Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: PeNnImaN_Mercury92    25/03/2018    1 recensioni
-Mi reputi davvero così importante? - chiese ad un certo punto lui.
-Sei perso senza me e Marco, questa è la verità. Ti avrebbero già spedito da dove cavolo sei sbucato senza pietà. Hai bisogno di noi.
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Piccolo delirio notturno sul caro e dimenticato Jean, in un contesto ben lontano dalle Mura di Paradis...
Genere: Comico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jean Kirshtein, Marco Bodt, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Avvertenze: tenevo tantissimo ad anticiparvi che questa storia è la trasposizione del sogno da me fatto la notta scorsa, per cui non sorprendetevi per la quasi completa mancanza di coerenza tra fatti, personaggi e soprattutto luoghi… ho cercato come potevo di rendere la storia quanto più attinente alla realtà, ma la mia mente è più bacata di quanto possa sembrare, per cui eccovi questo piccolo e insensato racconto!
 
 
La spiegazione di filosofia risultava noiosa per tutti, soprattutto per lui, che, dal giorno in cui aveva messo piede in quella scuola italiana per la prima volta, aveva subito preso in antipatia la roca quanto rumorosa voce dell’anziana professoressa intenta a offrire insoddisfacenti chiarimenti sulla morale del vecchio Hume.
Jean, seduto al primo banco della fila laterale destra dell’aula, guardava assente l’insegnante, più occupato a domandarsi il significato della vita che a ragionare con la “prof” e magari a prendere qualche appunto sulla lezione. Niente, semplicemente si limitava a tenere la testa sul palmo della mano destra, lisciandosi le unghie sotto al banco con l’altra.
Ad un tratto si guardò intorno; tutti erano concentrati ad appuntarsi quante più frasi riferite dalla docente, tranne lui. Si voltò, notò che anche Marco, seduto al banco dietro al suo, non avrebbe staccato gli occhi dal suo quaderno per nemmeno un attimo. Di tanto in tanto chiedeva alla sua compagna dai capelli color mogano ulteriori spiegazioni.
-Il rapporto tra istinto e…? – domandava il ragazzo con le lentiggini.
-Ragione – terminava la frase Bea, in un sussurro. La sua penna scorreva rapida sul foglio rigato, mentre ella era intenta a torturarsi una ciocca di capelli, dapprima rotolandola attorno a un dito, poi avvicinandola tra il naso e la bocca, pensierosa.
La giovane si rese conto che l’amico davanti a lei poco prestava attenzione al filosofo, ma osservava lei e il suo compagno di infanzia.
-Hey, bellissimo, dovresti darti da fare anche tu, sai? – intervenne lei.
-Che senso ha? Marco mi passerà tutto come sempre, non è vero? – Jean cercò l’approvazione dell’amico, che aveva alzato lo sguardo dal quaderno per partecipare alla conversazione, incerto sulla risposta da offrire al compagno.
-Non te lo permetterò, ‘pétit Jean’ – sbottò Bea. –Noi ci facciamo un culo così e tu te la cavi, non è giusto!
La professoressa la zittì, minacciandola con una nota disciplinare nel caso in cui non fosse riuscita a tenere la bocca chiusa.
-Ben ti sta, cretina – rise il ragazzo dai capelli chiari. –Così impari a chiamarmi in quel modo stupido.
-Tua madre lo usa, perché non dovrei farlo anche io? – continuò Bea, abbassando il tono di voce.
-Perché lei… è mia madre, Bea!
-Piantatela! Ci becchiamo una sospensione se non la finite – intervenne preoccupato Marco. –Dopo la prof interroga, avrete modo di fare tutte le chiacchiere che volete, ma ora fate silenzio!
Marco conosceva bene la prassi: sapeva che per tutta la durata della prima ora, dedicata alla spiegazione, la loro insegnante di filosofia non voleva sentir volare una mosca. Durante le interrogazioni, era così assorta nei suoi pensieri da non accorgersi non solo che qualcuno le stesse ripetendo la lezione, ma soprattutto il vociferare dei restanti membri della classe.
-Una sospensione? Questa vecchia non sa nemmeno cosa sia – bisbigliò Jean ai due amici, che iniziarono a ridere sotto i baffi.
-Vuoi tirartela perché hai studiato in una scuola francese? Che imbecille – aggiunse Bea, intimata ancora dal compagno di banco perché facesse silenzio.
Le chiacchiere terminarono e la spiegazione proseguì. Al termine di quella lunga quanto noiosa seconda ora, i nostri tre protagonisti ebbero modo di riposarsi, assorti in un’intensa discussione mentre un paio di altri ragazzi erano stati interrogati in storia.
Jean se la tirava delle comodità e dei servizi della sua vecchia scuola in Francia. Marco e Bea lo ascoltavano curiosi.
-Quanto avrei voluto anche io un laboratorio musicale! – esclamò stupefatto Marco. –Sarebbe stato meraviglioso, non è vero, Bea?
Il bruno e Jean conoscevano benissimo la passione della ragazza per la musica, grande appassionata di gruppi rock e alternativi che la inducevano a indossare un abbigliamento atipico rispetto alle altre ragazze: nel suo vestiario, non mancavano mai le t-shirt rigorosamente nere dei suoi gruppi preferiti e le sue amate camicie a quadri, delle quali Bea non sarebbe mai riuscita a fare a meno. Quest’ultima adorava il rosso, ed era stata graziata per il semplice fatto di essere una delle pochissime persone del mondo che potesse sfoggiare una naturale chioma color tiziano, motivo per cui il nome Beatrice le si addiceva benissimo per ricordare l’aspetto fisico della donna amata dal più grande poeta della sua nazione.
-E invece ti tocca sorbire questa megera. Che bel destino, vero, Bea? – sorrise malizioso il giovane francese, che da un anno si era spostato con la sua famiglia nella calda città napoletana, apprendendo in maniera straordinaria l’idioma italiano prima di quanto qualsiasi suo coetaneo fosse stato capace e divenendo l’amico degli individui più strani della 4 C scientifico: un ragazzo dolce quanto timido, vero topo di biblioteca, e la ragazza più atipica che avrebbe mai avuto modo di conoscere, ossessionata dai gruppi musicali e dai manga giapponesi.
-Vuoi smetterla di tirartela per questa stronzata? – rispose la rossa a braccia incrociate, tirando dalla tasca il suo cellulare e sfilando le cuffie arrotolate.
-Non me la tiro. Sto solo dicendo la verità – si scusò lui, ridacchiando. –Che permalosa!
-Bea, forse non è il caso di ascoltare ora la musica… la prof potrebbe vederti – disse cauto Marco.
-Ma io ho bisogno di loro – protestò la ragazza, infilandosi gli auricolari nelle orecchie. –Sono stata un’ora a sentire la spiegazione di quello scemo di Hume, ora ho bisogno di riposo.
Iniziò a smanettare sul telefono in cerca della canzone che più le garbava, venendo osservata dalla coppia di amici. –E tu ti lamenti del mio comportamento, Marco. Guarda questa – commentò il francese.
-Ti do un pizzico proprio lì, Jean, se non la finisci – Bea fu l’ultima a proferire parola. Mentre lei ascoltava tranquillamente i Led Zeppelin, Marco controllava gli appunti presi, confrontandoli con quelli della sua amica, decisamente la migliore della classe in filosofia. Jean aveva posato la testa sul banco, finché non iniziò a frugare nel suo zaino, tirando imbarazzato un tupperware contenente un cibo di colore arancione.
“Guarda questa cosa doveva prepararmi per merenda” pensò tra sé, alludendo a sua madre. “Forse è il caso che inizi a spendere la paghetta per comprarmi da mangiare, anziché per fumetti”.
Lo strano contenitore verde del ragazzo catturò l’attenzione della ragazza alle sue spalle, che subito si tolse gli auricolari per sporgersi meglio dal banco.
-Carote? – domandò, prima di scoppiare a ridere. –Fai veramente, ‘pétit Jean’?
Il ragazzo iniziò a spazientirsi. –Che problemi hai? Ora non si possono nemmeno mangiare carote, Malpelo? – rispose lui, vendicandosi del brutto nomignolo di cui la ragazza era venuta a conoscenza rinfacciandogli il nome dell’importante personaggio verista.
-Jean cavallo Kirshtein, me ne daresti un po’? – Bea si sbellicava dal ridere, coinvolgendo anche Marco.
-‘Fanculo, Bea – si voltò offeso il ragazzo.
-Dai, te lo sto chiedendo seriamente, Jean. Ti prego! – lo supplicò la rossa.
Il cuore di Jean ebbe un sussulto. Benché non avesse il coraggio di ammetterlo nemmeno a se stesso, adorava la fasulla voce fanciullesca che qualche volta scappava alla rossa. Anzi, a lui faceva piacere proprio la presenza di quella giovane bizzarra alle sue spalle, seduto accanto al suo vecchio amico delle elementari.
-Ho fame. Non ho intenzione di condividere niente con nessuno – ribadì lui, mordendo una carota sbucciata con fare noncurante.
Bea fu più furba; cominciò a grattare la schiena del ragazzo, intenzionata a pregarlo fino a che non avrebbe ceduto. Sfiorava con le unghie la maglia blu di lana del francese, che infine, più rosso del ketchup, lanciò all’amica una carota.
-Maledetta! 
-KIRSHHHTEIN! – urlò adirata l’insegnante dalla cattedra.
Tutti e tre scoppiarono a ridere per l’assurda pronuncia della professoressa, prima di scambiarsi le rispettive merende, la cui gran parte finì dritto nello stomaco di Bea.
-Grazie per le tue carote, pétit Jean – gli sorrise alla fine dell’ora la rossa.
-Grazie per le tue patatine, Malpelo – rispose Jean, ricambiando lo sguardo con le guance leggermente arrossite.
Marco osservava la scena intenerito, sperando in cuor suo che quella strana coppia non avrebbe tardato per alcun motivo a dichiararsi. Magari sarebbe dovuto intervenire lui stesso per far sì che ciò avvenisse.
Egli aveva parlato sia con Bea che con Jean. La prima gli aveva rivelato che non le sarebbe dispiaciuto per alcuna ragione fidanzarsi col ragazzo francese, purché avesse chiaramente espresso che non dava peso alla questione; l’altro, invece, sembrava apparentemente più interessato a corteggiare la giovane giapponese dell’altra sezione, benché, come aveva realizzato lo stesso Marco, non sarebbe mai stato in grado tantomeno di invitarla ad uscire.
Era chiaro: Bea e Jean erano destinati a diventare una coppia. Marco lo sapeva, erano affiatatissimi e la pensavano allo stesso modo in molte cose, nonostante considerasse la sua amica decisamente più spigliata e volenterosa del biondino.
Al termine della giornata scolastica, i tre amici si ritrovarono nell’atrio della scuola per accordarsi su come avrebbero passato quel pomeriggio libero dallo studio.
-Che dite di fare una passeggiata? – propose Bea. –Mi sembra un giorno troppo bello per rimanere a casa di qualcuno, non credete?
-Ci sto – approvò Jean, non perdendo l’occasione di battere il cinque della ragazza.
-Io… Ehm, mi spiace, ma credo che approfitterò di questo giorno libero per andare a fare shopping – si giustificò sorridendo Marco.
-Qual è il problema, Marco? – domandò Bea.
-Già, io posso consigliarti. Ci fermeremo in qualche boutique strada facendo.
-Boutique? Che cazzo di parola è, Jean?
Jean sospirò -Devi criticare sempre tutto, Malpelo?
-Io in realtà mi riferivo al centro commerciale – spiegò Marco. –Qui non trovo molto al giusto prezzo, là riesco a muovermi meglio.
I due lo osservarono sempre confusi, incapaci di comprendere il suo ragionamento. Marco dubitava sempre più della riuscita del suo piano.
-Come vuoi, Marco – constatò il francese, grattandosi il ciuffo di capelli.
-Grazie per aver capito – sorrise quest’ultimo, esultando tra sé.
-Così… siamo solo io e te, Jean – osservò Bea, guardando in direzione del ragazzo. Entrambi arrossirono violentemente, distogliendo lo sguardo l’uno dall’altro.
-Per me va bene, Bea. Te? – domandò Jean, maledicendo Marco per averlo messo in quell’impiccio. Era la prima volta, dopotutto, in cui ci sarebbero stati soltanto lui e la rossa in un’uscita pomeridiana, e non aveva idea di come comportarsi. La presenza dell’amico lo rendeva decisamente meno timido, in quelle situazioni.
-Fantastico! – esordì Bea. –Mi sdebiterò per averti deriso prima in classe, okay? – ella riuscì a strappare un sorriso e un cinque al francese, felice di avere finalmente pétit Jean tutto per sé.
-Sarebbe il caso – aggiunse lui, infilando le mani nella giacca a vento nera.
-Sono contento che siate riusciti ad accordarvi. Ci sentiamo, allora!
Jean e Bea lo osservarono, domandandosi il motivo per cui il ragazzo avesse tanta fretta. Il loro subconscio, nel frattempo, aveva già capito che tutto ciò faceva parte del piano diabolico di Marco per costringere i due a uscire da soli come due fidanzati.
-Ti mando un sms più tardi per farti sapere a che ora possiamo vederci – spiegò Bea, tirando dalla tasca il suo cellulare. –Ti andrebbe di venirmi a prendere sotto casa?
Il ragazzo annuì, col cuore a mille. L’idea di dover andare da solo a casa della sua unica amica lo rendeva stranamente ansioso. Tutto ciò risultava un vero e proprio appuntamento, nonostante mai i due avessero parlato di stare insieme come fidanzati. –Va bene. Passo a prenderti, allora. A più tardi, Bea!
I due batterono i rispettivi pugni prima di proseguire ciascuno per la propria strada.
Più tardi, il ragazzo a stento toccò quella deliziosa omelette che sua madre gli aveva preparato per pranzo, suscitando la sua preoccupazione.
-Non mangi, pétit Jean? Ci ho messo tanto amore per prepararti questo piatto, sai?
Lui balbettò qualcosa, capì che non sarebbe affatto convenuto discutere, perciò inghiottì la pietanza senza fare discussioni, poi si alzò da tavola per aiutare sua madre a sistemare.
-Che bravo ragazzo, che sei! – la signora Kirshtein gli diede un fugace pizzicotto sulla guancia prima che Jean potesse far ritorno nella sua camera.
Si sdraiò a peso morto sul letto, aprendo la galleria del cellulare, sfogliando le foto ritraenti il suo trio di amici.
I suoi occhi si soffermavano sulla figura della rossa; ne studiava ogni caratteristica: dalla particolare chioma infuocata agli intensi occhi castani, il suo piccolo nasino all’insù fino alle labbra sorridenti, che completavano il suo viso paffuto, segno dell’affetto incontenibile della giovane nei confronti del cibo.
Un sentimento nuovo per lui fece strada nel suo cuore: le voleva bene per il semplice fatto che fino a quel momento era stata l’unica ad apprezzare la sua bizzarra personalità, ma sentiva di star provando ben altro per lei.
Le era grata perché, tra tutte le ragazze carine che frequentavano la scuola, lei era stata l’unica a sopportare il suo carattere pretenzioso, ma in fondo buono e leale. C’era da considerare poi il fattore primario: era carina, e la sua bellezza che nascondeva negli abiti più semplici, che non ritoccava se non con quel filo di trucco, la rendeva ancora più piacente ai suoi occhi.
“Jean, ti sei innamorato?” si domandò pensieroso, il cuore che gli batteva incessante nel petto.
Ci incontriamo per le quattro? Così avremo modo di evitare il traffico in autobus, recitava il messaggio che lei gli aveva appena mandato.
Ok. Verrò lì per quell’ora, digitò Jean, indeciso se piazzare o meno un cuore rosso, che subito dopo rimosse, sostituendolo con una emoticon dalla lingua di fuori.
Ella si limitò a rispondere con l’immagine di un puledro, registrando un messaggio vocale, in cui era possibile udire anche la voce della sua sorellina: -Ti somiglia! – esclamarono in coro le due.
Jean rise come aveva mai fatto, attendendo impaziente l’arrivo dell’ora predestinata.
Verso le quindici, decise di cambiarsi: Jean indossò un pullover bianco con le bretelle, un jeans chiaro strappato e completò il tutto con un simpatico cappello bordeaux prima di mettere piede fuori casa. Alla fine, dové constatare di essersi lasciato in parte ispirare dall’abbigliamento alternativo della sua amica per quell’uscita.
Poco dopo aveva già raggiunto la dimora dell’amica, bussando intimorito al citofono. Qualcuno non tardò ad aprirlo, e, mentre si dirigeva al primo piano dell’edificio, un piccolo micio tigrato si fece strada tra le sue gambe. Jean sorrise, riconoscendo quella birba di Figaro, il gattino di Bea, lo raccolse tra le braccia prima che la padrona potesse venirle incontro per le scale.
-Figaro! Sei sempre il solito! – rimproverò, portandosi dietro un orecchio una ciocca di capelli prima di venire in soccorso all’amico.
-Non preoccuparti, Bea – iniziò lui, osservando da vicino il gatto accucciato sulle sue braccia. –Io e Figaro abbiamo una buona intesa.
Jean la osservò: i suoi capelli erano finalmente sciolti e mossi. A differenza sua, non si era cambiata, e sfoggiava ancora la sua adorata maglietta nera con sopra stampato il logo della band dei Queen, che ricordava il simbolo della casa reale britannica. L’abbigliamento della giovane era completato da una delle sue solite camicie rosse, le cui maniche erano state annodate attorno alla vita.
Bea ridacchiò, puntando il dito sulla bestiola. –Smettila di infastidire gli ospiti – poi si rivolse al ragazzo. –Ciao, Jean.
Quest’ultimo arrossì non appena ella gli ebbe scoccato un bacio sulla guancia. Di solito lo faceva per infastidirlo, ma quella volta risultò un gesto del tutto spontaneo.
-Vieni sopra, devo ancora prendere la borsa e portare Figaro in casa.
Jean seguì la ragazza all’interno della sua dimora. Lì fu atteso dalla sorella di undici anni di Bea, Laura, e la nonna delle due ragazze.
-E’ arrivato Jean, signore, e mi ha trovato Figaro! – annunciò raggiante Bea.
Jean fu un po’ intimorito dalla presenza delle due donne, ma affrontò la situazione facendo un cenno con la mano. –Buonasera, signora. Ciao, Laura.
Quest’ultima ridacchiò, nascondendo la bocca dietro una mano. Probabilmente ancora la faceva ridere l’appellativo del ragazzo che Bea le aveva ingiustamente rivelato.
-Quindi sei tu il ragazzo francese che sta sempre con Bea – la nonna della giovane strinse la mano del biondo. –Tanto piacere. Tu sei Giàn
-Kirshtein – risposero in coro i due ragazzi, sorridendo.
-Ah, bene – disse la signora, non ripetendo lo strano cognome per nascondere la marcata pronuncia napoletana e invitando Bea a stare un po’ più dritta.
-Che cosa fate di bello, voi fidanzati? – intervenne innocentemente Laura.
-Noi non siamo fidanzati, scema che non sei altro – rispose bruscamente Bea, nonostante fosse divenuta rossa persino in volto. –E comunque dovevamo ancora decidere. Dove ti piacerebbe andare, Jean?
-Andate per i Decumani! – intervenne la nonna, riferendosi alle tre strade greche che si intersecavano nel bel mezzo della città. –Lì è splendido, poi è anche qui vicino.
Bea non poté darle torto. La sua casa si trovava giusto a pochi passi da piazza del Gesù, dalla quale i due avrebbero potuto introdursi direttamente nella fitta rete di vie secondarie che collegavano le tre più importanti. Bea non avrebbe potuto non mostrare tali meraviglie al suo amico!
 -Ma certo – realizzò Bea. –Devi vederli, Jean! Sei qui da un anno e ancora non hai visto Spaccanapoli e tutte queste altre meraviglie – scosse più volte le braccia di quest’ultimo, il quale, arrendendosi, acconsentì.
-Mi va bene, Bea – rispose il francese.
-Allora è deciso. Torno più tardi, a dopo! – la rossa salutò la sua famiglia, che salutò cordiale il giovane prima che i due potessero uscire dalla casa e avventurarsi per le strade della città.
-Non occorrerà prendere l’autobus – spiegò Bea. –Sono davvero contenta. Sei davvero carino con quel cappello, Jean.
Egli arrossì, toccandosi l’indumento sulla testa. –Grazie. Tu ti sei sistemata i capelli. Stai molto bene.
-Mia nonna mi ha costretto. Vuole che diventi un po’ più donna, ma sai bene che ho più t-shirt di gruppi svariati che mutandine.
Entrambi risero. –Ma sbaglio o sei di poche parole questo pomeriggio, pétit Jean? Dov’è finito il tuo smisurato ego? – Bea riprese a sciogliere gli auricolari per poi attaccarli al suo iPhone.
-A casa. Non ho voglia di iniziare un battibecco. Non c’è gusto, se poi non vengo fermato da Marco, non credi?
Lei annuì. Jean la osservò infilarsi delicatamente una cuffia nell’orecchio destro; Bea aveva qualcosa di particolare, in quel momento, come se in lei si fosse appena affermato un lato più maturo e femminile, che lo stava facendo uscire di testa. Sembrava un rincoglionito, con quel fare inebetito, numb, come il titolo della canzone che la ragazza stava ascoltando.
-Non riesci proprio a fare a meno della musica, non è così? – constatò il ragazzo, sorridendole.
-Già – rispose lei. –So che passi gran parte del tuo tempo libero a stalkerare ragazze carine e a guardare anime, ma forse dovresti iniziare anche tu ad ascoltare musica.
-Io non stalkero nessuno, bella – intervenne lui.
-Oh, certo. E quella ragazza giapponese della sezione B? Ho notato come sbavi, non appena la vedi.
-E’ fidanzata con quell’idiota dagli occhi verdi, ricordi? – sbottò Jean. –Ho perso in partenza, purtroppo. Dispiace soprattutto a me, ma…
-Ma sei troppo strano per metterti con una così popolare e apatica, ho capito – rispose lei, ripensando al carattere freddo e distaccato della ragazza nipponica, ossessionata dal ragazzo tedesco dell’Erasmus che, come lei, era stato ospitato dalla sua famiglia in Italia, un giovane di nome Eren. Jean aveva riferito più volte a Bea e a Marco quanto gli sarebbe piaciuto provare a uscire con lei, e questo rendeva un po’ gelosa la rossa. -Puoi confermarmi, quindi, che lei non ti interessa più?
-Solo se tu mi dici che non ti interessa quello scemo a cui va appresso.
 -E chi lo conosce? - rise lei. -Ti vanno i Linkin Park? – Bea rese una cuffia al francese, sperando che Jean acconsentisse ad ascoltare in sua compagnia il suo gruppo preferito.
-Okay. Grazie a te ho imparato ad apprezzarli.
-Davvero? Ti adoro, amico mio. Sei una delle persone più carine che ho avuto modo di incontrare.
Jean divenne nuovamente color pomodoro, perdendo il conto di quante volte il colore dei capelli di Bea fosse trasmutato in maniera stupefacente sul suo volto. Si rese conto che, magari, loro due, assieme, sarebbero risultati una coppia perfetta. Il suo carattere a volte scontroso era causa di attrito nei rapporti con gli altri; anche Bea si distingueva per la sua personalità eccezionale, e a stento sopportava le ragazze vanitose della loro classe.
-Anche per me è lo stesso – rispose sottovoce lui, ascoltando in sua compagnia il gruppo americano mentre Bea era intenta a dargli spiegazioni sui monumenti e le strade nelle quali si imbattevano.
Il discorso della ragazza sul Conservatorio di San Pietro a Majella catturò particolarmente l’attenzione del giovane francese, colpito da come ella non avrebbe fatto altro che parlare di musica per l’eternità.
-Se sei così in fissa, perché non provi a imparare a suonare qualcosa? – domandò ad un certo punto Jean, soffermandosi, assieme alla rossa, davanti l’ingresso del Conservatorio.
-Perché sono così presa da te e da Marco che non ne avrei tempo – esitò qualche attimo, poi proseguì: -Soprattutto da te.
Jean si girò di colpo, sentendosi mancare. –Da me? In che senso?
Bea scosse il capo. –Niente. Il tuo disonesto orgoglio mi fa uscire fuori dai gangheri. Andiamo?
I due proseguirono, legati da un paio di auricolari che si rivelavano abbastanza scomodi a causa della sproporzionata altezza di Jean in confronto all’amica.
-Mi reputi davvero così importante? - chiese ad un certo punto lui, ascoltando con attenzione le canzoni del cellulare della ragazza.
-Sei perso senza me e Marco, questa è la verità. Ti avrebbero già spedito da dove cavolo sei sbucato senza pietà. Hai bisogno di noi.
Jean sospirò, incapace di comprendere il motivo per cui il suo carattere risultasse tanto acciglioso agli occhi degli altri. -Mia madre mi ha sempre reputato problematico. Quindi è vero, Bea?  - chiese, frugando nella tasca della giacca, cacciando una sigaretta e un accendino.
Quest’ultima rise. -Sei uno psicopatico. E lo sono anche io, per questo siamo qui insieme.
Prese a braccetto il ragazzo, avventurandosi per il Decumano inferiore, altrosì conosciuto come Spaccanapoli.
-Quindi questa strada davvero divide la città in due? - Jean era incredulo, liberando una nuvola di fumo ogni tanto. -È favoloso.
-Lo so, pétit Jean. Ti va di vedere qualcosa di ancora più speciale?
Il ragazzo non capiva. Bea lo prese per mano. -Ti fidi di me, non è così?
A Jean si era bloccata la circolazione, la lingua gli si era paralizzata.
-Oh, scemo! Mi senti? Ti fidi o no? - insisté lei.
-Sì - mormorò lui. -Di che si tratta?
Bea gli rivolse un sorriso, prendendo a correre a passo svelto tenendo Jean per una mano.
“Ti stupirò, mio pétit Jean” pensava lei. I suoi pensieri più dolci erano rivolti al ragazzo francese che, ne era certa, le stava rubando sempre più il cuore.
Pochi attimi dopo, i due erano davanti la cappella San Severo. Se esteticamente non prometteva nulla dall’esterno, come la rossa spiegò al ragazzo, la sorpresa era tutta all’interno.
Dopo che il look da metallara della ragazza ebbe intimorito il bigliettaio del monumento, Bea spinse Jean all’interno della cappella, che conservava il meraviglioso Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino. Il velo di marmo steso sul corpo del Cristo sarebbe stato capace di lasciare sbalordito chiunque, tra cui il nostro protagonista francese, che poté contemplare l’opera soprattutto perché a quell’ora i visitatori si erano recati tutti altrove: gli unici due turisti presenti nel complesso monumentale erano lui e la rossa stravagante.
-Qui nessuno può giudicarti, Jean. Sentiti libero di essere chi vuoi, e metti una volta per tutte da parte il tuo assurdo ego - gli spiegò la giovane, avvicinandosi a lui.
-Hai ragione, Bea. Quindi potrei dire anche quello che voglio, qui, non è così?
L’aria mistica della cappella invadeva persino i due ragazzi.
-Ovviamente evita le parolacce. E i pensieri strani. Siamo in una chiesa, dopotutto - ridacchiò Bea.
-No, nulla di tutto questo - Jean era sempre più vicino alla rossa. I loro petti quasi si toccavano per quel ravvicinato contatto. -Posso dire finalmente che tu mi piaci, piccolo Malpelo. Perché sei l’unica che mi capisci, che mi ha sempre capita.
Bea, incredula, si portò una mano alla bocca. Era un sogno? Oppure Jean era davvero lì, nel suo metro e settantacinque, davanti a lei a dichiararsi?
-Finalmente, pétit Jean. Ce ne hai messo di tempo a dirmelo - constatò lei, sorridendogli.
-Bea, ti sto dicendo che sono pazzo di te, perché continui a chiamarmi in quel modo assurdo?
Bea lo strinse a sé; non tardò ad avvicinare le sue labbra a quelle del ragazzo, alzandosi sulle punte.
Jean avrebbe ricordato quel bacio per l’eternità, non solo perché era il primo, ma perché era stata Bea, il suo primo vero amore, benché lo avesse capito così tardi, a regalarglielo. Le sue braccia strinsero il corpo di Bea come aveva sempre sperato, deciso a non lasciarla nemmeno per un istante.
-Non mi consideri così folle, allora? - si lasciò scappare lui poco dopo.
-Certo che ti considero un folle, ecco perché mi piaci tanto, Jean.
Bea era completamente innamorata del viso bambinesco del francese. Lo avrebbe protetto dalle malelingue del suo istituto a qualsiasi costo. -A differenza degli altri, io so quanto tu sia speciale, Jean. Hai una personalità favolosa, mi piaci tanto proprio per questo.
Jean la trovava incantevole, soprattutto quando arrossiva. Avrebbe ricordato quella cappella per sempre, ma constatò che sarebbe convenuto uscire.
Bea, intrecciando le sue dita tra quelle del ragazzo, acconsentì ad avviarsi fuori dal museo. Più tardi, i due stavano spendendo fino all’ultimo centesimo i loro soldi per i manga in vendita in un negozio nei pressi di Piazza del Gesù. Jean aveva regalato anche un piccolo gadget alla sua nuova amata.
-Non dovevi, stupido - disse lei, una volta fuori, seduti su una panchina macchiata di graffiti di ogni tipo.
-Che ti importa? I soldi li ho spesi io, mica tu!
Lei rise, poggiando la testa sulla sua spalla. Aveva desiderato farlo praticamente da sempre.
-In tutto questo, Marco è stato un genio - rivelò ad un certo punto Bea, leggendo un paio di pagine del suo acquisto.
-Perché, che ha fatto?
-Ma sei ebete? Ci ha fatti uscire da soli appositamente perché succedesse tutto questo.
Jean iniziò a sentirsi improvvisamente stupido, ma al tempo stesso si sentì in debito col suo caro amico. -È vero. Che mente diabolica! Forse dovrei iniziare anche io a drogarmi di libri in biblioteca.
I due novelli fidanzati si scambiarono un’occhiata di intesa, per poi scoppiare a ridere, scambiandosi il loro secondo, dolce bacio.
-Non ti lascerò più, Bea. Te lo prometto - bisbigliò lui nell’orecchio della ragazza.
-Zitto, pétit Jean. Ho visto che hai infilato il mio manga nella tua busta. Ridammelo prima che ti rasi la testa!
-Ma Bea...
-Non me la racconti giusta, Jean cavallo! Un giorno di questi te la farò pagare amaramente. Poi ti bacerò come se non ci fosse un domani.
Scoppiarono nuovamente a ridere, poi Jean prese il suo cellulare, scattando una foto a se stesso mentre lasciava un affettuoso bacio sul collo di Bea.
-Era necessario farmi una foto? Sai che non mi propongo di essere un obiettivo – protestò la rossa, ancora un po’ scombussolata per l’adorabile gesto del francese.
-A meno che non fai una delle tue solite facce buffe. La prossima volta ti avviso – Jean ammiccò, prima di rubarle un bacio sulle labbra e inviare lo scatto al numero di Marco.
Vi siete decisi! Non ci credo 😍
Aveva risposto il moro.
-Benedetto Marco – dissero all’unisono i due fidanzati, proseguendo tranquillamente la loro passeggiata.
 
 Spazio autore: *esce da un angolino* bene, eccomi qui! Allora, che vi dicevo? Questa storia non ha quasi nulla di sensato, ma ho deciso di pubblicarla anche per mettere un po' evidenza questo piccolo personaggio che, benché presente da sempre, non è mai stato al centro dell'attenzione di molti; inoltre, dove c'è Jean c'è Marco, che mi è stato di grande aiuto soprattutto grazie al suo nome italiano. Il nome Jean è di origine francese, e, come ve ne sarete accorti, ho fatto anche riferimenti alla Erenkasa, nonostante non siano del tutto espliciti.
Ciò che più mi ha preoccupato riguarda l'aver inserito così tanti riferimenti alla mia calda e vivace città natale (vi consiglio di visualizzare tutti i monumenti e i luoghi fantastici che Bea ha mostrato a Jean, oltre alle canzoni dei vari gruppi citati). Nemmeno più abito a Napoli, ma il mio sogno era ambientato proprio lì, e non sarei mai in grado di spiegare il collegamento tra due personaggi dell'Attacco dei Giganti con questa città XD.
Spero di non essere sfociata nel ridicolo, vi prego, non siate troppo duri con me... Non avevo alcuna intenzione di ferire gli animi dei più appassionati di Shingeki XD.
Au revoir!
  
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