfitta, borbotta qualcosa.
“Okay, piano B.” sussurra senza una reale
intenzione di farsi sentire dal detective, ma questo ha già voltato da un bel
pezzo il collo oltre le sue spalle, e non si perde un solo istante di quella
danza scoordinata di John sotto una pioggia tutta nuova di urgenza. Non è così
stupido da credere davvero che abbia intenzione di spedirlo in sala operatoria
(e spiegare la vicenda del suo ex-coinquilino ai colleghi? Sul serio?), ma
d’altro canto, non è così stupido da pensare di riuscire a prevedere tutte le
sue reazioni così come un tempo (lo sparo, l’arresto di Mary, e il modo in cui
John non abbia pensato due volte a sciogliere qualsiasi vincolo lo legasse a
quella donna, hanno un po’ ridimensionato la fiducia che riponeva in questa sua
capacità), per cui interroga quegli scatti nervosi, quello sguardo serio e
preoccupato, cerca di capire sino a che punto John voglia aiutarlo e al
contempo, forse fargliela anche un po’ pagare; e proprio per quest’ultimo
dubbio, cerca di non soffermarsi troppo sull’oggetto metallico che John ha
piazzato sotto al getto d’acqua calda del lavandino, perché ne intuisce lo
scopo, e – Dio.
Deglutisce ancora un mix di sabbia e limatura di ferro quando lo vede
avvicinarsi nuovamente a sé con un nuovo paio di guanti alle mani.
Gli occhi assottigliati del dottore si posano
sul suo volto, il suo nervosismo dev’essere davvero orribilmente palese.
Per questo John si schiarisce la voce,
raddrizza le spalle. Solleva le sopracciglia in modo spaventosamente innaturale,
prima di parlare.
“È strano rassicurare qualcuno che si è
ridotto da solo in questo stato, ad ogni modo, non farà male. Non se ti
rilassi, per lo meno.”
Ed è difficile crederlo; quell'aggeggio sembra
provenire direttamente dall'inquisizione spagnola, ma John non perde
ulteriormente tempo, e non ne lascia perdere neanche a lui. Torna a
posizionargli correttamente gambe e schiena che nel frattempo sono andate per i
fatti loro, preme con una mano inguantata su quella che un tempo era una
guancia rosea e piena di vita, ma adesso ritrova bianca come la morte.
“Volta la testa, occhi dritti davanti a te.”
Sherlock non ha il coraggio di contraddirlo, figuriamoci. Tira solo un sospiro
rotto, spezzettato da tanti piccoli riverberi di orrore. Attende in silenzio,
ascolta il suo respiro cambiare rumore.
Quindi, di nuovo le mani di John che separano
le natiche, di nuovo roba vischiosa e umida tra esse, e poi il proctoscopio,
che John insinua sapientemente, davvero. Questo è costretto a riconoscerlo, nonostante
qualsiasi buon proposito di accettarlo in modo dignitoso vada a quel paese non
appena la punta metallica di quel mostro corazzato tenta il suo
ingresso.
“Fai un respiro profondo, Sherlock. Rilassati.” Lo guida John, fin troppo
consapevole (forse) che era un singhiozzo, quello appena morto nella sua gola.
“Non opporre resistenza. Lascia che scivoli dentro.” E Sherlock stringe gli
occhi e poi i denti, e poi anche le unghie, che trafiggono impietose l'ecopelle
del lettino, e— Cristo!
Un piccolo gemito lascia le sue labbra giusto poco prima che John annunci che è
fatta. È dentro, e anche la voce del dottore non omette un tocco di
sollievo.
Deve sbattere più volte le palpebre prima di
riuscire a vedere chiaramente il volto di John gravitare sul suo. Perché quando
ha riaperto gli occhi, non ha visto che un ammasso di colori morbidi e
traballanti e la vertigine prendere il sopravvento su ogni cosa, coprendola di
un inconfondibile senso di nausea.
“Tutto bene?” E Sherlock un po’ di voglia di usare qualche oscenità in risposta
ce l’ha, se solo qualcosa dentro di sé (in tutti i sensi – dentro di sé),
non gli ricordasse provvidenzialmente la sua posizione.
“Un po’ sconveniente come domanda, John-” risponde, dissimulando il dolore.
“Te lo avevo detto, non sarebbe stata una
passeggiata.” Le labbra del dottore si stirano in un sorriso impudente, prima
di dare al detective una veloce stretta consolatoria su una spalla e tornare a
concentrare le proprie attenzioni altrove.
“Spero in futuro possa servire a farti desistere dal compiere tali assurdità!”
coglie la scusa per ricordare il rimprovero.
Lo avvisa che avrebbe ‘aperto un pochino’, e che forse questa operazione
sarebbe potuta risultare ‘leggermente fastidiosa’, e tra un grugnito e
l’altro, Sherlock appunta da qualche parte nel suo Mental Palace l’incredibile
capacità del Dottor Watson di minimizzare le disgrazie altrui.
“Sai, potrebbe essere d’aiuto capire cosa stiamo tentando di recuperare, ad
ogni modo.”
E quella domanda lo porta lontano. Sherlock pensa che potrebbe fare una lista
delle cose che potrebbero tentare di recuperare insieme, ma un
movimento di quell’oltremodo scomodo tubo nel didietro lo riporta al vero senso
della domanda.
“Una chiavetta USB.” Di certo, temporeggiare ancora non è più fattibile.
“Come, prego?”
“È una chiavetta USB.”
Dall’improvvisa staticità piombata sulla scena, Sherlock capisce che la
rivelazione è arrivata, nonostante tutto, troppo in fretta.
“Ti sei ficcato una chiavetta USB nel retto.” John abbassa la piccola torcia
che tiene tra le dita.
“È quel che è successo, già.”
Il dottore sorride, volta la testa verso un amico immaginario da cui spera di
poter ottenere un briciolo di supporto morale, poi scuote la testa incredulo.
“Sherlock, per quale motivo hai fatto una cosa simile!? Il tuo laptop aveva
tutte le porte occupate!?” E ce la sta mettendo davvero tutto per non urlare.
“John, potrei conversare per ore circa le tue
discutibili capacità logico-deduttive, ma forse è il caso di rimandarlo ad un
momento in cui potremmo entrambi sederci di fronte ad una tazza di Earl Grey,
anziché affrontarlo mentre un lungo cilindro d’acciaio spalanca il mio...”
“Va bene, va bene, va bene-!” La volgarità, in
fondo, non gli è mai piaciuta.
Sherlock non può vederlo, ma lo diverte pensare che almeno la punta delle
orecchie del dottore sia arrossita, e gli spunta anche un sorriso, prima di
sentire di nuovo l’infernale strumento muoversi e strappargli un lamento.
Non fa in tempo a protestare: la tanto agognata frase di John arriva prima.
“Vedo qualcosa!” esclama, lasciandosi
trascinare da un entusiasmo poco indicato, e di certo, poco atteso.
Il crepitio degli strumenti metallici si
mescola allo sfrigolio del cellophane di quelli monouso, e a Sherlock basta
solo accennare all’istinto di voltarsi a dare un’occhiata alle sue spalle
perché John lo fulmini con l’ennesimo ordine di restare immobile così com’è, e
per l’ennesima volta, è convincente.
Il dottore si muove febbrile e attento, Sherlock può solo immaginare il suo
sguardo, ma a giudicare di movimenti rigorosi dei ferri dentro di sé, non deve
essere troppo distante da quel John che, in mimetica, scruta il nemico
attraverso un mirino di precisione, cercando di individuarne il punto che lo
avrebbe ucciso più in fretta e senza alcun margine di errore, prima di aprire
il fuoco. E di fronte a cotanta concentrazione, Sherlock non può che mordersi
le labbra e tentare del suo meglio pur di non sollevare alcuna lamentela.
Il colpo di scena però, arriva sotto forma di
resa. Dopo cinque infiniti minuti di tentativi andati a vuoto, il dottore
sbuffa, lascia cadere le scapole ai lati, e le pinze tra gli strumenti usati.
Cade anche il lenzuolo a coprire momentaneamente le sue nudità.
“Hai assunto qualcosa prima di venire da me?” Non è una domanda come le altre,
lo sanno entrambi.
Il tono in cui il dottore tenta di mascherare la scomodità dell’argomento non
fa che mettere in risalto questa consapevolezza.
Sherlock volta il collo abbastanza da incontrare lo sguardo del dottore, che
trova lì ad attenderlo.
“No.”
“Sicuro?” Poco convinto, John piega il viso. “Niente di niente?”
“Ho dato per scontato ci avresti pensato tu a
darmi una valida alternativa alle sostanze illegali, ma evidentemente mi
sbagliavo...”
È certo che la voce di come Mycroft ripulisca
settimanalmente il suo appartamento sia già giunta alle sue orecchie, ma si
rallegra di come John non sottovaluti comunque la sua inventiva.
Soprattutto da quando ha mollato Baker Street e non vi ha più fatto ritorno.
“Okay, bene-” balbetta un po’. Sembra insolitamente
soddisfatto.
Sherlock lo scruta con interesse sino a quando un cenno degli occhi gli ordina
di ritornare a fissare il muro bianco dinnanzi a sé.
Sente poi il vetro di una fiala infrangersi, un ago aspirare qualcosa.
“In tal caso, devo sedarti un po’.” Il
ché suona più o meno come una minaccia di morte.
“Non sono così nervoso,” avanza, chiede una proroga al panico.
“Non importa, devo farlo comunque.”
Sherlock allunga un braccio, afferra un lembo del suo camice: “Non voglio
essere sedato,” e spera con tutte le sue forze che gli occhi che ha adesso
spalancato bastino a convincere il dottore a desistere.
Ci riesce, o almeno, questa è la prima impressione: perché John tentenna, stira
le labbra, non trova il modo di staccare il suo sguardo da quello implorante
del detective, e sicuramente non si spiega neanche il perché di tanta
contrarietà, ma non rinuncia comunque a fare il suo dovere.
Schiocca la lingua. “Sherlock, la chiavetta è incastrata,” sentenzia con la
voce calma e pastosa di chi sa cosa sta dicendo. “Ci sono delle manovre che
dovrebbero riuscire a farla venire fuori facilmente, ma mi servi completamente
rilassato, se non vogliamo causare altri danni.”
“Mi rilasserò, te lo assicuro.”
John scuote la testa. “Non è un grado di rilassamento che una persona può
raggiungere a comando.”
“Beh, mettimi alla prova!” Quel respiro grosso e corto fa nascere una smorfia
confusa sul viso del dottore. “Ho detto che non voglio essere sedato, John.”
Il ‘ti prego’ che aggiunge in seguito sembra
toccare i nervi giusti, a giudicare da come guizzano le palpebre di questo.
Ma sembra, appunto. È solo una banale impressione, perché il dottore ha
già in mano il raccordo della flebo, e Sherlock sa che qualunque cosa voglia
fare, la farà comunque, quindi no, niente - può solo inarcare la testa
con rabbia e mugugnare qualcosa ingoiando un rospo molto più grosso della sua
gola.
(Del resto, un possibile disturbo da stress post traumatico lasciato dalla sua
ex-sposa sarebbe l’ultima cosa a cui John andrebbe a pensare.)
John sospira. Sospira come sospirerebbe colui
che porta su di sé il peso dell’intera umanità. Abbandona il raccordo, la
siringa sul carrello, e probabilmente anche quella determinazione che lo ha
animato sino ad ora. Pesca un farmaco dall’ultimo scompartimento del carrello,
riempie con esso una paio di centimetri cubi di una nuova siringa.
Sherlock sta per dire qualcosa, ma la dimentica non appena John lo anticipa. “È
solo un blando miorilassante.” rassicura, mentre buca il gommino e inietta; e malgrado
quell’improvviso bisogno di economia verbale del dottore dia da pensare,
Sherlock sceglie volontariamente di sbagliare.
Mary comunque la sente lo stesso, Sherlock. Quando il cosiddetto blando
miorilassante lo avvolge in un morbido e tiepido abbraccio, l’amabile
vocina torna a riecheggiare ai suoi timpani soave, dolce come la volta
precedente, e dietro le palpebre strette, gli sembra quasi di poter vederlo
davvero, quel visetto fluttuante e sorridente, tratteggiato adesso in oro su
tela scura.
‘Sherlock? Non dire niente.’
‘Non dire niente a John.’
Il dottore ha già recuperato uno stetoscopio, e gli occhi di Sherlock
sfarfallano a sufficienza per vederglielo indossare, prima di sentire il
dischetto scivolare sul torace a interrogare il suo cuore (ogni tanto si
ricorda che ne ha uno anche lui, malgrado tutto—).
‘Lo hai ingannato.’
‘Anche tu lo hai ingannato, Sherlock. Non sarebbe la prima volta.’
“-ingannato—“ Fa riecheggiare dal suo limbo, e John poggia una mano sulla sua
fronte, pettina all’indietro i riccioli scuri, gli spiana la strada verso il
mondo calmo e accogliente che lo chiama a sé e a cui lui, a tutti i costi, non
vuole cedere.
“Mi dispiace averti dovuto mentire, Sherlock...” Il rammarico è sincero. “—ma è
l’unico modo per rimettere le cose a posto. Presto starai bene...” Si morde un
po’ l’interno guancia quando il collo del detective comincia a perdere
tonicità.
Sherlock singhiozza, tenta del suo resistere al sonno, ringhiare contro quella
forza magnetica che lo attrae verso un mondo che dovrebbe essere più calmo, più
bello.
John è già tornato alle sue spalle, e ciò che fa è confuso, appena percepibile.
Non è in grado di dire con certezza neanche se il “Presa-!“ che sente in
un momento diluito su un’asse temporale distorta sia una frase di John, o
è semplicemente Mary che si diverte con la sua mente, ma il fatto che il volto
bonario del primo abbia prepotentemente occupato il suo (limitato) campo visivo
con un sorriso soddisfatto, lo fa propendere decisamente verso la prima
opzione.
“È fatta, eccola qui!” esclama ancora il
dottore, entusiasta come un bambino al suo primo trofeo. Gli stringe
vigorosamente il fianco, la vittoria sembra restituirgli una vita che aveva
temporaneamente messo in stand-by.
Sherlock deglutisce, mette via il rancore,
tenta di ignorare il fischio che risuona nelle sue orecchie.
“A.G.R.A, eh?...” Sherlock strizza gli occhi al suono di quelle lettere.
“Per lo meno hai avuto l’accortezza di infilarla in un...cosa diamine è questo?
Un profilattico...? Dio...”
‘Furbo,’ dice Mary dalla stanza
imbottita del suo Mental Palace (come avrà fatto a cacciar via Jim Moriarty?)
‘Dunque secondo te, adesso John è al sicuro?’
Bella domanda.
Il dispositivo plana in un contenitore
metallico; un suono rauco si leva dalla gola chiusa del detective.
“Okay, quasi finito – fammi controllare com’è la situazione qui sotto...”
Sherlock tenta di muoversi e interrompere qualsiasi cosa John abbia intenzione
di fare, perché la priorità è un’altra adesso, ma lui non lo sa, non capisce, e
diavolo – diavolo!
“Solo un’occhiatina veloce, Sherlock,” ribadisce pacatamente il dottore.
“Dopo ti lascerò riposare in pace, promesso.”
Biascica anche qualcos’altro, ma ai suoi
timpani giunge un impasto di spezzoni vaghi e privi di senso, e non si accorge
neanche di essersi accomodato così bene in quel tepore letargico, quello
mandato da John che non sa - e che malgrado le infinite ragioni per cui
non avrebbe dovuto farlo, Sherlock, lo fa comunque. Cede, si abbandona, si
lascia andare.
Mary scuote la testa delusa, prima di svanire
in una nube di fumo, nera come la notte.
Sherlock si risveglia in un momento
imprecisato del giorno; non ha idea di quanto tempo sia passato, ma a giudicare
dai fasci di luce suffusi che trafiggono il paravento opaco, non devono essere
trascorse più di due ore.
La scialitica che aveva bruciato i suoi occhi è adesso spenta e riposta in un
angolo, il carrello sostituito da un elettrocardiogramma che scandisce un
battito adesso incredibilmente lento e regolare (il battito cardiaco di chi ha
di nuovo i propri boxer addosso, ipotizza).
John accorre dietro al paravento pochi secondi
dopo, richiamato dal segnale acustico della flebo adesso vuota. Ha
un’espressione differente sul suo viso; una di quelle che la generosa dose di
sedativo gli fa comprendere a rilento, con calma.
Lo fissa per alcuni secondi in silenzio. Il suo pomo d'Adamo si solleva in un
modo che racconta tante cose.
Sherlock sospira, porta la sua attenzione altrove.
“Sei sveglio,” sussurra infine, e fa quasi tenerezza il suo tentare di
camuffare ogni segno di contrarietà su quelle guance scavate. Si avvicina al
lettino, prende il suo mento tra le dita, abbaglia i suoi occhi con una torcia,
prima che il suo sguardo possa nuovamente incrociarlo.
“Hai visualizzato il contenuto della chiavetta, non è così?” La bomba la lancia
senza alcun preavviso, ma John è un soldato, e non si fa cogliere di sorpresa.
Spegne la torcia, guarda il nemico dritto negli occhi. Non risponde, ma
Sherlock può comunque sentirlo ringhiare.
Le palpebre del detective fluttuano. Una marea di pensieri scomodi vengono
soffocati nella sua mente ovattata sino a quando il dottore chiama un attimo
per se stesso, e si volta di spalle.
“Non è stata colpa tua, John.” Sarebbe stata
la prima cosa che avrebbe fatto presente, se solo il sedativo non avesse
scombussolato i piani. “Non potevi sapere chi fosse veramente.”
“Dove hai trovato quella chiavetta, Sherlock?”
Si volta di scatto, l’odio gli ha già assottiglia la voce.
“Proviene da casa tua. Sono andato a recuperarla prima che fosse troppo tardi.”
“Troppo tardi?”
“È dall’arresto di Mary che il tuo appartamento è sotto tiro, John. Mycroft lo
aveva previsto, per questo...beh, lo ha messo sotto tiro anche lui.”
Il dottore stringe con due dita la base del
naso, cerca di non soffermarsi troppo su quelle dichiarazioni.
“Hanno colpito questa mattina, proprio come
avevo calcolato. Troverai casa leggermente in disordine oggi, mi
dispiace.”
“Non farmi credere ti dispiaccia davvero aver ragione...” sorride amaramente
John, e Sherlock non è certo che abbia già ricollegato all’intera vicenda anche
la finta chiamata d’emergenza che ha ricevuto questa mattina, e che lo ha
sbattuto fuori dalla porta di casa all’alba.
“Hai ragione, non mi dispiace,” ammette, per la gioia del dottore. “Ma
ho pensato fosse un tuo diritto sapere la verità, John. Almeno questa volta.”
Il dottore schiude la la bocca per intervenire, ma per ragioni facilmente
intuibili, cambia idea poco prima di muovere le labbra; arretra. Lascia così
che il silenzio sfoci in pochi secondi in una serie di sbuffi soffocati, per
poi cedere infine ad una piccola risata isterica tutta per sé. Sherlock
sospira con la consapevolezza di chi ha previsto anche quello. Fissa le
ragnatele sul soffitto. Il sedativo non gli permette di far affiorare sulle sue
labbra più di un sorriso comprensivo, doloroso. Il dottore nel frattempo
inclina il collo, scuote la testa.
“Beh, chiunque mi tenesse sotto tiro, merita la tua riconoscenza. Il modo in
cui è stato in grado di stuzzicare il tuo ingegno è stato...singolare,
devi riconoscerlo.”
“Criminali ceceni in camera da letto e il
Governo Britannico all’ingresso. Stiamo parlando di professionisti, John.”
La porta alla sua destra si spalanca prima che John possa anche solo pensare di
rispondere: Mycroft Holmes non ci tiene neppure a nascondere la propria
urgenza.
“E quando parli del diavolo...”Sherlock abbandona il capo lateralmente,
riconsidera l’idea di assecondare ciò che resta nelle sue vene del narcotico.
Precipitatasi all’interno della sala, la signorina dell’accettazione viene
rassicurata e congedata dal dottor Watson con delle frasi di circostanza, ma è
comunque poco convinta, mentre richiude la porta alle sue spalle.
“Mycroft Holmes, siamo in una clinica e mi trovo con un paziente. Non è sua
consuetudine bussare?”
Mycroft raddrizza la schiena, cerca come può di recuperare un briciolo di
contegno. Il sudore freddo che gli ha già imperlato la fronte non aiuta, ma il
ritrovare suo fratello su quel lettino da esame sembra restituirgli la calma
perduta.
“Sono mortificato Dottor Watson, ma come mi
auguro lei abbia già avuto modo di capire dal suo ‘paziente’, si tratta
di una questione fuori dall’ordinario,” scandisce solenne, asettico.
Sherlock sogghigna ad occhi chiusi: immagina
il modo in cui il muso di suo fratello si sia raggrinzito e la cosa gli provoca
una discreta soddisfazione.
Mycroft non resiste alla provocazione. “Ma prima la prego, dottore. Mi dica
come sta il mio caro fratellino.”
John affonda le dita tra i propri capelli ispidi, storce il naso.
“Non sono solito a parlare delle condizioni dei miei pazienti, ma...se la
caverà con ciclo di antibiotici e qualche antidolorifico.”
“Eccellente, dottore. Da accompagnare ad una o
due settimane di alimentazione liquida, non è così?” Sorride sardonico il
maggiore degli Holmes, sfiorando con lo sguardo la piccola smorfia di fastidio
affiorata sulle labbra del detective.
“Desiderava qualcosa di specifico, Mycroft?”
John sente le tempie tornare a pulsare, Sherlock lo sa e ne condivide il
fastidio.
“Vista la domanda, tralascerei ulteriori
convenevoli e passerei direttamente al dunque, dottore. Mi dica, la refurtiva è
stata...recuperata integra?”
John piomba in un silenzio increscioso; l’intervento di Sherlock arriva quindi
al momento giusto.
“Non temere, restituiscila pure, John. Non sarà la prima volta che Mycroft
maneggi oggetti ritrovati in posti insoliti.”
Mycroft inclina in avanti la testa, stira le
labbra in una specie di sorriso compiaciuto.
“Non che io abbia mai pensato che un minimo di
buon gusto potesse albergare in te, Sherlock. Ma devo ammettere che una simile
volgarità mi sarebbe parsa eccessiva persino per i tuoi livelli.”
“Lieto di continuare a stupirti, Mycroft.”
“Con il tuo gesto hai messo in pericolo non solo la tua vita e quella di John,
ma anche l’intera sicurezza nazionale!”
“Non è certo colpa mia se il Governo
Britannico ha simili falle nella sicurezza, fratello.”
Mycroft si morde l’interno della guancia; l’espressione affiorata sul suo volto
è quella di chi decide di abortire qualunque risposta per un bene superiore.
Volta il suo viso verso il medico, decide di non indugiare oltre.
“Dottor Watson,” Il palmo della mano schiuso e
le dita distese inoltrano da sé la richiesta.
Titubante, John estrae una piccola busta sigillata dalla tasca del suo camice;
la chiavetta è lì dentro.
Manda giù un grumo di fiele, lancia occhiate preoccupate mentre la posa tra le
mani del governo britannico.
“Sono ancora sotto tiro?” Per un attimo, Sherlock pensa di intervenire; poi,
suo fratello lo solleva dal disturbo.
“La sua incolumità è una delle ragioni per cui è così importante per noi
recuperare questo dispositivo, John.” fuseggia Mycroft come un gatto. “Adesso
che è qui con me, è tutto a posto. Dorma pure sogni tranquilli.”
Sherlock si appunta mentalmente di raccontare a John di come i quattro
arrestati siano stati ‘casualmente ritrovati’ in possesso di documenti
governativi top secret, e di come, in casi simili, il MI6 non brilli
esattamente in clemenza.
“Sono terribilmente mortificato per la doppia
incursione, Dottor Watson. Abbiamo già provveduto ad inviare presso la sua
abitazione una squadra che stimerà i danni pervenuti e metterà in ordine il suo
appartamento, ma per questa sera, la pregherei di accettare la modesta
suite che abbiamo messo a disposizione per lei presso il Grand Hotel Corinthia,
direttamente a Waterloo.”
John solleva un sopracciglio, si schiarisce la
voce. “La ringrazio Mycroft, ma sarebbe prudente che Sherlock rimanesse
in osservazione. Pensavo di riaccompagnarlo a casa non appena l’effetto del
sedativo sarà svanito, e restare con lui, almeno per questa notte.”
Sherlock sente qualcosa agitarsi nel proprio petto, una sensazione di calore
mordergli lo stomaco. Si costringe a tenere ogni cosa per sé e non mostrare
nemmeno un pizzico di quel subbuglio interiore.
“Oh,” Mycroft sgrana gli occhi, assume un’espressione fintamente confusa. “Non
credevo che le condizioni di mio fratello fossero così gravi da farle decidere
di rinunciare al suo meritato riposo.”
John nasconde le mani nelle tasche del camice. “È una pura misura cautelativa,
Mycroft. Sherlock ha ancora la febbre, potrebbe sviluppare una peritonite,
preferisco tenerlo sotto controllo, per qualsiasi evenienza.”
“La sua dedizione è ammirevole come sempre,
John. Farà altri esami delicati a mio fratello?”
John rimescola qualcosa in bocca, come un paio di frasi oltremodo scortesi che
tenta di rimodulare sino a quando non prende vita quella più adatta. “Farò
quello che riterrò necessario, Mycroft.”
“Se è così che desidera, non insisterò oltre.
Sono sicuro non tralascerà nulla, dottore.”
L’immagine di Mycroft che abbandona la stanza
dopo essersi congedato è una scena che entrambi aspettavano con ansia. Ne
assaporano con sollievo ogni singolo istante.
John distoglie l’attenzione dalla porta, ruota il bacino, torna a concentrarsi
sul detective.
Non sembra sorpreso di ritrovarlo lì a fissarlo; Sherlock sa che gli deve delle
spiegazioni e sa anche che non gli piacerà farlo.
“Una notte al Corinthia non sarebbe stata male...” Lo anticipa, mentre John
toglie le mani dal camice, trascina uno sgabello accanto al lettino e vi si
siede sopra.
“Preferisco evitare di essere in debito nei confronti di Mycroft.”
“Mmhh.” Sherlock annuisce, lascia che un piccolo sorriso furbo affiori sulla
sua bocca. “Preferisci evitare che Mycroft saldi i propri così facilmente,
vorrai dire.”
“Anche.” John solleva un sopracciglio, inclina
il viso su un lato. Sorride.
“Notevole.”
“Lo prendo come un complimento. Come ti senti?” Il palmo della mano di John
plana sulla sua fronte; un tocco clinico all’inizio, poi, muta in
qualcos'altro.
“Come se qualcuno mi avesse drogato a
tradimento.” Perché non lo ha mica dimenticato, lui. E a giudicare da
come si irrigidiscono i tratti del suo viso, Sherlock capisce che il concetto è
giunto al destinatario esattamente in tutta la sua drammaticità.
“Mi dispiace, su serio. Ma come hai potuto
vedere, è stato l’unico modo....”
Sherlock solleva gli occhi, scorre tra i ricordi di un passato ormai lontano;
uno di questi in particolare, sembra fare la differenza. “Beh, adesso
siamo pari per tutte le volte che sono stato io a drogarti.”
“Baskerville,” rammenta il dottore annuendo
lentamente, un filo di irritazione ne attraversa il volto.
“Già, quella è stata una delle tante.” Sorride, il capo stanco torna a
ciondolare, distraendo il dottore dal profondo senso di indignazione che
altrimenti lo avrebbe colto. “Ad ogni modo, è singolare il fatto che tu ti sia
scusato senza sapere il perché del mio rifiuto.”
Il gelo intervallato dall’elettrocardiogramma sin
troppo esplicativo circa il battito del proprio cuore non ha bisogno di
ulteriori commenti. John fa spallucce, stira le labbra.
Non è difficile immaginare che tipo di immagini la sua mente stia richiamando.
Si alza di scatto quando diventano troppe, volge la sua attenzione altrove.
“Avrai avuto le tue ragioni.” Taglia corto, si
allontana da Sherlock così come dall’argomento.
Sostituisce la flebo con un nuovo flacone, ne controlla il funzionamento.
“Adesso riposati. Tra un’ora avrai smaltito a sufficienza il sedativo e potremo
tornare a casa.”
Sherlock annuisce, ha un nuovo bagliore negli occhi; Quel ‘casa’ pronunciato
da John è più che un semplice fonema disperso nell’aria.
“Non seguirai davvero il suggerimento di Mycroft?”
“Quale suggerimento?”
Sherlock arriccia le labbra. “Beh, altri esami eseguiti attraverso mostri
corazzati, ad esempio.”
John fa del suo meglio per soffocare una risata, le gote assumono una certa
tonalità di rossore.
“Beh, questo dipenderà da te e dalla tua voglia di usare orifizi del tuo corpo
come fossero una portavalori.”
“Una portavalori non sarebbe stata abbastanza sicura, John.”
John scuote la testa, il petto singhiozza
sotto le risa mal contenute.
Anche quelle hanno cambiato suono, adesso.
Fine.
Note dell’autrice:
- Prima o poi smetterò di
pubblicare oscenità (anche dette ‘culofic’) sui miei personaggi preferiti, ma
quel giorno, evidentemente, non è oggi.
Mi scuso davvero tantissimo per tutto ciò. Voi probabilmente avete cliccato su
questa fan fiction nella speranza di poter leggere qualcosa di interessante (il
titolo è intrigante, lo ammetto) – e invece vi siete ritrovati con queste
oscenità.
- Dedicata a Narcy, perché senza di lei mi
ritroverei a umiliare i miei personaggi preferiti da sola, e non sarebbe
divertente. 3 In realtà, è uno dei regali di Natale che avevo in programma
per lei. Il fatto che sia arrivata il 3 Marzo non fa alcuna differenza, no? (E
il fatto che me l’abbia anche betata, neanche.)
- Grazie infinite per aver letto. Sul
serio. <3.