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Autore: yonoi    10/04/2018    9 recensioni
Un antico camposanto posto sulla sommità di uno sperone roccioso: è il cimitero monumentale della Rupe, detto anche l'Isola dei Morti. Un luogo che appartiene all'eternità, che un lago silenzioso separa definitivamente dal mondo dei vivi. Tra austere cappelle familiari, sepolture vegliate dagli angeli, un sacrario dedicato ai caduti di guerra, gli abitanti della Rupe vivono il quotidiano della morte rievocando il passato, attendendo una visita o cercando di riconciliarsi con se stessi, come il Suicida per la vergogna e il soldato semplice Ruhe. Soprattutto, lasciandosi risanare dalla musica di Aldo Gorini, virtuoso del violoncello, che ha scelto di dimorare alla Rupe per rimanere accanto alla moglie defunta. La storia di un amore che vince la morte, dell'amicizia tra due giovani, della loro rinascita e del lento cammino verso l'Eternità.Prima classificata al contest True Colors (of Your Life) indetto da Laodamia94 sul Forum di EFP, a pari merito con "Like a bridge over troubled water" di Setsy
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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L’anima sceglie i suoi compagni
E poi chiude la porta (…)
Sa che da tutto il mondo
Può scegliere uno solo:
chiude le valve, poi, dell’attenzione
come fossero pietra”
(Emily Dickinson, The Soul selects her own Society)
 

            2. La materia dei sogni

 
            Le sonate per violoncello di Aldo Gorini, che alla Rupe facevano il tutto esaurito e che persino noi cipressi ascoltavamo con la resina agli occhi, commossi insieme alle anime, avevano accompagnato la sua vita con Emily, ma ancor prima la stessa esistenza del Gorini: diplomato al conservatorio, insegnante e concertista, al suo sapere aveva dedicato anni di studio, di esercizio perseverante e difficile. Non si trattava di semplice virtuosismo: la musica era qualcosa che Aldo Gorini possedeva nell’anima, per diritto di nascita.
            Quando era appena nato, l’ascolto di un brano era sufficiente a tranquillizzarlo: cessavano i pianti, le colichette intestinali, i dolori di crescita quando i denti da latte iniziavano a spuntare. Da bambino, la musica aveva continuato a cullarlo tra le sue braccia calmando la tristezza, la paura del buio e delle cose strane che cela l’oscurità.
            Il primo incontro con lo strumento destinato a segnarlo per il resto della sua vita, risaliva a un pomeriggio trascorso nella casa di una prozia eccentrica, tra pezzi di antiquariato e oggetti bizzarri ammucchiati un po’ ovunque. Giocando a nascondino in un giorno di pioggia, dietro a un mucchio di cornici ammucchiate in soffitta, il piccolo Aldo Gorini di quattro anni s’era imbattuto nel violoncello della prozia: lì per lì gli era sembrato una gigantesca chitarra, una sorta di cassapanca con le corde. Attratto dall’odore di cera e di buono, che si intuiva anche sotto a un pesante strato di polvere, s’era dimenticato persino di nascondersi.
            Sopraffatto dalla timidezza che si prova di fronte alle cose nuove, e che è l’altra faccia del fascino, aveva dovuto racimolare tutto il suo coraggio per allungare un dito e sfiorare le corde: ne era uscito un suono come di molle, come quando si salta con i piedi sul letto per rimbalzare sempre più in alto: quell’unica nota fu sufficiente a farlo scoprire dai suoi compagni di nascondino, che in breve lo raggiunsero con schiamazzi e spintoni.
            Di seguito, il piccolo Gorini si era completamente estraniato dal gioco, e aveva cominciato a fare domande. La prozia da ragazza era stata una musicista, e non le pareva vero di recuperare dall’oblio quello strumento dalle note struggenti, cariche di ricordi. Era stata lei a insegnare al piccolo Aldo, che all’epoca arrivava a malapena al ricciolo della tastiera, a leggere le note e a tenere l’archetto. A cinque anni, Gorini s’innamorò completamente dello strumento. Fu un amore che possedeva tutte le caratteristiche dell’assoluto. L’intensità della passione lo fece diventare adulto in breve tempo, educandolo alla serietà e alla pazienza. Era disposto a sopportare qualsiasi cosa, pur di imparare a suonare.
            Lunghe ore di solitudine e di esercizio, di studio e ripetizione del medesimo brano, di frustrazione per non riuscire a eseguire un passaggio: tutto ciò era nulla in confronto all’ebbrezza, alla pura emozione di sfiorare le corde nella giusta posizione e con la giusta tensione, per trarne quel suono che vibrava così profondamente con la sua anima. Riuscire a farlo nel modo più esatto, fino alla perfezione: quello era lo scopo della sua vita solitaria, completamente dedita alla sua arte.
            A volte piangeva per lo scoraggiamento: a mortificarlo non erano tanto i rimproveri della prozia, quanto l’umiliazione di non riuscire a far bene. La perfezione era ciò che ricercava, e non aveva ancora dieci anni.
            Nel frattempo, la musica lo formava anche fisicamente: non attese neppure l’adolescenza per levarsi in altezza, in modo da poter dominare lo strumento. Le dita si allungarono, acquistarono una delicatezza straordinaria, sapienza e leggerezza nel destreggiarsi con l’archetto e la tastiera.   
            La strada per il conservatorio cominciava a delinearsi come un orizzonte certo, diritto e senza ostacoli. Eppure fu in quel periodo che iniziarono i contrasti in famiglia: finché si trattava di un passatempo, la musica era senz’altro preferibile all’ozio. Pareva però eccessivo farne una ragione di vita. Per far contenti i suoi e dare lustro a una vecchia tradizione di famiglia, il giovane Gorini fu persuaso a entrare all’Accademia militare: partì con un esiguo bagaglio e col violoncello, e questo diceva già tutto.
            Da allievo ufficiale, avvizzì per due anni sotto il peso di una disciplina di cui non comprendeva né lo scopo né il senso. Lui, che ben conosceva l’inflessibilità e il rigore, e sapeva abbracciarli con tutto se stesso quando si trattava della sua arte, trovava gli stessi principi inutili e irritanti, quando erano applicati alla vita militare.
            Decisamente, non possedeva l’anima del soldato: non riusciva a risolvere i quesiti di strategia, a montare le armi, a decifrare la meccanica della guerra. Per l’allievo ufficiale Gorini, il periodo dell’Accademia si risolse in una serie di punizioni e consegne, rimproveri umilianti e votazioni pessime. Come capita a volte, quando i panni del giorno sono così stressanti da non riuscire a liberarsene neppure di notte, finì per soffrire d’insonnia.
            Nella camerata che fluttuava simile a una risacca, al soffio del respiro ritmico dei cadetti, Aldo Gorini vegliava in preda a quei sogni che il buio rendeva ancora più grandi, inderogabili e pressanti. Lottava contro di essi sempre più debolmente, finché si decideva a levarsi dalla branda: sulla punta dei piedi, più per l’enormità di quel che andava a fare che per il terrore d’essere sorpreso dal piantone, attraversava i corridoi fino a raggiungere uno dei locali più isolati. Da un nascondiglio che nessuno scoprì mai, prendeva il violoncello e un gruppo di spartiti: tirava finalmente un sospiro di sollievo, e suonava fino all’alba.
            Di giorno, recuperava a stento i suoi soliti panni di allievo insofferente, senza infamia e senza lode. La stanchezza accumulata durante quelle sessioni musicali notturne rendeva ancor più difficile per lui restare sveglio durante le lezioni: sicché l’allievo Gorini spesso si addormentava, con buona pace degli insegnanti e di un’infinita serie di punizioni.
            Per consolarsi, nelle ore di libera uscita frequentava i concerti.
            In quel periodo di infelicità assoluta, mentre il suo spirito deperiva, per puro paradosso il fisico di Aldo Gorini si era irrobustito. Si avviava all’età adulta nelle forme di uno strano e affascinante connubio di rigore e di sogno. Del militare aveva l’aspetto longilineo, prestante e allineato. Ma i grandi occhi grigi erano sempre dolci, e sotto ai capelli rasati con la sfumatura alta, l’allievo ufficiale Gorini possedeva l’orecchio assoluto: quella particolare sensibilità musicale che permette di riconoscere una nota dopo averla udita solamente una volta.
            Oltre all’orecchio, Aldo Gorini possedeva in realtà anche un occhio assoluto, capace di cogliere in maniera infallibile la bellezza: nel suo caso, lo sguardo comunicava direttamente col cuore, sicché per Aldo Gorini vedere la bellezza significava innamorarsi, perdutamente e per sempre. Questo fu esattamente quello che accadde quando incontrò per la prima volta, a un concerto, la violinista danese Emily Olsen.
            La serata era dedicata alla musica per archi: si trattava del saggio di fine anno di un gruppo di studenti del conservatorio, che suonavano con molta emozione, tantissimo impegno e con qualche talento.
            Non si trattava di un’esecuzione di particolare pregio. Eppure, quella sera il giovane allievo ufficiale rimase conquistato dall’esile violinista, che tesseva col suono le atmosfere magiche del suo paese dai lunghi inverni: e mentre l’ascoltava, vide scorrere innanzi a sé foreste e pianure che cambiavano colore al passaggio delle nubi, fattorie dai tetti inclinati per fare scivolare la neve d’inverno, cieli di madreperla che scorrevano lenti, specchiandosi nei canali. Si perse in un oceano frastagliato di isole e da banchi di ghiaccio: udì il fragore dei flutti che s’infrangevano sugli scogli, su rocce dello stesso candore della pelle di Emily Olsen.
            Amò da subito la lunga schiena di lei, le lentiggini a gruppi, simili a minuscoli sistemi solari. L’ovale del volto e i lunghi occhi da asiatica, colmi di una malinconia che pareva molto più antica della stessa ragazza: come un’eredità giunta a lei da molte vite. Come un presentimento, forse, di brevità.   
            Terminato il concerto, Aldo Gorini fu colto dal medesimo senso di ineluttabilità che all’età di cinque anni lo aveva spinto a supplicare la prozia d’insegnargli a suonare. A vent’anni e sei mesi si concesse una replica: raggranellò tutto il fegato che ancora gli restava e a testa alta, bello nell’uniforme che per la prima volta gli stava tornando utile, si fece strada dietro alle quinte, fino al camerino di Emily Olsen.
            Ancora non lo sapeva, ma quella sera Emily aveva suonato solamente per lui.
            Durante il concerto, e sebbene la sala fosse gremita dalla presenza di amici e conoscenti, compagni di studi e insegnanti, persino i genitori giunti apposta dalla Danimarca, a un certo punto la ragazza aveva percepito un calore particolare attorno alle spalle, simile a un abbraccio. 
            Si era guardata intorno con la coda dell’occhio, sforzandosi di restare attenta allo spartito e non perdere il filo: aveva intercettato gli occhi lucidi di sua madre, il cipiglio dei professori, i cenni di saluto di un gruppetto di amiche.
            Poi aveva visto lui, taciturno e in disparte. Il volto severo e un po’ triste, eppure permeato da una dolcezza sognante. Da lì, aveva compreso a chi apparteneva quello sguardo posato come una mano sulle sue spalle, a infonderle sicurezza e protezione.
            Al termine del saggio, esauriti gli applausi, le foto di gruppo e i saluti, Emily si era ritrovata sola nel camerino. Priva di quel tepore con cui lo sconosciuto l’aveva abbracciata solo con i suoi occhi, la giovane musicista s’era sentita triste e infreddolita. Dopo aver riflettuto, pur sapendo di venir meno a ogni regola di convenienza, decise di andare a cercarlo tra il pubblico.
            Di fatto non fece in tempo a uscire dal camerino, perché nel momento esatto in cui aprì la porta trovò Aldo Gorini di fronte a lei, sulla soglia. Emily si sentì avvolta dalla presenza di lui: in breve si ritrovò di nuovo tra quelle braccia, che questa volta erano solide e in carne e ossa.
            Si sposarono esattamente sei mesi dopo.
            Poco prima, Aldo Gorini aveva formalizzato il proprio ritiro dall’Accademia, s’era trovato un lavoro qualsiasi, soprattutto si era iscritto al conservatorio. Durante un burrascoso Natale in famiglia, dinanzi allo stato maggiore dei parenti riuniti aveva precisato che l’uniforme gli era servita il tempo necessario per trovar moglie, e adesso era sua intenzione realizzare due cose: diventare musicista e accasarsi quanto prima. Il padre, due zii e sette cugini, tutti ufficiali in carriera o in pensione, all’inizio non l’avevano neppure preso sul serio: poi erano iniziati i soliti discorsi sulla vita militare che forma il carattere, sulla presunta mancanza di spina dorsale di chi invece si dedica a strimpellare il violino, il violoncello e chissà che altro. Infine, notando che il giovane non cedeva, i parenti si erano infuriati sul serio. Il più alto di grado era il marito della prozia, colonnello a riposo:
            “Che razza di bestialità mi tocca sentire… rinunciare al proprio onore per un inutile sogno.”
            Forte della sua scelta, reso ancora più forte dalla disciplina coltivata fin da bambino con lo studio della musica, e in seguito subita come un’angheria in caserma, il giovane Gorini si riteneva ormai temprato a sufficienza contro ogni disprezzo. Lui che la fedeltà, la perseveranza e l’assoluta dedizione le aveva nel sangue, era pronto a dar prova del proprio spirito, poiché ne conosceva la segreta grandezza:
            “Il mio onore sono i miei sogni. Del resto, tutti noi siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni. Spesso la nostra vita non dura neppure più a lungo.”          
 
******
 
            Dal lago, ormai completamente immerso nell’oscurità, la notte cominciava a salire verso la Rupe: la brezza recava l’odore dei canneti, delle ninfee che al tramonto chiudevano le dita per prepararsi al riposo.
            Sul pelo dell’acqua, il volo delle libellule era l’ultima scintilla rimasta dal giorno.
            Seduto su una seggiola fuori dal mausoleo, il volto cancellato dall’ombra e le dita bianche che a malapena spiccavano sulla tastiera, Aldo Gorini eseguiva un assolo per Emily: e nella musica metteva tutto quanto il suo cuore. Senza che lui potesse vederle a causa del buio, e perché in fin dei conti erano puri spiriti, alcune anime si attardavano ad ascoltare, sedute sui gradini freddi del mausoleo e sui prati vicini.
            Nel campo dei bambini, i piccoli già dormivano in braccio alle madri. Le coppie anziane si erano ritirate, prima che l’oscurità fosse troppo profonda per riuscire a vedere la strada senza inciampare.
            Nei pressi del mausoleo due piccole braci tremavano, e solo da vicino le si vedeva appese, ciascuna, a due dita. Solamente accostandosi a quel fragile tremolio, si notavano dietro alle braci due volti giovani, dagli occhi splendenti, che reggevano mozziconi di sigarette.
            Erano due dell’Isola, un uomo e un ragazzo giovane, che fumavano insieme.
            Avevano fatto amicizia da poco. In comune avevano la morte prematura, che a quanto si diceva era avvenuta per suicidio. L’uomo era l’ultimo arrivato alla Rupe, e come tutti coloro che se n’erano andati in maniera improvvisa era ancora turbato, a tratti pieno di rabbia: probabilmente era convinto di essere ancora vivo, e immerso fino al collo in tutti quei problemi che lo avevano spinto, da ultimo, a farla finita. Lo si capiva da come sviava lo sguardo quando qualcuno dell’Isola provava ad avvicinarlo.
            Noi portavamo pazienza, sapendo che la morte è un’abitudine che richiede del tempo: specie quando arriva all’improvviso e prima del previsto.
            Nell’attesa che il nuovo riuscisse ad ambientarsi, gli abitanti della Rupe gli avevano appioppato una sorta di soprannome, di cui l’interessato era tenuto con molto tatto all’oscuro. Pareva tormentato da colpe inconfessabili, da cui non era riuscito a liberarsi neppure con la morte: per questo motivo, alla Rupe lo chiamavamo il Suicida per la vergogna.
            Trentacinque anni, fascinosa presenza, una carriera avviata come attore del cinema: un volto raggiante che pareva fatto apposta per stare sulle copertine delle riviste, sui poster nelle stanze pitturate di rosa e azzurro delle ragazze. All’apice del successo era stato travolto da una serie di accuse, di seguito aggravate da perquisizioni e sequestri, denunce e richieste di danni: come se all’improvviso si fosse aperto un rubinetto inesauribile d’infamia, che buttava senza freno e senza possibilità di riuscire ad arginarlo.
            A rendere più grave tutta la situazione c’erano le prove, numerose e schiaccianti: c’era la verità, che lui conosceva bene e teneva nascosta da qualche parte nel cuore.
            Di questa verità, adesso, gli toccava portare il peso per intero.
            Presto scoprì che quel peso era insopportabile.
            In breve perse il lavoro, la casa e tutto il resto. I produttori della serie che l’aveva portato al successo lo licenziarono in tronco. Il direttore gli venne incontro personalmente, sulla porta degli studi televisivi, di fatto per impedirgli di varcare la soglia.
            Nelle ore successive, tutti i contratti che aveva sottoscritto caddero come tessere di un domino dell’orrore, cancellati uno dopo l’altro in una corsa inarrestabile verso il disastro. Le case produttrici diramavano comunicati per prendere le distanze, e assicurare al pubblico che il futuro Suicida per la vergogna non avrebbe messo più piede, neppure per sbaglio, nei loro set cinematografici, televisivi e pubblicitari: da quel momento in poi, neanche la réclame di un cibo per cani sarebbe stata funestata da quella presenza sepolta nel biasimo, come da una colata indistruttibile di cemento. 
            Un’altra soglia che gli fu impedito di varcare fu quella di casa sua: senza tanti preamboli, trovò le valigie pronte sul vialetto d’ingresso. Gli avvocati che lo attendevano al varco, insieme all’incaricato del Tribunale per i minorenni e a un numero imprecisato di assistenti sociali, gli impedirono di entrare per salutare i suoi figli.
            Nei giorni seguenti, mentre la moglie presentava una domanda di divorzio con addebiti milionari, il futuro Suicida ebbe modo di verificare sulla sua pelle quanto poco contasse l’amicizia nel suo ambiente. Non trovò nessuno disposto a rimetterci la faccia anche soltanto per scambiare due parole, tanto meno qualcuno disponibile a ospitarlo. La scusa era sempre la stessa:
            “Ho figli”, che poi voleva dire “ho una famiglia da mantenere, che faccio se mi annullano tutti quanti i contratti?”. Oppure: “ho dei bambini e voglio che tu stia alla larga. Prima di avvicinarti, devi passare  sul mio cadavere”.
            Gli unici ad accoglierlo furono infine i nonni che l’avevano cresciuto. Il nonno ormai vagava nella quieta indifferenza della demenza senile: e la nonna era troppo occupata ad accudirlo come un neonato vecchio, a cui cambiare il pannolino e impedire di farla dentro a una pentola, per poi metterla in frigo. Complici la demenza, da un lato, e la saggezza, lo accolsero con la semplice serenità di un tempo: ma neppure con loro il futuro Suicida si sentì libero di abbandonarsi alle lacrime, perché avrebbe dovuto spiegare troppe cose. 
            Quel pianto soffocato gli restò dentro, a bruciare. E lo bruciò a tal punto che era già quasi morto la notte in cui uscì dalla casa dei nonni, dopo avere lasciato una carezza sulla fronte diafana e completamente pazza del nonno, sui ricci che la nonna aveva fatto acconciare dal parrucchiere, come andava di moda al tempo della sua giovinezza.
            L’aspirante Suicida vagabondò a lungo nella solitudine di quella notte: era un sabato sera affollato, e in centro si proiettava il suo film più recente. Passò accanto al cinema solo per ritrovare il suo viso ritratto nelle locandine pubblicitarie, e rivederlo al tempo in cui era ancora limpido, con le guance abbronzate, l’espressione trasognata e entusiasta. 
            Non si era trattenuto a lungo, per il timore di essere riconosciuto dalla folla che pure si accalcava dentro e fuori dalla sala. Paradossalmente, gli avvenimenti recenti avevano fatto da cassa di risonanza: al cinema c’era il tutto esaurito, e quel film si avviava a diventare campione d’incassi. Mentre si allontanava, era stato fermato da una ragazza. Aveva l’aria dimessa, il volto consumato dalla fatica di chi lavora molte ore al chiuso, e riposa pochissimo:
            “So chi è lei”, aveva detto la giovane, “è il mio attore preferito e io la seguo da tanto tempo. A quattordici anni sono rimasta incinta, ho dovuto lasciare la scuola e iniziare a lavorare per mantenere mio figlio. C’è stato un periodo in cui ho fatto due lavori, in fabbrica al mattino e le pulizie la sera, in un condominio grandissimo. Poi ritornavo a casa, ed ero talmente stanca da non riuscire a riposare per i dolori alle gambe: davo da mangiare al bambino, lo facevo addormentare, poi guardavo i suoi telefilm. Quello era un momento solamente per me: mi faceva sognare. Lei mi ha fatto compagnia in quei momenti difficili, in tutta quella fatica. Glielo volevo dire. Con tutto quello che sta succedendo, ci tenevo che lo sapesse.”  
            La giovane operaia gli aveva sorriso, e lui non era riuscito a sostenere il suo sguardo. Sentiva le lacrime pungergli gli occhi, ed erano così ardenti da sembrare di sale. Si era allontanato, senza riuscire a risponderle.
            Da quel momento in poi aveva smarrito la nozione del tempo, mentre prendeva forma quella decisione che poco prima l’aveva spinto ad uscire di casa, e a congedarsi dalle uniche persone che per follia o debolezza gli erano rimaste vicine: gli ultimi scrupoli scivolarono dalle sue spalle come inutili pesi, lasciando spazio a una sensazione di meraviglioso sollievo. Era come essere sciolto da cinghie pesanti, che fino a quel momento gli avevano penetrato di dolori la carne: ora che la sua scelta era finalmente compiuta, avvertiva una sensazione di benessere. Di più, non si era mai sentito così vivo.
            La notte era ormai avanzata, quando raggiunse un parco all’estrema periferia, che un ultimo steccato apriva sulla campagna: a un certo punto le aiuole diventavano prati, i viali si mutavano in sentieri e poi in semplici orme nell’erba alta. 
            Di là, si arrivava al lago: a una svolta improvvisa, la vista si apriva su un fazzoletto d’acqua e di ninfee immobili, protetto dal canneto e dalle colline intorno. I voli delle libellule e la curva dei pesci increspavano l’acqua di schegge lucenti. E al centro del lago, rinchiusa nella torre del proprio silenzio, si levava la Rupe.
            Il Suicida per la vergogna si addentrò nel parco.    
            A quell’ora non c’era anima viva: nell’aria già ripulita dai rumori e dalle ultime scorie della città, spiccava l’aroma dei cipressi e dei tigli, che agitavano le loro ombre nel buio.         
            Assaporando quella serenità nuova, ormai a un passo dall’essere tagliato fuori dal mondo, l’uomo sedette su una panchina. Ora doveva solo decidere il modo.   
            Si concesse il lusso di prendersi tutto il tempo del mondo.
            Ad attirare la sua attenzione fu un abete possente, al centro di uno spiazzo pelato dalle corse e dai giochi dei bimbi, che amavano arrampicarsi sui rami solidi e bassi. Poco più in là, era solida e resistente anche la corda che penzolava, rotta, da una delle altalene.
            Il seggiolino si arrotolava su se stesso, con un cigolio simile a un lamento.
            Quando l’uomo si alzò, nella luce lunare a picco sulla ghiaia il suo corpo era senz’ombra: come se avesse già perduto ogni consistenza, e di lui fosse rimasta solo la leggerezza.

 
 ******
 
            Malgrado il sollievo che aveva provato nei suoi ultimi istanti al pensiero di andarsene, il Suicida per la vergogna non era riuscito a trovare consolazione neppure nella morte. Era sua abitudine sedere sul monticello di terra ancora fresca dov’era stato messo a dimora per sempre, poggiando sulle ginocchia la testa e i pensieri: in un gesto che era di afflizione senza rimedio, e al contempo esprimeva la precisa volontà di non rivolgere la parola a nessuno.
            L’unica anima di cui tollerava la presenza era il soldato Ruhe, il tedesco sepolto al sacrario dei caduti insieme agli italiani: morto anche lui suicida in circostanze che non furono mai accertate, e che ormai risalivano a più di settant’anni prima. La loro amicizia era fatta di poche parole e di molti silenzi, di una vicinanza un po’ ruvida, nutrita dell’ascolto della musica di Aldo Gorini.    
            Timido e taciturno, con grandi occhi chiari in cui tremava una scintilla impaurita, anche di Ruhe si sapeva ben poco, sebbene fosse morto da tempo. Alla Rupe girava voce che si fosse tolto la vita perché, a soli sedici anni, aveva già visto tutto e a un certo punto era impazzito. Non si sapeva come gli fossero andate le cose finché era rimasto nella città della sua infanzia, da qualche parte nel cuore di una Germania ormai prossima dalla disfatta: negli ultimi mesi del conflitto, coi boati del fronte che si avvicinavano sempre di più alle strade dove aveva giocato a pallone da bambino, Ruhe aveva prestato servizio nella contraerea, insieme ai suoi coetanei della Gioventù Hitleriana.
            Il cielo di quei giorni era un telo nero di sangue, di polvere e di fragore.
            Una volta disposta la chiamata alle armi per gli anziani e i ragazzi, Ruhe era stato arruolato senza avere neanche il tempo di salutare i suoi, sfollati nelle campagne: sulla porta di casa aveva lasciato un biglietto, Io sto bene - aspettatemi.
            In caserma, gli avevano rasato i capelli ancora più corti, e consegnato un’uniforme di due misure più grande. Una notte, il suo gruppo di adolescenti era stato tirato giù dalle brande, e condotto alla stazione ferroviaria: ancor prima di sapere qual era la destinazione, si era ritrovato su una tradotta cupa, riscaldata soltanto dalla massa dei corpi rannicchiati uno accanto all’altro. Anche Ruhe si era raggomitolato assieme ai suoi compagni, come pulcini impauriti sotto l’ala di nessuno.
            Al suo arrivo in Italia, l’avevano messo a sorvegliare un albero di impiccati. Quell’albero c’è ancora, sulla strada maestra che dal lago conduce al paese: è un abete argentato, dalla corteccia madreperlacea e la sontuosa capigliatura azzurra. Ai suoi piedi, una targa commemora i fatti del tempo di guerra. All’epoca aveva un nome carico di oscure suggestioni, l’albero di Natale dei beati ribelli: questi ultimi ovviamente fungevano da decorazioni, e venivano lasciati pendere come monito finché il tanfo non diventava insopportabile, oppure era necessario liberare qualche posto.
            I ribelli erano i partigiani locali, renitenti alla leva, disertori e civili rimasti presi nelle maglie dell’occupante. I loro corpi erano sfigurati dalle percosse, dalle torture e dal disprezzo. Compito delle guardie era impedire a chiunque di avvicinarsi: senza un’esplicita autorizzazione, i corpi non potevano essere consegnati neppure alle madri.
            Immerso nella natura splendida e indifferente del lago, in un silenzio insolito per lui che era abituato al crepitio incessante della contraerea, il soldato Ruhe faceva la guardia ai morti cercando di guardarsi attorno il meno possibile. Non l’avevano mai spaventato i corpi squarciati dalle esplosioni, ricoperti di polvere al punto da sembrare già sepolti da tempo. Ma i cadaveri dei torturati gli mettevano il panico: le donne con le gambe quasi divelte, i giovani come lui che dovevano esser stati impiccati da morti, tanto era il sangue che facevano da ogni parte, gli suscitavano pensieri perversi, incubi terrificanti. Nelle pause non riusciva a chiudere occhio. Era ossessionato dal fetore che si appiccicava ovunque: da quello stillicidio ininterrotto del sangue che scivolava dalle caviglie degli impiccati, dalle mani congestionate e contorte, legate dietro alla schiena con giri di filo spinato.
            Al termine di una lunga notte di guardia, mentre l’alba strisciava lenta sull’orizzonte, il soldato Ruhe si era allontanato dal suo posto di guardia. Aveva raggiunto un punto, sulla riva del lago, dove sopra di lui non rimaneva altro che il cielo stellato. Quindi aveva estratto la pistola d’ordinanza, se l’era puntata alla testa e dritto sull’attenti s’era fatto saltare il cervello.
            Insieme a Ruhe, quella notte, era di guardia il sergente maggiore Linder: un veterano imponente, con la scorza indurita dalle intemperie della guerra, dalle violenze subite e inferte. Fu lui a riferire che il suo subordinato si era tolto la vita senza alcun motivo apparente, dopo un turno di guardia assolutamente tranquillo. Con ciò, il soldato Ruhe aveva dato piena dimostrazione di non possedere la tempra per reggere un turno di guardia all’albero dei ribelli:
            “Così imparano a mandarci i ragazzini come rincalzi” aveva commentato Linder più tardi, durante una mano di carte con gli altri uomini del plotone. I commilitoni avevano preferito non dire una parola: di più, non avevano osato alzare dal ventaglio di carte neppure un sopracciglio.
            Conoscevano Linder abbastanza per sapere che era meglio non metterselo contro. Era un veterano di tutti i fronti possibili: era stato in Polonia e aveva partecipato all’invasione della Russia, aveva combattuto casa per casa a Stalingrado, e da ognuna di queste campagne aveva riportato intatta la pelle, lasciando indietro qualche brandello di umanità, un frammento di anima.
            Finché era giunto al punto di perdersi del tutto.
            Nei momenti di pausa, si divertiva a raccontare episodi di stupri ed esecuzioni di massa: il soldato Ruhe in quei casi si girava tutto nella coperta, e con la scusa del sonno si tappava le orecchie. Fingeva di dormire e si concentrava sul ricordo di sua madre affaccendata in cucina, dei fratelli più piccoli seduti attorno al tavolo con i libri di scuola.
            Rivedeva l’aula luminosa del suo liceo: il professore di latino passeggiava tra i banchi correggendo il compito in classe, alle sue spalle la lavagna coi gessi candidi e il cancellino felpato.
            Dalla finestra aperta le tende si torcevano in barbagli di luce, minuti scricchiolii di cicale incominciavano l’estate. Il fruscio degli alberi del cortile, gonfi di brezza
            Il soldato Ruhe ascoltava la voce sommessa delle foglie, che tintinnavano come monete argentate. Altre monete argentee dall’edificio di fronte, dov’era la sezione femminile dell’istituto.
            Ragazze alle finestre con le loro risate, una in particolare.  
            Sognava a occhi aperti, il soldato semplice Ruhe: e fu peggio per lui, perché non poté mai accorgersi di come Linder lo fissava in certi momenti. 
 
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