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Autore: Andrea_Vitali    07/03/2018    0 recensioni
C'è stato un tempo in cui ero schiavo dell'avidità, sapete? Certamente l'indole di ogni uomo è innata e, probabilmente, la mia anima era già corrotta da questo così comune peccato. Tuttavia, anch'essa possedeva delle velature di magnanimità e ciò mi permise di fregiarmi, durante la mia esistenza, del titolo di uomo retto e rispettabile. E nonostante abbiate di fronte a voi l'immagine di un vecchio decadente e più prossimo alla morte che alla vita, vi posso assicurare di fronte all'Eterno che non ho raggiunto nemmeno il trentesimo anno d'età.
Genere: Dark, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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C'è stato un tempo in cui ero schiavo dell'avidità, sapete? Certamente l'indole di ogni uomo è innata e, probabilmente, la mia anima era già corrotta da questo così comune peccato. Tuttavia, anch'essa possedeva delle velature di magnanimità e ciò mi permise di fregiarmi, durante la mia esistenza, del titolo di uomo retto e rispettabile. E nonostante abbiate di fronte a voi l'immagine di un vecchio decadente e più prossimo alla morte che alla vita, vi posso assicurare di fronte all'Eterno che non ho raggiunto nemmeno il trentesimo anno d'età. Sono tuttavia spiacente, ma temo che per capire al meglio la mia storia, dovrete vostro malgrado ascoltare tutto ciò che ho da dire, dal principio degli eventi.

Nacqui su suolo gallese, a Didley, da una ricca famiglia borghese, originaria di Londra; mio padre – un grand'uomo con l'innato senso degli affari – fece una fortuna commerciando foglie di tè dalle colonie d'India. Era spesso lontano dalle calde mura domestiche per controllare personalmente tutti gli arzigogoli che, spesso, insorgono nelle trattative commerciali, assicurando così a me e mia madre una vita prospera di agi e comodità.

Fu proprio mia madre, un'accanita lettrice di romanzi d'avventura, a inculcarmi il desiderio del viaggio e della scoperta. Ogni pomeriggio, nell'ombra del gazebo che svettava nel giardino della nostra dimora, leggeva e sospirava, augurandosi che suo figlio potesse un giorno diventare un uomo tutto d'un pezzo, avventuriero e amatore, sebbene il preciso significato di quest'ultimo termine lo capii solo qualche anno più tardi.

I suoi racconti traboccavano di creature esotiche ed eroiche gesta: io, ricordo, rimanevo ad ascoltarla estasiato per ore, fantasticando anch'io sul mio futuro, sulle mie avventure.

Non passò molto tempo, però, che mia madre si ammalò di tisi e, nel giro di pochi mesi, la malattia la consumò, lasciando me e mio padre senza una madre e una moglie da amare.

Mio padre fu tremendamente colpito da quel lutto e decise, complice uno sviluppo repentino d'attaccamento all'alcool, di abbandonare la compagnia commerciale. Il ricordo dell'uomo gentile che fu mio padre si trasformò ben presto: vittima giornaliera dei fumi del brandy, era solito frequentare le peggiori bettole del paese, cercando – e spesso trovando – rogne con gli altri disagiati avventori. Non ricordo con esattezza le volte che lo soccorsi, lavandolo e rammendandogli le ferite.

Io ero un giovane uomo di diciotto anni all'epoca, ma dovetti crescere in fretta e assumermi, mio malgrado, l'onere di nuovo pater familias, rilegando nei vapori dei miei ricordi fanciulleschi il desiderio di diventare un avventuriero.

Forse fu in quel periodo che sviluppai un insano attaccamento al denaro; annotavo con cura ogni entrata e ogni uscita su un grande libro contabile, lesinando ed elargendo lo stretto indispensabile – o poco meno -.

Mi concessi pochi svaghi e, investendo buona parte del denaro nel commercio di spezie, riuscii a racimolare una discreta fortuna.

Non mi sposai: il matrimonio – cosa che credo tutt'ora - è solo uno sperpero inutile di tempo e, conseguentemente, di denaro; inoltre, non voletti aggiungere altri legami alla mia – ahimè – pesante vita. O forse non ebbi il coraggio di correre il rischio di ridurmi come mio padre.

La sua anima non si riprese mai dalla perdita della sua amata e, in poco tempo, l'abuso di alcool lo costrinse a un ricovero coatto presso la clinica psichiatrica di Hereford, poiché il brandy gli bruciò il centro della ragione. Delirium tremens, così l'avevano definito i medici della clinica. Furono sinceri con me sin da subito, le condizioni del mio genitore erano ormai disperate ed era, purtroppo, impossibile tentare una cura al problema; stimarono una sua dipartita nel giro di qualche settimana. Pagai la retta per un mese e, da quel giorno, non seppi più nulla di lui.

Non avendo più alcun genere di legame familiare a trattenermi in patria, decisi di trasferirmi oltremare, nelle Americhe, per gestire e controllare l'avvio di un nuovo centro di smistamento dei beni prodotti dalla mia società.

Investii buona parte dei miei averi in un fabbricato presso il porto di Boston, apportando le giuste modifiche per permettere una più celere selezione dei migliori prodotti da distribuire sul suolo americano. Così come il denaro richiama altro denaro, l'America mi richiamò promettendomi altre fortune.

Abituato alla flebile e poco frenetica vita di campagna, mi informai presso un gestore immobiliare su quali ville – per carità, molto discrete, nulla di troppo appariscente o costoso – fossero disponibili nelle aree rurali nei dintorni di Boston.

Il giovane gestore mi propose diverse soluzioni, ma capii subito il suo tentativo di estorcermi più denaro del dovuto.

«Non insista, non insista» continuai a ripetere, come una preghiera, al gestore. Ma quello non allentava la presa e mi mostrò un carnevale di ville in stile coloniale, ampie e troppo altisonanti rispetto alla sobrietà con cui avevo deciso di condurre la mia vita americana.

Infine, dopo una settimana dal mio arrivo e dopo una ventina di abitazioni da me ritenute poco idonee (e troppo costose), decise, non nascondendo una certa irritazione, di condurmi presso Norwood, un piccolo villaggio a sud di Boston.

«Signore, mi perdoni, questa è l'ultima disponibile» mi disse, svoltando col carretto in un pergolato cinto di pietre.

L'abitazione che si era proposto di vendermi era di modeste dimensioni; il legno era visibilmente segnato dall'agire del tempo, ma manteneva comunque un'apparente solidità. I vetri delle finestre erano sorprendentemente integri, nonostante l'evidente strato di polvere che, ormai, aveva creato una secca e torbida crosta cinerea. Un ampio giardino – non curato da almeno quarant'anni - circondava la casa, lambendo le mura grigiastre con piante infestanti di vario genere e colore.

«Signore, è evidente il bisogno di qualche lavoro di ristrutturazione, ma io e l'agenzia che rappresento siamo convinti che possiamo trattare un prezzo ragionevole»

«La sua agenzia quanto propone per questa fatiscente dimora?»

«Tremilacento, signore»

«Orsù, così mi offendete, sappiamo entrambi che questo... rudere vale non più di duemila dollari!»

Ovviamente il prezzo proposto era molto conveniente, date le dimensioni dell'appezzamento, ma decisi comunque di provare a trattare l'affare; se non altro, coi soldi risparmiati, avrei potuto coprire le spese di restauro e, forse, mi sarebbe avanzato pure qualcosa. Inoltre l'offerta era talmente irrisoria da rendermi evidente che l'agenzia fosse volenterosa di liberarsi a tutti i costi di questa villa vetusta.

«Tremila, signore. Non me ne abbia, per carità, ma la prima impressione che avete avuto su questa magnifica villa è evidentemente errata. Invero, necessita di qualche manutenzione, ma rimane comunque una casa solida e dalla metratura non comune»

«Mio caro» - tentai un approccio più mansueto; avevo conosciuto molti altri agenti come quest'uomo durante la mia vita da imprenditore e sapevo come trattarli - «siamo entrambi gentiluomini d'affari e, che possa nostro Signore punirmi in questo momento se dico il falso, riesco a percepire la vostra insoddisfazione nel lavoro che fate. Non affrettatevi in conclusioni errate, vi prego, io vedo in voi un uomo desideroso di imporre il proprio volere nel mondo, e non vivere una vita sotto il giogo di qualche agenzia che non si è presa pure la briga di sistemare questa “catasta di legno marcescente”, di cui spera di ottenere, è evidente, anche metà dei dollari da voi proposti. Ed è per il modo in cui mi guarda e poiché pure io possiedo la vostra stessa indole, credetemi, che vorrei proporvi un accordo: io pagherò duemila dollari alla vostra agenzia e darò a voi duecento, anzi, trecento dollari per iniziare a formare la vostra attività. Penso che sia un'offerta ragionevole, non trovate? Suvvia, non siate così avido con voi stesso, approfittate della generosità che vi si offre!»

La mia parlantina, rafforzata dal raffinato accento inglese che scandiva le mie avance commerciali, aveva fatto breccia nel cuore – e soprattutto nelle tasche – del giovane aspirante imprenditore. È proprio vero – pensai – gli americani non hanno alcun senso per gli affari.

Pagai la somma pattuita e accordammo un incontro per il giorno successivo presso la sede notarile MacFills di Boston, per completare il passaggio di proprietà.

Alla lettura dell'atto di vendita, scoprii il perché dello stato di abbandono della mia nuova dimora americana: il vecchio proprietario era un portoricano di nome Esteban Garrote, il quale sparì improvvisamente dalla casa senza più farvi ritorno. Anziano, senza alcun parente o conoscente - quell'uomo era solo al mondo, proprio come il sottoscritto - e senza nessuno che andò a reclamare il possesso della sua dimora. Erano da poco passati vent'anni dalla sua ultima apparizione e, secondo le leggi che governano lo stato del Massachusetts, era cessato il suo diritto di proprietà.

Fu necessario un mese intero per sistemare l'intonaco della villa, complice l'aria umida e viziata che permeava su tutta Norwood; quel mese lo trascorsi presso il fabbricato dove svolgevo la mia attività, dedicandomi completamente alla non esaltante, ma assolutamente necessaria, gestione dei permessi di vendita. Mi permisi, tuttavia, qualche breve e sporadico momento di libertà, andando a controllare personalmente l'andamento dei lavori.

Ordinai agli operai di non gettare nulla dell'antica mobilia che sorgeva nell'abitazione, limitando così la loro attività solo dove strettamente necessaria. A conti fatti, risparmiai più di mille dollari e questo mi riempiva il cuore di orgoglio e gioia sfrenata.

L'interno della casa era estremamente essenziale, il che si rivelò, con piacere, adatto alla mia natura: la mobilia era in stile settecentesco, molto sobria e, soprattutto, poco invadente.

Durante i lavori di restauro, gli operai mi avvisarono che, in soffitta, erano ancora presenti alcuni oggetti appartenuti a Garrote. Colsi l'occasione – ricordo - per ottenere qualche informazione in più sul vecchio proprietario.

«Sissignore, no, no Signore, non conoscevo personalmente il vecchio Garrote. Qui siamo tutti onesti lavoratori e gente per bene e, se mi permette di togliermi un sassolino dalla scarpa, non amiamo che dei forestieri, tuttalpiù criminali, vengano a disturbare la quiete di Norwood»

«Criminali? Suvvia, suvvia, state sicuramente esagerando»

«Girava voce che il vecchio nascondesse un passato di scorribande e ruberie, da pirata»

«Pirata?»

«Sì, pirata, predone del mare. Si vociferava che fosse scampato più volte alla forca, giù, nelle isole e che gli spagnoli lo cercassero perché aveva rubato Iddiosacosa»

La verità, è risaputo, muta di bocca in bocca, creando nell'immaginario dei cittadini di Norwood una propria e originale versione dei fatti.

«Era un assassino! Ve lo dico io, è un bene che se ne sia andato da qui! Altroché!»

«Mio cugino giù al fiume giurò vederlo confabulare in modo sospetto con due grossi negri; che il Signore mi sia testimone, sicuramente stavano organizzando una rapina, o che so io»

L'infamia che ricopriva il nome del vecchio Garrote faceva facilmente evincere che non fosse per niente amato dai suoi concittadini.

Ora, vi prego di prestare molta attenzione a ciò che vi racconterò. Come avrete potuto capire, il dono della sintesi non è nelle mie corde, quindi lasciate che vi dica che apprezzo enormemente lo sforzo che state facendo per ascoltare le mie – forse - ultime parole, anche se non avrei mai pensato che la morte mi aspettasse così presto, tuttavia vi chiedo ancora di trattenervi dall'andare, poiché sto per dirvi ciò che successe, ciò che mi rinchiuse in questo corpo corroso dal tempo.

Ebbene, come vi dissi poc'anzi, gli operai mi avvisarono che erano presenti degli oggetti appartenuti a Garrote nella soffitta.

Un giorno – sì, era un mercoledì – decisi di rovistare tra le cianfrusaglie del vecchio; vi erano, con mio sommo dispiacere, oggetti di poco o nessun valore: qualche pezzo di argenteria rovinata, vecchie mappe delle coste caraibiche, alcune tele sbiadite dall'umidità.

Un piccolo libricino di cuoio nero, chiuso da un filo di spago, attirò la mia attenzione.

Il contenuto riportava numerose frasi in lingua spagnola, interrotti da disegni stilizzati di mappe di isole e, segnata verso la fine di quello che pareva un diario, la mappa di un'ampia costa: era riconoscibile Boston, con il suo intricato reticolato di vie che si estende dal porto all'entroterra, la strada principale che conduce a Norwood e, presumibilmente, la casa in cui mi trovavo.

Fortunatamente mi capitò in passato di proseguire una trattativa con un affarista spagnolo e, in quell'occasione, imparai qualche parola che mi si rivelò poi utile per chiudere la faccenda in mio favore.

Quel ritrovamento risvegliò in me l'assopito avventuriero che mia madre cercò di allevare, invano.

Ciò che lessi era sbalorditivo quando il più fantastico romanzo d'avventura; anzi, al mondo non esiste fantasia di scrittore che sia riuscita ad avvicinarsi a ciò che, incredulo, veniva raccontato davanti ai miei occhi.

Garrote fu veramente un pirata, in gioventù, presso le Isole Vergini e Antigua: era stato annotato scrupolosamente ogni spostamento, dalle Isole del sud, fino alla costa orientale americana, dalla Florida, a New York, fino a Boston. Ebbe effettivamente dei guai con la legge spagnola, giustificandosi – incredibile – con la scusa delle condizioni inumane che gli spagnoli imponevano a coloro che lui chiamava el primero pueblo.

Cercai tra le pagine della sua vita il motivo per cui si trasferì sul suolo americano e, dopo un paio di ore di faticose traduzioni, riuscii a trovarlo: Garrote era alla ricerca dell'Occhio di Ahpuch, un gioiello di pietra nera di origine indigena, creato ben prima che i miei antenati venissero a colonizzare queste terre. Il gioiello sarebbe stato trafugato – secondo quanto riportato – da un vascello corsaro che trafugò il contenuto di una tomba sull'isola di Nassau, al largo delle Bahamas, sebbene non fosse stato possibile tracciarne l'antica migrazione. Garrote sembrava ossessionato da questa pietra, perché annotò in modo maniacale qualsiasi informazione relativa ad essa, arrivando, quasi febbrilmente, a trascrivere il suo nome anche laddove non fosse necessario.

L'Occhio di Ahpuch – stando agli studi del vecchio – era un gioiello delle dimensioni di un uovo di quaglia, o un piccolo uovo di piccione, dalla superficie riflettente e senza alcuna impurità. A differenza di altri preziosi, non era sensibile agli urti e agli sbalzi di temperatura. Il gioiello veniva ritratto sempre raccolto in un cestino di panni o di fasci di foglie, quindi Garrote ipotizzò, notando la somiglianza con una tecnica utilizzata dalla sua gente, che fosse in grado di emanare calore anche a livelli inusuali, qualora si fossero verificati dei singolari eventi di natura fisica o chimica. Secondo una leggenda del popolo Maya – annota – Ahpuch donò questo oggetto al suo popolo prediletto, conferendo alla pietra il proprio potere, essendo arbitro di ciò che regola “la ruota della vita” e il suo scorrere. Garrote – vi posso giurare sulla mia anima – credeva che quella pietra avesse le capacità di vincere la morte! Il valore stimato avrebbe ammontato a – e tutt'ora stento a crederci – cinquecentomila dollari, ma se quell'intuizione fosse stata vera, avrei potuto avere tra le mani il più prezioso dei tesori. Ovviamente fui cosciente che ci sarebbe stata un'alta possibilità che ciò non fosse, tuttavia il sol pensiero di quei cinquecentomila dollari mi stimolò a saperne di più sulla sua ubicazione.

Confrontai gli schizzi presenti sul diario con una mappa che trovai in soggiorno, affianco al piccolo caminetto, e notai che le tracce da lui segnate conducevano presso una foresta a un paio di miglia a ovest.

Quella stessa notte mi procurai una lanterna ad olio, una vecchia pistola e un piccolo carretto e mi avventurai nella sottile foschia che circondava la distesa di sempreverde poco distante da casa.

Fu sorprendente la facilità con cui trovai la mia destinazione: Garrote fu molto preciso, molto minuzioso, nell'indicare l'esatta posizione di quello che, una volta giunto, capii che era l'entrata di una grotta scavata dall'uomo all'interno di una piccola cascata.

Caricai la lampada ad olio e la pistola, addentrandomi nell'ombra dei cunicoli di quel meraviglioso labirinto naturale. Pensai alla mia mia madre e alle avventure che mi leggeva dolcemente nei pomeriggi assolati di Didley e mi resi conto che avevo l'irripetibile opportunità di vivere, in prima persona, la più grande delle avventure; e tutto era reale, non frutto di fantasia di qualche abile scrittore!

Alternavo lo sguardo tra il diario e l'abisso che avevo di fronte: le pareti umide e rocciose erano cosparse di macchie bianche di salnitro, le quali, man mano che procedevo verso la direzione segnata, si mutarono in spesse lastre lattiginose. Garrote annotò con maniacale cura ogni svincolo, ogni pertugio, rendendo così estremamente semplice il mio vagare in quel buio reticolato.

Ora vi racconterò ciò che nessun essere umano, neppure il peggiore dei criminali, dovrebbe vedere nella propria vita. Non sono vaneggiamenti, ciò che vidi corrisponde ad assoluta verità, Dio mi è testimone.

Poco prima di giungere a quella che sembrava la fine del tunnel, due massicci corpi distesi mi bloccarono il passaggio. Quasi trasalii alla loro vista: erano marcescenti, rinsecchiti; ma ciò che mi colpì maggiormente – oddio – fu la loro espressione. Le bocche erano spalancate all'inverosimile, in modo talmente innaturale da non farli sembrare nemmeno umani. Da quel che rimaneva dei tratti somatici, si poteva capire che fossero due uomini di origine negra ed entrambi avevano un ampio foro al di sotto dello zigomo. Quegli uomini erano stati brutalmente uccisi - era evidente - da un preciso colpo di pistola partito alle loro spalle.

Alzai lo sguardo da quel macabro ritrovamento e, seppur con un certa riluttanza, decisi di proseguire alla ricerca della pietra.

Camminai accucciato per una ventina di metri, fino a quando arrivai in un antro abbastanza ampio da permettermi di tornare in posizione eretta. La luce della lanterna iniziò ad indebolirsi, forse a causa dell'aria rarefatta che si respirava in quelle profondità. Notai, a qualche metro da me, un luccichio intermittente sul pavimento rorido d'umidità: erano sparsi sul terreno un discreto numero di dobloni d'oro massiccio, d'antica fattura ma ancora meravigliosamente brillanti. I miei occhi rispondevano a quello spettacolo con altrettanta, vergognosa, luccicanza.

Fu seguendo con lo sguardo la scia delle monete che vidi ciò che segnò in modo indelebile la mia esistenza: il corpo essiccato di un uomo era seduto di fronte a me, impugnando una pistola e con un grosso pugnale conficcato nel costato. La pelle, complice l'aria malsana del luogo, era diventato un sottile foglio grigio-marrone, penzolante e marcescente, come un sudario che nascondeva, nel velo delle sue trasparenze, le ossa scure del cadavere.

Trasalii e dovetti farmi forza per non perdere i sensi dinnanzi a quella visione.

Osservando con più attenzione il cadavere, mi accorsi che stringeva, nella mano destra, un piccolo oggetto che, al principio, non notai. Era l'Occhio di Ahpuch!

Sentii la salivazione aumentare in sincronia con la mia brama di ricchezza; appoggia lentamente la lanterna al suolo e presi con forza la pietra incastrata tra le dita secche del corpo. Quando la presi in mano, non potei far altro che ammirarne la bellezza e l'incredibile fattura: non vidi mai, prima di allora, un gioiello caratterizzato da cotanta perfezione. Anche se fosse stata anche solo una semplice pietra preziosa – pensai, mentre l'oggetto mi restituiva sulla propria superficie l'immagine distorta del mio volto - l'abile creatore doveva essere stato ispirato per forza da qualche entità divina.

Il dolce momento d'ammirazione fu disturbato da un lento e leggero strascichio, il quale mi riportò a una realtà che di realtà non ne aveva l'aspetto: il corpo a terra si stava muovendo, lentamente, inesorabilmente, verso di me! La mandibola nel teschio schioccava velocemente, come se stesse per urlare qualche maledizione nei miei confronti, ladro del suo tesoro! Lo sforzo sovrumano dello strisciare del cadavere mi lasciò per un momento inebetito. Istintivamente, estrassi la pistola dal fodero e la scaricai in volto a quella creatura. Sei distinti boati riecheggiarono nell'altro, dove una piccola nube di polvere da sparo iniziò a formarsi.

Ricordo il dolore che provai all'udito e ai polmoni, ma l'adrenalina scaturita da quell'infernale visione mi permise di rimanere vigile e cosciente. Il cranio della creatura era a pezzi e il corpo, con mia somma gioia, giaceva immobile ai miei piedi. Poi, improvvisamente quanto poco prima, iniziò a deteriorarsi velocemente, diventando, in pochi secondi, un composto melmoso e putrescente.

Ebbi bisogno di qualche secondo per realizzare ciò che era successo; rinfoderai, tremante, la pistola, presi velocemente la lampada ad olio e scappai rapidamente verso casa. Complice la tensione del momento, persi l'orientamento nelle gallerie, che nel frattempo erano diventate spaventosamente buie e spaventose.

Persi la cognizione del tempo e dello spazio; arrivai a casa che era ancora notte e l'imponente pendolo che svettava in soggiorno mi fece capire che erano passate quasi cinque ore dalla mia precedente uscita.

Stringevo in mano, ancora con vigore, l'Occhio di Ahpuch ma ci volle almeno un'altra ora per ricordarmi della sua presenza.

Nel tempo che precedette il ricordo di quella pietra, sentii una calda debolezza invadermi il corpo come mai nella mia vita e le giunture di braccia e gambe iniziarono, con mio sommo raccapriccio, a restituirmi un suono calcareo ad ogni movimento.

Camminai più velocemente di quanto fosse possibile in quella situazione, strisciando talvolta il passo, verso il bagno al piano superiore per guardarmi allo specchio; il tutto sfuggiva alla mia comprensione: il mio volto invecchiava a vista d'occhio e un piccola ciocca sul lato destro diventò dapprima giallastra, poi bianca come gesso.

Sentii un forte calore alla mano sinistra e mi accorsi che proveniva dalla pietra. Mi ci volle qualche secondo per riordinare le idee e, con repulsione, la lanciai nella vasca da bagno.

L'Occhio di Ahpuch stava – solo il demonio sa come – risucchiando la mia vita, la mia giovinezza!

La pazzia s'impadronì della mia mente e, quando riuscii a riprendermi, mi accorsi che la villa stava bruciando: in un istante di folle alienazione dovevo aver deciso di distruggere la casa e, con essa, anche la pietra.

Partii il giorno seguente senza lasciare alcun avviso, girando tutte le Americhe alla ricerca di un rimedio per la maledizione che mi aveva colpito. Attraversai il paese da costa a costa, chiesi aiuto ad istituti, dottori, scienziati; visitai saggi e santoni oltre il confine, nel Messico, ma nessuno riuscì a trovare una soluzione al mio calvario.

Ogni giorno che passava, io ne invecchiavo di venti almeno.

Vagai invano per cinque anni, disperandomi e implorando qualsiasi studioso, saggio o profeta di questo paese; spesi ogni soldo a mia disposizione, non badai ad alcuna spesa: con più il denaro sfuggiva dalle mie dita, con più la vita mi si allontanava dalla mia anima, finché la più grande delle mie paure divenne realtà: mi scoprii vecchio e malato.

Ora sapete la storia della maledizione che subii come un castigo divino per la mia troppa fame di ricchezze. Ciò che avete sentito da questa bocca raggrinzita vi sia di monito. Per carità, non calcate le mie orme, la mia rovina vi faccia da maestra. E questo calore...è... questo... che si prova?… l'ora... è ormai giunta!

Lo sento... lo sento! Ahpuch sta venendo dall'oltretomba a reclamare la mia anima maledetta! Non sono pronto per questo! Aiutatemi! Aiutami! Vi prego! Uccidetemi! Uccidetemi! Mamma! Mamma!!

   
 
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