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Autore: SirioR98    26/03/2018    4 recensioni
In fisica, un sistema isolato è un sistema posto così lontano dagli altri da non interagire con loro, oppure un sistema chiuso che non ha scambi con l’ambiente circostante.
È un sistema perfetto, in equilibrio, costante.
Mi chiamo Noah e mi hanno costretto in un sistema isolato.
Noah è un sedicenne nato e cresciuto in una piccola comunità di mormoni nello Utah. Apertamente omosessuale e fiero di esserlo, si ritrova a convivere per cause di forza maggiore con Alex, la sua “persona preferita”, che si identifica come nonbinary. Esplorando la comunità LGBTQ+ di Salt Lake City e sopravvivendo alle sfide della città natale di Joseph Smith, Noah si vede costretto a crescere prima del tempo e a cercare la sua voce.
Genere: Azione, Dark, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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*Angolo dell'autrice*
Buonsalve, signore, signori e persone che preferiscono un'alternativa neutra in una lingue di genere. Ben ritrovati, per chi ha già letto la storia di Mitch, o benvenuti, se incappate in una delle mie storie per la prima volta! Presento a tutti voi la seconda storia di Sistema Isolato, la saga che presenta vari sistemi isolati applicati alla realtà e non.
Attenzione: la storia di Noah non ha nulla a che vedere con quella di Mitch, sono due storie distinte che presentano due esempi di sistemi isolati diversi. 
Detto questo, tengo a rispolverare le vecchie regole. Il titolo di ogno capitolo è la citazione a una canzone, di cui vi allegherò il link al video ufficiale o a un video di buona qualità, così che voi la possiate ascoltare mentre leggete. Consiglio l'ascolto del brano a basso volume, giusto per immergervi meglio nel mood della storia.
La canzone di questo primo capitolo è "Bad Reputation" di Joan Jett, brano del suo omonimo album del 1980. Penso che la conoscerete tutti grazie a a quella famosa scena di Shrek in cui il protagonista combatte nel ring contro i cavalieri, alla corte di Lord Farquaad.
Vi auguro una buona lettura e ancora un caloroso benvenuto nel mondo di Noah.
Eli~

 
Capitolo 1

 
In fisica, un sistema isolato è un sistema posto così lontano dagli altri da non interagire con loro, oppure un sistema chiuso che non ha scambi con l’ambiente circostante.
È un sistema perfetto, in equilibrio, costante.
Mi chiamo Noah e mi hanno costretto in un sistema isolato.
 
“Ehi, Noah.” La voce di Alex mi riporta sulla terra.
Mi giro verso la mia persona preferita: ha lo sguardo perso tra la folla che ci scorre davanti, troppo impegnata nella propria quotidianità per accorgersi di noi.
Ma, alla fine, ci abbiamo fatto l’abitudine.
“Giochiamo a ‘indovina la vita’?” Mi chiede passandomi la sigaretta, che porto alla bocca stretta fra pollice e indice.
‘Indovina la vita’ è uno dei nostri giochi più amati, consiste nell’indovinare la vita che una persona conduce soltanto guardandola. Di solito si tratta di storie campate in aria, quanto più possibile lontano dalla realtà, perché non credo che quell’uomo in giacca e cravatta che abbiamo visto ieri sia una spia svedese con una passione morbosa per le paperelle di gomma e i tappeti pelosi, né che di notte si esibisca con la sua band – i famosissimi Møtherquacker – nella scena underground prog-metal di Salt Lake City.
Oppure sì, chi sono io per giudicare?
“Va bene, incomincia tu.” Rispondo, portando lo sguardo sulla folla in cerca della mia prima preda.
Con la coda dell’occhio, noto che si porta una mano al mento e vi tamburella le dita, evitando accuratamente Ugo, il suo nuovo amichetto apparso durante la notte a causa della pubertà.
Una nuvola di fumo abbandona il mio corpo per unirsi alle sue lontane cugine nel cielo. Mi sa che stasera pioverà.
Ricevo una gomitata sulle costole da Alex che, con un cenno del capo, mi indica una donna al telefono. La nostra nuova protagonista sorride ascoltando il suo interlocutore, è girata di un quarto verso la fontana davanti alla Church of Jesus Christ of Latter-day Saints, ma si guarda spesso attorno.
Alex si preme indice e medio sulla fronte, chiude gli occhi e stende il braccio libero davanti a sé, muovendo le dita come se stesse suonando un piano.
“Quella donna al telefono, non è di queste parti. I jeans e la maglietta a maniche lunghe che indossa mi fanno pensare a una paese caldo. Lei è originaria di un paese caldo... no, anche meglio! In realtà, quella donna non percepisce la temperatura. Quella povera donna soffre di...” Ferma un secondo il suo racconto per prendere il suo vecchio cellulare, miracolosamente funzionante dopo le intemperie di questo inverno.
“Insensibilità congenita al dolore con anidrosi.” Afferma, posando il cellulare in tasca.
Si gira verso di me e incontra la mia espressione scettica.
Si stringe nelle spalle.
“Che c’è, non ti sembra plausibile? Chi si vestirebbe così con 83° gradi fahrenheit all’ombra, senza sudare tra l’altro?” Chiede per avvalorare la sua tesi.
Ridacchio.
“Certo, è più probabile che soffra di una malattia rarissima del sistema nervoso.“  Faccio notare, passando la sigaretta.
Accetta una delle possibili cause della nostra morte con relativo entusiasmo, contribuendo a inquinare l’aria che ci circonda.
“Dovremmo smettere di fumare, sai? È una spesa che non ci possiamo permettere, ora come ora. In più, non fa proprio bene alla nostra salute.” Commenta, tirando una boccata.
Sorrido, scuotendo la testa.
“Effettivamente tra l’inverno che scende a -9 e la possibilità di morire di febbre o per un pneumotorace, il fumo è il primo dei nostri problemi.” Ribatto, riprendendo la sigaretta.
“E poi non è che siamo fumatori incalliti, al massimo riusciamo a finire in due un pacchetto ogni settimana e mezza.” Concludo, osservando attentamente quel tubicino di carta che mi ritrovo tra le mani.
Come fa una cosa così piccola a essere così pericolosa?
Scrollo le spalle.
Prima o poi tutti dobbiamo morire.
Torno a guardare la folla.
I miei occhi si posano su un bambino, circa quattro anni, che guarda il cielo. Poco distante, una coppia l’osserva, parlando fitto fitto tra di loro. Devono essere i suoi genitori.
Lo indico ad Alex, passando la sigaretta.
“Quel bambino lì. Quel bambino è la stella dei suoi genitori, una famiglia borghese così normale da far venire la nausea. Tutti e tre abitano in una di quelle villette a schiera a Greater Avenue, sulla decima strada o quello che è. Hanno pure un cane, Lucky, uno di quei Corgi con la coda a batuffolo che vanno tanto di moda ultimamente. La vita di quei due è tanto noiosa che l’unico momento eccitante è quando il loro pupo fa cadere gli spaghetti a terra. La famiglia perfetta, vista dall’esterno.” Mi fermo per riprendere la sigaretta e fare un altro tiro.
“Finché il piccolo Johnny un giorno, al liceo, si accorgerà che quasi quasi gli piace passare fin troppo tempo negli spogliatoi insieme ai suoi compagni di squadra e di volere qualcosa di più di un’amicizia con il suo partner di studi. Quando lo dirà a Richard e Carol, il loro mondo si disintegrerà davanti ai loro occhi e mammina e paparino lo butteranno fuori di casa, dicendo a vicini e conoscenti di averlo mandato a studiare all’estero. Perché loro hanno la famiglia perfetta e tale deve rimanere.” Concludo, seguendo con gli occhi il bambino, che ritorna dai suoi genitori e cerca di attirare l’attenzione della madre tirandole il pantalone.
Alex fa un verso di accordo.
True story.” Ribatte, alzando un calice invisibile.
Rimaniamo in silenzio per qualche minuto a guardare la vita scorrerci davanti.
Alla fine, Alex tossicchia, io tiro su con il naso.
“Il gioco mi ha fatto deprimere, torniamo a casa?” Mi chiede.
“Sì, andiamo. Sto morendo di fame.” Concordo, alzandomi dal muretto. Butto la cicca a terra e la pesto con il piede.
“7-Eleven?” Chiedo ad Alex.
“Quello sulla S 200 E?” Replica.
Annuisco.
Ci dirigiamo verso la N State. Passando accanto alla statua di Joseph e Emma Smith do, come di rito, una pacca sul sedere del vecchio Joe, giusto per attirare un po’ di fortuna e qualche sguardo disapprovante.
Perché la fortuna ci serve tutta, considerando dove stiamo andando.
Da Temple Square alla nostra meta c’è mezz’ora di strada. Proprio oggi non mi dispiace camminare, la giornata è abbastanza piacevole. Calda, ma piacevole.
Abbandoniamo l’antica S Temple per la non meno verde 200 E, allontanandoci sempre di più dal centro storico. Camminiamo lentamente, decidendo il da farsi.
Certamente non vogliamo arrivare impreparati.
Il cielo si fa più presente, man mano che gli edifici si fanno sempre più radi e sempre più bassi.
Arrivati davanti l’ambasciata messicana, ci fermiamo.
“Va bene, cosa ci serve?” Mi chiede Alex, voltandosi verso di me.
Ci penso su un attimo, ricontrollando mentalmente le nostre scorte.
“Oltre a cibo e acqua? Stiamo finendo anche il dentifricio e il sapone. E quando dico finendo, intendo che stamattina ho dovuto spremere quel tubetto come se fosse un serial killer.“ Spiego, cercando di chiarire il punto della situazione.
Alex annuisce, prendendo nota.
“Prendiamo anche della carta igienica se ci riusciamo, ci rimane solo un rotolo.” Aggiungo, prima di dare una pacca sulla spalla alla mia persona preferita e fare segno con la testa di tornare a camminare.
Attraversiamo la strada guardando a destra e a sinistra. Vorrei arrivare vivo dall’altro lato, la vita non mi fa così schifo.
Giriamo per la stazione di servizio. Precedo Alex alla porta, aprendola per far entrare.
“Facciamo come al solito.” Sussurro mentre mi passa davanti.
Con un cenno a stento percettibile, mi fa capire di avermi sentito.
È un caldo pomeriggio estivo, saranno massimo le quattro, e come tutti i caldi pomeriggi estivi qui, in questa parte di mondo dimenticata da Dio e da Joseph Smith, amico suo, i poveri dannati dei dintorni si rifugiano nel 7-Eleven all’incrocio fra la S 200 E e l’800 S per affogare le proprie fatiche in uno slurpee dal colore innaturalmente acceso.
Io, personalmente, non l’ho mai provato, però Alex una volta mi ha detto che si può davvero sentire il sapore di sostanze chimiche. Dopo quella descrizione, mi è anche passata la curiosità di provare lo slurpee del 7-Eleven.
Non che bevande simili di altri supermercati siano da meno.
Passando accanto alla macchina produttrice della nefasta sostanza, non posso che rendermi conto di quanto questo posto mi ricordi il Kwik-E-Mart dei Simpson. Anche nella realtà il 7-Eleven ha un che di cartoonesco di cui non riesce a liberarsi.
Alex si addentra nella sezione degli inscatolati, mentre io vado dritto per i prodotti per l’igiene. Ed eccolo là, il dentifricio che tanto ho agognato da stamattina.
Mi guardo intorno, cercando un qualsiasi segno di commessi impiccioni o telecamere nascoste. Con nonchalance, apro la confezione, prendo il tubetto e lo infilo in una tasca all’interno dei pantaloni da me appositamente cucita. Riposo lo scatolino al suo posto, passando al sapone.
Saponetta piatta? Perfetta per scomparire sotto la maglietta più larga di un paio di taglie che ho addosso, fermata all’altezza della vita con una cintura.
Giro l’angolo, incrociando Alex, che tiene in mano una bottiglia d’acqua. Con lo sguardo mi indica la cassa. Sbatto due volte le ciglia velocemente, come da segnale, prendendo una confezione di carta igienica.
Andiamo a pagare, mettendoci in fila dietro a un uomo con addosso un grembiule sporco di salsa.
Quand’è il nostro turno, posiamo ciò che abbiamo in mano sul bancone, mentre Alex si sporge a chiedere uno slurpee color blu evidenziatore.
Non scherzo, quello che esce dalla macchina è inchiostro blu condensato, non c’è altra spiegazione. Storco il naso mentre il cassiere lo porge ad Alex, ricevendo in cambio i soldi per acqua e carta igenica.
Guardo male la mia persona preferita,che si stringe nelle spalle.
“Che c’è? È gratis: 11 luglio uguale free slurpee day.” Spiega, prendendo la busta della spesa.
Prima di poterci girare e andare verso l’uscita, il commesso mi blocca prendendomi per la manica.
“Ehi, ragazzino. Cos’è quella?” Mi chiede indicando la maglietta.
Abbasso lo sguardo, seguendo il suo dito.
Troppo intento a elencare tutti i difetti della bevanda fra le mani di Alex, non mi sono accorto della chiazza che vi si è formata sopra.
A differenza mia, il cassiere sì.
Rialzo lo sguardo di scatto, sul mio viso si legge chiaramente la sorpresa.
Con uno strattone, mi libero dalla sua presa e corro verso l’uscita. Alex mi segue, lasciando cadere il suo slurpee a terra.
Corriamo fino alla 800S dove, come da piano, ci separiamo. Alex tira dritto, mentre io rallento un poco per fare da esca.
Giro a sinistra, con quel pover’uomo che guarda prima me, poi il mio complice. Un po’ mi dispiace farlo faticare tanto, alla fin fine sta solo cercando di fare il suo lavoro.
D’altro canto, noi dobbiamo pur sopravvivere in qualche modo.
Come da programma, decide di seguire me. Attraverso la strada senza curarmi del traffico pomeridiano, lanciandomi occhiate alle spalle per assicurarmi di essere ancora inseguito.
Arrivato a quello che dovrebbe essere un take-away italiano, giro a destra, correndo sul prato dietro il complesso residenziale. A separarmi dalla salvezza rimane solo un cancello, che riesco a scavalcare senza eccessiva difficoltà.
Non è di sicuro la prima fuga a cui sono costretto, ormai il mio fisico si è abituato.
Rallento il passo quando raggiungo la strada.
Il nascondiglio che ho scelto è una piccola chiesa, una di quelle che non si notano se già non le si conosce, che da fuori sembrerebbero delle normalissime case.
Aggrappandomi alla ringhiera, salto sui gradini ed entro nel luogo di culto.
Non posso dire di essere un amante delle chiese, ma nel momento del bisogno non faccio lo schizzinoso.
Mi chiudo la porta alle spalle e mi riparo sotto la finestra, sbirciando fuori per assicurarmi che quel pover’uomo non mi stia ancora inseguendo. Più che altro, sperando che non faccia due più due e mi venga a cercare nel mio rifugio.
Mi aggrappo al davanzale per sbirciare fuori, tentando di non sporgere troppo la testa, non vorrei essere visto.
È fermo in mezzo alla strada, le spalle si alzano e abbassano velocemente per il fiatone.
Si gira attorno, cercandomi in strada.
Frena qualcuno per chiedere informazioni.
Non riesco a sentire cosa dica, lo vedo solo alzare la mano all’altezza del suo naso e continuare a parlare. Penso mi stia descrivendo.
Il suo interlocutore scuote la testa e continua per la sua strada.
Abbattuto, il mio inseguitore fa dietrofront per tornare al suo posto di lavoro. Lo seguo con lo sguardo, finché non esce dal mio campo visivo.
“Strano modo di pregare, il tuo.”
Mi volto di scatto.
Un uomo dalla camicia nera e il collarino bianco mi sorride dal mezzo delle panche. Ha le mani conserte dietro la schiena e un sorrisino beffardo sulle labbra, ma gli occhi non mi prendono in giro: esprimono complicità.
“Non sono nessuno per giudicare le vie con cui si sceglie di raggiungere il Signore.” Aggiunge il pastore, con la sua voce bassa.
M’indica una panca.
“Però che ne dici di scegliere un modo più consono?” Mi chiede sedendosi.
Mi alzo lentamente da terra e, altrettanto lentamente, accetto la sua offerta, il tutto senza staccare lo sguardo dal suo sorriso pacifico, in cerca del minimo movimento che tradisca le sue intenzioni. Mi sistemo sulla panca per stare più comodo, cercando di nascondere la macchia sulla maglietta.
Il pastore mi squadra dalla testa ai piedi senza perdere l’aura di calma.
“Riuscito a scappare?” Mi chiede con nonchalance.
Continuo a fissarlo senza proferire parola.
E lui continua a sorridere.
“Spero non sia nulla d’illegale. A una prima occhiata direi bulli, ma qualcosa mi dice che non sia proprio così.” Prosegue, tornando a guardare il leggio davanti la grande croce in legno.
“Sai, anche io una volta ero come te.”
Ridacchio sarcastico, scuotendo la testa.
“Davvero. Anche io finivo in situazioni... oserei dire scomode. Anche io sono scappato più di una volta da persone arrabbiate.” Mi informa.
Il discorso.
Già, il discorso: quello che gli adulti fanno ai ragazzini disagiati per portarli sulla ‘retta via’, pensando di avere tutte le soluzioni ai nostri problemi.
Loro non sanno.
Sapevano, ma hanno dimenticato.
Perché quando si raggiungono le cifre tonde, si dimentica di quello che si provava il giorno prima.
A quanto pare, quando si soffia sulle candeline, prima si dà una stretta di mano e poi si sparaflasha il festeggiato.
Lui, di sicuro, non ha la soluzione ai miei problemi. E giuro che mi alzo e me ne vado se solo suggerisce...
“...ma poi ho conosciuto la parola del Signore, che mi ha illuminato la strada e mi ha mostrato i suoi errori.” Conclude, tornando a guardarmi.
Come volevasi dimostrare.
Il silenzio cala fra di noi. Mi schiarisco la gola e tiro su con il naso, prima di alzarmi e avviarmi verso l’uscita.
“Chiacchierata interessante e tutto quello che vuole, ma grazie, no grazie.” Dico avvicinandomi alla porta.
“Il Signore ha a cuore tutti i suoi figli, accoglie a braccia aperte le pecorelle smarrite.” Tenta di convincermi con i soliti cliché.
“Oh sì, non lo metto in dubbio, ma sono io a non essere tanto convinto a scaraventarmi fra le sue braccia. Alla fin fine, è anche un po’ colpa sua se mi trovo in questa situazione.” Commento con una nota di disprezzo.
“Non proprio colpa sua. Insomma, il vecchio non mi fa antipatia… è il suo fandom che non sopporto. Ma non sono nemmeno troppo contento di alcune canon dei suoi libri. Quindi grazie, ma rifiuto l’offerta e vado avanti.” Concludo aprendo e uscendo sui gradini.
“Comunque, buona giornata!” Saluto, chiudendomi la porta alle spalle.
Non aspetto una risposta, tiro dritto verso casa, guardandomi casualmente dietro per controllare di non essere seguito.
Non so con certezza se quel commesso sia ancora nei paraggi, saranno passati sì e no cinque minuti, dieci per arrotondare in eccesso.
Velocizzo il passo in ogni caso, voglio assicurarmi che Alex ce l’abbia fatta. Fortunatamente, il piano prevede che, in caso di fuga, ci si debba ricongiungere a casa il prima possibile.
Se passa più di un’ora dal momento in cui ci si divide, vuol dire che l’altro è stato preso.
In quel caso... il piano finisce qui, non abbiamo deciso che fare.
Arrivato al cancello, la macchia sulla mia maglietta si è asciugata.
Entro a casa e mi dirigo verso il laghetto delle papere, il nostro punto d’incontro.
Esatto, laghetto delle papere.
Perché è facile perdersi in 80 acri di parco, quali sono quelli di Liberty Park, quindi serve un punto di riferimento non troppo affollato, così da ritrovarci subito.
Insomma, Liberty Park è pur sempre il secondo parco più grande di Salt Lake City.
Non ci manca niente, qui: abbiamo il bagno, un posto per mangiare, una piscina, svariati campi da tennis, basket e anche bocce, per quando ci si sente pensionati.
Se ci si pensa, vivere a Liberty Park è un po’ come vivere in una di quelle ville ultralussuose in California. Una piccola differenza sta nel fatto che casa nostra sia pubblica e che non è proprio legale dormirci dentro... però abbiamo una ruota panoramica, Bill Gates può dire lo stesso?
Non credo proprio.
Punto a noi e palla al centro.
Tiro un sospiro di sollievo quando scorgo Alex aspettarmi sulla sponda del laghetto.
Appena mi vede, si avvicina.
“Tutto bene?” Chiedo.
Annuisce, guardando ancora una partita di basket che si sta svolgendo nel campo vicino a noi.
“Sì. Il negozio di dischi sulla 900S era aperto, ho pensato che il commesso del 7-Eleven non avrebbe avuto il tempo di cercarmi là. In compenso ho visto che il nuovo disco degli Imagine Dragons è già uscito.” Mi informa.
Alzo un sopracciglio.
“Vendono anche CD? Pensavo vendesse solo vinili, quel posto.” Commento fra me e me.
Alex alza le spalle.
“E poi, perché guardi vinili? Non abbiamo un giradischi, non ha senso.” Continuo.
La mia controparte mi lancia uno sguardo di rimprovero.
“I vinili e i CD non sono fatti solo per essere ascoltati. Ok, anche per essere ascoltati, ma sono soprattutto il sogno degli amanti della musica. C’è qualcosa di speciale e mistico nel tenere un vinile in mano, come se riuscissi a toccare la musica e l’impegno che l’artista ha messo nella sua creazione.” Afferma, gli occhi persi nella contemplazione di un disco immaginario fra le sue mani.
Gliele abbasso.
“Va bene, non iniziare.” Imploro, sperando che non continui il suo discorso sulla musica. Se inizia a parlarne, è inarrestabile.
Per carità, adoro la musica e adoro discuterne, ma chiunque si stancherebbe a sentire le stesse parole per la centesima volta.
“Andiamo in bagno, voglio cambiarmi la maglietta. L’odore di dentifricio mi sta facendo venire la nausea.” Affermo, tirando Alex per un braccio.
Mi segue senza opporsi.
Prima di entrare in bagno, passiamo dalla ruota panoramica, dietro la quale nascondiamo di solito gli zaini con la nostra roba.
Alex chiude la porta e vi poggia la schiena per bloccarla mentre io mi cambio.
“Abbiamo rischiato grosso, oggi. Quello poteva prenderti.” Commenta Alex, guardandomi lavare la maglietta nel lavandino.
“Lo so. Ma non mi ha preso, giusto?” Ribatto, senza smettere di strofinare la macchia.
“Dobbiamo stare più attenti, la prossima volta. Sai che c’erano telecamere, al 7-Eleven?” Continua con tono allarmato.
“C’erano? Non le ho viste.” Rispondo impensierito.
“Avranno filmato tutto. Potrebbero aver visto i nostri volti. Togli il ‘potrebbero’, hanno sicuramente le nostre facce.” Ecco, sta entrando nel panico.
Strizzo la maglietta, le gocce d’acqua formano una cascata nel lavandino.
“Ci possono riconoscere, Noah. Siamo spacciati, finiremo in galera. E in galera chiameranno i servizi sociali e ci manderanno in un’altra casa-famiglia e sarà tutto punto e a capo.” La sua voce si alza di un’ottava per la paura.
Poso la maglietta e prendo Alex per le spalle, stringendole.
“Alex, va tutto bene. Anche se hanno i nostri volti, non ci possono riconoscere, non siamo nel database. Almeno… non in quello di Salt Lake City. Andrà tutto bene, non succederà di nuovo. Ok?” Dico rassicurante, spostando lo sguardo sui suoi occhi.
“E se controllassero anche il database di Riverton?” Chiede.
Scuoto la testa, ridendo.
“Perché mai dovrebbero vedere il database di Riverton? Alex, andrà tutto bene. Fidati di me, calmati.” Dico, addolcendo il tono.
Le sue spalle si rilassano, finalmente. Le lascio andare e torno al lavandino.
Continuo a lavare la maglietta, mentre tra noi cala il silenzio.
Non ho visto le telecamere, avrei dovuto fare più attenzione.
Odio rubare.
Odio vivere la mia vita come un criminale e mettere gli altri nei guai. Soprattutto, odio mettere in pericolo Alex.
Ne ha passate tante e ha ancora quindici anni. Io, che sono un anno più grande, mi sento come un fratello maggiore nei suoi confronti, fa uscire il mio istinto protettivo.
Non voglio che ritorni in quella casa-famiglia a Riverton o in un posto simile. Non posso permetterlo.
Vengo riscosso dai miei pensieri da un commento di Alex.
“Sai che stanno aprendo un nuovo rifugio per senzatetto?”
Mi giro verso la mia persona preferita.
“Pensavo non volessi più andare in un centro d’accoglienza, non dopo che abbiamo rischiato la denuncia ai servizi sociali.” Rispondo, strizzando nuovamente la maglietta.
“Questo è diverso: è un centro per giovani appartenenti alla comunità LGBTQ+.” Specifica, pronunciando la sigla con una disinvoltura che soltanto l’abitudine può dare.
Non rispondo, sbatto la maglietta per togliere i residui d’acqua.
“Magari, se stavolta spiegassimo la nostra situazione, forse ci potrebbero aiutare...” Propone, la speranza palpabile nel suo tono.
Mi volto e appoggio un fianco sul lavandino, mentre piego la maglietta umida alla bene e meglio.
“Non lo so, Alex... preferirei mantenere un profilo basso per un paio di giorni, giusto per precauzione. Vorrei evitare di mettere in giro i nostri nomi, mi capisci?” Spiego, posando la maglietta sul lavandino e indossandone un’altra.
Alex non ribatte, mi fissa implorante.
Alzo gli occhi al cielo, incapace di guardare. Mi premo due dita fra gli occhi.
“Quando aprirà il rifugio?” Chiedo, arrendendomi.
Sorride.
“O domani o dopodomani, non ricordo. È sulla Milton Avenue.”
Tiro su con il naso, creando un attimo di suspense prima di rispondere.
Alex apre le braccia per l’impazienza, facendomi segno di decidermi.
“Ok, ci passiamo domani. Ma solo a titolo informativo, va bene?” Aggiungo prima che si possa fare strane idee.
Alex mi mette un braccio al collo.
“Sapevo avresti preso la decisione giusta. Adesso, usciamo da qui. Voglio andare in piscina, sto morendo di caldo.” M’informa, spingendomi fuori dal bagno.
Posiamo gli zaini nel nostro solito nascondiglio.
“Chi arriva per ultimo paga uno slurpee all’altro?” Mi propone.
Aggrotto le sopracciglia.
“Ma io non voglio uno slurpee.” Ribatto.
Alex sogghigna.
“E chi ha detto che avresti vinto tu?”.
Detto questo, mi dà una spinta e si mette a correre.
 
  
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