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Autore: giu95x    14/04/2018    2 recensioni
Storia partecipante all’Iniziativa “Easter Egg” indetta dal gruppo facebook LongLiveToTheFemslash.
Prompt: Lean back and search for me again
Dal testo:
«Quante volte?» Quelle parole rimangono sospese in uno spazio di tempo infinito che adesso mi sembra separarci. Ma lo so di aver capito bene, me lo sento!
Genere: Mistero, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La luna piena che risplende nel cielo. Gli alberi che sfrecciano veloci intorno a me. Le luci dei lampioni che formano delle scie. I fari di una macchina. Dopo c'è solo buio. Dopo ci sono solo io in una pozza di sangue. La macchina distrutta.

Chiudo gli occhi ed è di nuovo buio. Quando li riapro c'è qualcuno vicino al corpo dell'altro conducente. Ha i capelli lunghi, dorati, sfiora il corpo di quell'uomo. Mi guarda. Viene verso di me con passo deciso. È una ragazza. Ha la pelle bianca come la seta, i lineamenti sottili. Adesso è più vicina, io non riesco a muovermi, non so parlare. “Aiuto” è quello che grida la mia testa “Salvami”, ma non una sola parola esce dalla mia bocca.

La ragazza si avvicina, ormai è accanto al mio finestrino e anche lei si è accorta che la sto guardando. Ha due bellissimi occhi blu, quelli penso li ricorderò per sempre.

«A-i-u» non riesco a farmi uscire altro, ho la gola secca, la testa mi gira, il corpo non risponde. Lei mi guarda, gelida e impassibile. «Mi dispiace!» le sento sussurrare un attimo prima di sfiorarmi la guancia.

Dopo solo silenzio. Freddo. Buio.

 

Apro gli occhi. Il cervello sta per esplodermi in testa. La tasto automaticamente con entrambe le mani sperando di poter fermare questo dolore, ovviamente tutto inutile. Sono in un letto all'interno di una stanza che non conosco. Qui è tutto così...bianco. Che sia in ospedale? Tento di alzarmi e poggiare i piedi fuori dal letto ma la testa continua a martellare e il mio equilibrio ne risente.

Dopo vari minuti riesco nel mio intento, con fatica raggiungo il bagno. Anche qui ogni cosa è bianca e io non riesco ancora a riconoscere l'ambiente. Troppo ben curato per essere un ospedale. Mi avvicino allo specchio appoggiandomi a qualsiasi cosa. Una ragazza, capelli mori e lunghi, viso appuntito, zigomi pronunciati, occhi verdi. Non riconosco nemmeno lei. Muovo le dita affusolate, le muove pure il riflesso. Sono io, ma allo stesso tempo non lo sono. Allora chi sono? Dove sono?

Mi gira ancora di più la testa e devo sedermi nel water. Un conato di vomito sale prepotente, lo rovescio per terra rovinando quel magnifico pavimento.

Sento una porta aprirsi e dopo pochi minuti entra un uomo alto e robusto nel bagno. «Cristo santo!» esclama tenendomi i capelli e lasciandomi uscire gli ultimi residui del vomito. «Non ti dovevi alzare da sola.» «Dove sono?» chiedo mentre lui mi aiuta a riportarmi a letto. «Per ora riposa. Quando ti sveglierai mi troverai giù in cucina». Le mie palpebre gli ubbidiscono senza il mio permesso.

 

Le riapro ore dopo, almeno credo, non riesco bene ad orientarmi col sole. Dalla finestra entra una luce accecante, ma è la stessa di prima. Riesco a mettermi in piedi con meno fatica e scendo le scale, lo vedo in cucina intento a preparare qualcosa da mangiare.

Mi siedo al tavolo guardandomi intorno, sembra una casa come tutte le altre ma sono più che sicura che non sia la mia. «Ti ho preparato i pancake spero ti piacciano» si allarga in un sorriso. Ha due fossette nelle guance, un naso più grande di una pagnotta di pane e due occhi a mandorla adorabili.

«Grazie». Mangio in silenzio, veloce perché mi sembra di non mangiare da secoli. «Eri proprio affamata eh?!» dice ridacchiando mentre mi passa lo sciroppo che prontamente metto sopra il mio pasto. «Dove siamo?» «Tecnicamente a casa tua.» Vengo spiazzata da quelle parole.

Mi guardo intorno cercando di ricordare ma niente, questa non è casa mia e io non riesco a riconoscermi allo specchio. Ho perso la memoria, è evidente anche a me. «Forse hai ragione. Sai dirmi chi sono?» «Mmh, no. Per quello devi seguirmi all'ufficio smistamento. Ci andiamo appena finisci». Presa dalla curiosità e dalla fame finisco il mio piatto in meno di un minuto.

 

Quando usciamo da quella casa mi accorgo di essere in un quartiere molto carino e ben curato. Ogni casa è uguale all'altra. Le strade sono pulite, il cielo è limpido e illuminato da un sole che non riesco a vedere. «Questo posto, come si chiama?» «Siamo nella sedicesima strada, a mio parere è la più carina. Comunque io sono Max, molto piacere» mi porge la mano e io la stringo, ma purtroppo non ho un nome con cui rispondere. Mi sento estraniata, fuori luogo, incompleta. Ma allo stesso tempo sto bene, in pace.

La strada finisce in una grande piazza che a sua volta si dirama su più via. Max mi fa cenno di seguirlo per quella che credo sia la strada principale. Non è diversa dalla prima. La cosa che mi colpisce di più è l'assenza di persone. Dove sono tutti? Non ho il tempo di porgergli la domanda che un'enorme struttura simile ad un tempio greco si piazza davanti a me. “Dialogì grafeìo” campeggia sul cornicione. «Siamo arrivati».

Quando entriamo mi si para davanti la risposta alla mia domanda. L'atrio è pieno di gente, tutta vestita di bianco come me. C'è un grande chiasso, sono tutti disposti in file ordinate, da qui non riesco neanche a vedere per cosa.

Max mi prende per un braccio e mi trascina in una delle file «C'è da aspettare». Guardo la gente intorno a me. Hanno tutti la stesse espressione: Persa e confusa, come la mia.

Passano ore, credo, e finalmente arrivo di fronte allo sportello. Dietro c'è una donna con la gomma da masticare in bocca, un neo nel mendo grande come una noce e gli occhiali sopra al naso.

«Numero?» «16548» dice prontamente Max. la donna prende una cartella e la apre, dentro c'è la mia foto.

«Alison Porter.» Allora è questo il mio nome. Non me lo sento mio, non sono io, non sono più. Dove sono?

«Il braccio signorina» la donna allunga la mano verso di me e io faccio come richiesto. Mi mette un timbro che mi pizzica un po'. C'è un cerchio con all'interno due puntini e il numero di prima. Mi passa il fascicolo e mi dice che posso andare.

«Alison. È un bel nome» mi dice Max sorridente. Usciamo da quel luogo e lo spettacolo che mi trovo di fronte è mozzafiato. «Incredibile eh?!» Ci sono le nuvole, la gente sorridente che ci cammina sopra, bambini che si rincorrono ridendo. Ci sono due vecchi che passeggiano con le bici, altri due che giocano a scacchi. Una coppia si bacia passeggiando mano nella mano, un'altra fa un pic-nic. È in quel momento che mi investe la consapevolezza.

La luna piena che risplende nel cielo. Gli alberi che sfrecciano veloci intorno a me. Le luci dei lampioni che formano delle scie. I fari di una macchina. Dopo c'è solo buio. «Max sono morta, vero?» «Non c'è un modo carino per dirtelo».

 

Sono passati 3 mesi dalla mia morte. 3 mesi che mi trovo qui. Sto camminando leggera, saltello un passo si e uno no. Saluto tutti con un sorriso, loro fanno altrettanto. È tutto così in pace qui.

Rientro in casa decisa a prepararmi qualcosa da mangiare. Qualcuno guarda fuori dalla finestra. Una ragazza dai capelli dorati e gli occhi blu. Non l'ho mai vista e, inoltre, non è vestita come tutti gli altri. È vestita completamente di nero, con giacca di pelle, jeans e anfibi tutti abbinati. È la prima volta da quando sono qui che sono mossa dalla curiosità. «Ti piace stare qui?» mi chiede senza guardarmi. Io faccio dei passi nella sua direzione tenendo sempre le distanze, non rispondo. «Certo meglio qui che dall'altro lato» ridacchia tra se e se. «Ma a te piace?» si gira, mi guarda, mi fulmina. Io l'ho già vista.

«Si.»

«Davvero?»

«No!» ma chi è? Perché ho la sensazione di conoscerla? Perché, quando tutto qui mi sembra così estraneo, lei mi sembra di conoscerla? «Chi sei?» «Lo sai!» fa un passo verso di me, io ne faccio uno indietro.

«Alison, lo so che qui non ti piace. Cavolo a chi piace essere morto» dice alzando gli occhi «Il punto è che volevo farti sapere che non è stata una scelta mia. Sono obbligata. Lo sono ogni volta. Non volevo, ho solo fatto il mio lavoro. Puoi perdonarmi?» Sono rimasta immobile mentre lei si è avvicinata sempre di più. Ha lo sguardo dispiaciuto, sembra quasi che voglia piangere. Mi sfiora la guancia e ricordo. L'incidente, lei, quell'uomo. Non credevo che la morte fosse così bella.

 

Mi guarda come se aspettasse una risposta. Non che abbia molte riposte da darle, è andata così e basta.

«Ormai è fatta!» Adesso ha uno sguardo stupito, deluso direi. «Mi hanno insegnato che quando deve accadere accade. È tutto scritto nella guida» le indico il piccolo libro sul tavolo: “Il Paradiso e come sopravvivere”.

Ironico il titolo, almeno hanno senso dell'umorismo, anche se credo lo diano solo a chi è riuscito ad andare avanti. Io non ci ho messo molto a farlo, e poi non posso farci nulla, ma altri non la pensano come me e continuano a disperarsi come dei matti. Gridano tutto il giorno, piangono, tentano di buttarsi dalle nuvole al confine. Forse la loro è la reazione più normale. Forse quella anormale qui sono io.

«Fanculo il libriccino!» esclama la bionda prima di buttarlo per terra, «Lui e il suo dannato libro del destino. Pff, stronzo!» Mi porto le mani alla bocca come se avessi pronunciato io stessa quelle parole. Lei rotea gli occhi «Lo diresti anche tu se lo conoscessi.»

«Non credo!» dico decisa «E poi io lo conosco» alzo il mento in modo involontario. Lei mi guarda stupita. «Tu hai incontrato Dio?» «No! Però è sempre qui» mi indico il petto orgogliosa, «nel mio cuore».

Non so come definire la sua successiva espressione facciale, un misto tra disgusto e incredulità. Non mi degna neanche di una risposta che gira su se stessa uscendo dalla porta e va via e io mi ritrovo costretta ad inseguirla.

«Aspetta!» non mi sente, o almeno fa finta. Cammina veloce per la strada, un passo fiero e deciso. «Aspetta un attimo!» le corro dietro ma non so bene neanche io il perché. Mi spinge la curiosità di saperne di più, o forse la sua espressione, il suo sguardo glaciale che mi lascia una strana sensazione.

«Almeno dimmi come ti chiami» finalmente si ferma e mi rivolge lo sguardo. «Perché ti interessa?» sembra ferita, stanca. «Io voglio solo...» ho il fiatone e non riesco a parlare. «Per la prossima volta.» «Non so se ci sarà una prossima volta» mi dice senza mezzi termini.

Sono delusa in un certo senso, l'idea di poterla rivedere non mi dispiaceva. «Va bene». È normale, penso, sta su un altro livello. In fondo sono una semplice morta in un mare di morti.

«Non ne ho uno» sussurra piano. «Nessuno si è mai preoccupato di darmene uno» aggiunge. Sembra dispiaciuta e la capisco, non avere un nome è come non essere.

Mi ricordo del primo giorno qui, quando ancora non sapevo nulla di me o anche solo il mio nome. Certo, adesso so solo quello, per il mio passato mi hanno dato un fascicolo con tutta la mia storia. Lo sto leggendo piano, come se fosse un diario, ma non riesco a ricordare nulla. Continuano a dirmi che la memoria tornerà col tempo e io ci credo davvero, piano piano riesco a sentirmi sempre più vicina a quella persona di cui leggo pagine e pagine.

«Vuol dire che ne troveremo uno!»

«Non ha importanza.»

«Si invece!» dico convinta facendo l'ultimo passo che ci separa. «Il nome ti identifica!»

«Secondo te ho bisogno di essere identificata?» sghignazza e io mi blocco. Inizia a ridere come se avesse sentito la cosa più ridicola del mondo. «Tu hai capito chi sono, vero?»

Io sono entrata in una specie di stato di trance. Non sono capace di muovermi, o di dire qualsiasi cosa e lei capisce questo silenzio. Lei ha uno sguardo di sfida, ma a me sembra tanto una maschera.

Smette di ridere per avvicinarsi e sussurrarmi all'orecchio «Nessuno ha bisogno di chiamarmi per nome. Neanche tu!»

 

«Max tu lo sai come funziona?» guardo il mio angelo custode mentre è intento a tagliare dei pomodori appena raccolti. Se solo lo vuoi qui cresce di tutto. «Cosa?»

Giocherello con le dita sul tavolo, voglio ponderare la domanda perché non so se sia lecita. «Dico, questo...il paradiso. Come si decide chi muore e chi no?»

«Non hai letto la guida?»

«Si, parla solo di un libro del destino. Non dice molto.» Confesso di essere particolarmente delusa da quella guida, non dice praticamente nulla, spiega solo la suddivisione degli spazi e il ruolo delle varie caste angeliche. Interessante, sicuramente, ma non risponde alle domande più importanti.

Max non si gira, il rumore del coltello si fa più netto e distinguibile. «Non ti basta sapere questo?» Il “tac” del coltello, le lancette, il ventilatore che gira, riesco a percepire ogni minimo rumore in questo istante. Il tono dell'angelo è freddo, non vuole sentire altre risposte se non una.

«Certo! Era così, per parlare».

 

Max è un bonaccione, uno di quelli che da tutto se stesso per gli altri. Ma fa parte del suo lavoro. È stato assegnato a me quando sono morta e per almeno sei mesi sarà la mia guida qui. Però riesco a capire quando ci sono argomenti che è meglio non affrontare, Dio è uno di quelli.

Non si è mai parlato di lui, è come una figura che sai di per certo che c'è ma ti è impossibile vederla. Un po' come il CEO di una grande azienda.

Prima non ci pensavo. Prima di quella mattina, di quell'incontro con la bionda, io non ci pensavo, ma adesso è diventato un pensiero costante. Sono mossa dalla curiosità di saperne di più, voglio sapere chi e come hanno deciso che io debba essere qui e non giù, viva, in mezzo a tutti gli altri.

 

Mi alzo dal letto per aprire le tapparelle della finestra e far finta che sia mattino. Qui è sempre giorno, ma non è sole quello che brilla e che illumina tutto. È una strana luce bianca che non si sa da dove proviene. Almeno io non lo so, tanto meno i miei vicini di casa.

«Buongiorno Alison! Bella giornata vero?!»

«Buongiorno a lei Mister Frank! Come sempre!» Australiano, 76 anni, morto per infarto.

Sono le prime cose che si leggono sul fascicolo. Statunitense, 24 anni, morta in un incidente stradale. Sono le prime righe del mio.

Torno in casa col giornale in una mano e la tazza di caffè fumante nell'altra. Non lo leggo mai in verità il giornale, lo lascio sempre a Max che ne va pazzo, io mi limito a prenderlo per fargli un favore. E poi aspetto, aspetto che arrivi, parliamo un po', controlliamo l'orto, prepariamo il pranzo e il pomeriggio non è poi tanto diverso.

Guardo la guida sopra la credenza. “Fanculo il libriccino” ha detto lei. E se avesse ragione? Se dovessi fregarmene di quei consigli?

  1. Uscire sempre accompagnati dal proprio angelo custode” recita uno.

Fisso la guida, Max starà per arrivare. Al diavolo! Prendo il primo giubbotto che trovo ed esco. Non che faccia freddo, qui non esiste temperatura. Puoi metterti in pantaloncini e maniche corte o stare imbottita con sciarpe e cappelli, non fa nessuna differenza.

 

Vado in uno dei grandi giardini che mi ricordo esserci in questa zona. È fatto di erba, erba vera all'apparenza, perfettamente curata e in ordine. Ci sono alcune persona, tutte rigorosamente accompagnate dal proprio angelo.

Ho l'istinto di nascondermi, ho paura che se qualcuno mi vedesse potrebbe farsi delle domande e non è il caso.

Opto per andare in mezzo ad una piccola boscaglia, almeno sono sicura che da lì non passi nessuno. Non sono molti gli alberi e non ci metto troppo tempo a raggiungere un piccolo stagno. L'acqua è limpida, riflette perfettamente il mio volto...il mio ed un paio di occhi blu oceano.

«Avevi detto che non ci saremmo più riviste».

«Ho la tendenza a mentire».

La guardo attraverso il riflesso, lei invece mi guarda le spalle. «Dove hai lasciato il tuo angelo?» Devo mentirle, il problema è che non so neanche io quale sia la bugia giusta.

«Ci dobbiamo incontrare qui fra poco.» mi giro, se la guardo negli occhi la cosa sembra più credibile. All'inizio non risponde, poi si apre in un sorriso beffardo.

«Non mi ha lasciato sola, sta per arrivare.» Sento la necessità di difenderlo, non voglio che finisca nei guai a causa mia. «Ma nel frattempo tu hai incontrato me».

«Questo vuol dire che sei pericolosa?»

«Diciamo che non ho una bella reputazione» prende un sasso da terra e lo getta nello stagno facendolo rimbalzare quattro o cinque volte. «Ma sta tranquilla, sono tutte dicerie».

Ci guardiamo per un tempo che mi sembra infinito. Non so bene quale mossa fare. Sarebbe meglio se andasse via, che non scoprisse che le ho mentito, ma d'altra parte non mi va di rimanere sola. Fortuna che ci pensa lei a togliermi da questo inghippo.

«Comunque non sono la cosa peggiore che tu possa incontrare in giro. Vieni, ti faccio vedere una cosa.» La seguo senza dire una parola. So che ha capito che le ho mentito, ma non mi importa, non ha l'aria di una che segue le regole.

 

Camminiamo per un po', anche lei sta attenta a non passare dai vicoli più trafficati, infatti non incontriamo praticamente nessuno. Siamo arrivate al confine di questo giardino, oltre c'è solo...sabbia. Non l'avevo ancora vista qui. So che il terreno non segue nessuna regola, che puoi ritrovarti il mare a pochi centimetri dalla neve, ma la sabbia oltre un bosco in questa zona mi lascia di stucco.

Ci blocchiamo di fronte la recinzione, sarà alta almeno tre metri ed è impossibile scavalcarla...almeno pensavo. La bionda prende un metro di rincorsa e con molta calma fa un salto che supera di netto l'ostacolo, finendo dall'altra parte con eleganza.

«Non ti aspetti mica che faccia la stessa cosa spero?!»

«Vedi tutti i giorni crescere frutta e verdura dal nulla, oggetti che appaiono misteriosamente nel tuo armadio se solo la sera prima li hai desiderati, e adesso ti preoccupi di non saper fare un salto fuori dal normale?!» Amo i regali dell'armadio di primo mattino!

«Va bene, ci provo!» Faccio esattamente come ha fatto lei poco prima. Un po' di rincorsa e via, dritta contro il ferro! «Credevo fossi più capace di immaginare».

Me la ritrovo di fianco che mi aiuta ad alzarmi. «Diciamo che nella guida non c'è proprio scritto come saltare una ringhiera di tre metri!»

«Parlami un'altra volta del libriccino e giuro che te lo faccio ingoiare! Insomma, il primo punto di quel coso è “benvenuto in paradiso, sei morto”. Come si fa a scrivere una cosa del genere!» fa le virgolette con le mani e imita una voce maschile grossa. Scoppio a ridere due secondi dopo. «Il libro non ha una voce ma se mai ne avesse una non penso proprio sarebbe così!»

Riesco a strapparle un sorriso, uno di quelli veri e non per scherno o arroganti, ed è di una bellezza disarmante. «Fidati di me, quel pezzo di carta è buono solo per il fuoco del camino. Adesso andiamo, non vorrei che il tuo angelo aspetti troppo!» mi fa l'occhiolino per dirmi, anzi confermarmi, che ha capito che le stavo mentendo.

Mi mette una mano sul fianco e mi stringe, dopo di che fa lo stesso salto di prima insieme a me.

 

Ci allontaniamo quel tanto che basta da non vedere più la recinzione. In realtà adesso è solo un enorme distesa di sabbia per me, ma lei sembra perfettamente sapere dove sta andando. Mi fido, ciecamente e senza alcuna spiegazione, mi fido e mi lascio guidare.

Arriviamo al confine, lo posso riconoscere dalle nuvole meno spesse delle altre. La ringhiera questa volta è alta almeno il triplo e io non penso voglia fare un altro salto, infatti si siede proprio dove la sabbia tocca il ferro per poi lasciare spazio al candido bianco. Con mia grande sorpresa le sue gambe penzolano oltre. «Pensavo ci si potesse camminare».

«Se solo lo vuoi si. Ma non penso che tu sia pronta».

Dall'altra parte non sono riuscita a fare un salto di tre metri figuriamoci fare questo. Mi siedo accanto a lei e non appena lascio cadere le mie gambe oltre sento qualcosa che non avevo mai provato prima. Anzi, l'espressione giusta è non sento. Non mi sento più le gambe, è come se quella parte del corpo non l'avessi più, eppure sono sicura che sono ancora lì.

«Tranquilla, è tutto nella norma» dice continuando a fissare il vuoto che abbiamo davanti, una distesa infinita di nuvole e nulla più. «Non le senti perché sotto c'è il mondo dei vivi e tu non ne fai più parte».

Calo la testa per tentare di vedere oltre le nuvole ma queste sono troppo dense.

C'è uno strano silenzio adesso. Non è malvagio, è solo silenzio, come se tutto quello che avessimo da dire ce lo fossimo dette. Forse, in altre circostanze, avremmo parlato dei nostri interessi o del nostro colore preferito...ma non è questo il caso.

«Allora, ci hai pensato?» dico spezzando quella specie di incantesimo in cui eravamo entrate. «A cosa?»

«Al tuo nome?»

«No.» dice secca ma non in tono duro o arrabbiato.

«Va bene, vuol dire che sceglierò io. A tuo rischio e pericolo.» La mia doveva risultare come una minaccia ma in realtà ottengo solo una sua risata.

Non ricordo molti nomi, alcuni non sono neanche tanto sicura che siano reali o solo frutto della mia fantasia. Tento di visualizzarla meglio. Ha il viso fino, gli zigomi alti, le labbra carnose. E poi ha quegli occhi blu, come credo che sia uno dei più profondi oceani al mondo. Se solo non sapessi chi fosse le darei la mia età. «Aurora!»

«Aurora? Davvero?»

«Di quei pochi che mi ricordo penso sia il più giusto!» L'ho letto non molti giorni fa in un libro dedicato alla mitologia greca, pare che da viva ne fossi appassionata e in effetti non mi è dispiaciuta affatto la lettura. Eos, o Aurora, è la dea dell'alba, e io penso che sia il più adatto alla sua figura. Sarò anche morta giù, nel mondo dei vivi, ma qui sono appena nata. È questo, penso, quello che fa lei.

Mi guarda come se volesse dirmi altre miliardi di cose ma alla fine tace e acconsente al suo nuovo nome.

 

Torno a casa e al mio rientro trovo Max seduto in cucina. Non parla, guarda il vuoto, sembra non essersi neanche accorto di me. Non so bene come spiegargli quello che ho fatto, in realtà penso di non dovergli spiegazioni, quindi opto per salire le scale ma lui fa uno scatto nella mia direzione e mi blocca prima che possa mettere piede sullo scalino. «Perché lo hai fatto? Perché dovevi avere questa curiosità?»

Sta delirando e mi stringe il braccio così forte che sicuramente domani avrò un livido in quel punto. Ci guardiamo a lungo ma lui non sembra lo stesso angelo di prima. Sento dei rumori forti provenire da dietro la porta, poi quest'ultima viene scaraventata a terra. «Ho dovuto farlo, mi capisci? Tu non impari mai!» Sono le ultime parole che sento prima che uno dei 4 uomini mi colpisca violentemente alla testa.

 

Mi sveglio in una stanza completamente bianca e priva di ogni cosa, c'è solo il letto dove adesso sono sdraiata, neanche una porta. Mi tocco la testa nel punto dove mi hanno colpita e mi è già spuntato un piccolo bernoccolo. Dove sono? Cosa avrò fatto di tanto grave? Max ha parlato di curiosità, ma da quando la curiosità è reato? E poi che vuol dire che non imparo mai?

Sento delle voci oltre la parete ma non riesco a distinguere il loro dialogo. Poi una parte del muro si apre rivelando così la vera porta.

Entrano due uomini, sembrano due infermieri e uno di loro ha una cartelletta in mano. Sono spaventata, per la prima volta da quando sono qui. Il più alto mi prende per i polsi e mi costringe a letto. Nonostante tutti i tentativi di liberarmi, l'altro riesce a farmi una puntura sul braccio. Mi addormento subito dopo, completamente incapace di muovermi e senza risposte.

 

È un forte boato a svegliarmi. Sono ancora rinchiusa in quella che ormai posso chiamare una prigione. La porta si riapre, mi stringo inconsciamente le gambe al petto, ho paura che possano essere di nuovo quei due...fortunatamente non è così.

Aurora mi corre incontro mettendosi in ginocchio vicino al mio letto. È preoccupazione quella che vedo nei suoi occhi? Mi tocca delicatamente da per tutto, come se si dovesse accertare che sto bene. «Tranquilla, sto bene!» sento il bisogno di rassicurarla, di aggrapparmi a lei con tutte le forze che ho e farmi portare via da qui. Non dice una parola, si limita a prendermi sotto braccio e trascinarmi fuori.

Attraversiamo un lungo corridoio, sono più che sicura che tutti gli uomini stesi qui per terra sono opera sua. Quando usciamo fuori la vista è mozzafiato. C'è un'infinita distesa di verde, di fiori e alberi di ogni tipo, ci sono anche dei piccoli laghi non molto distanti. Mille colori, profumi deliziosi. «Dove siamo?» «Benvenuta ai giardini dell'Eden!»

Li attraversiamo per intero, lasciandoci alle spalle la mia prigione che non era altro che una struttura di cemento così alta da non riuscire a vedere la fine. Lungo il tragitto lei mi ha spiegato che i giardini sono belli quanto pericolosi. Se finisci lì non è una buona cosa.

 

«Cosa ho fatto io per meritarmelo?» Penso che lei lo sappia, anzi spero. Incatena i suoi occhi blu sul mio verde, sono ancora con il braccio intorno al suo collo. «Te l'ho detto, non ho una bella reputazione.» Non riesco a rispondere a questa affermazione. Non riesco a pentirmi in nessun modo dei nostri incontri, delle nostre parole...dei nostri sguardi.

 

Camminiamo da un po' ma le mie gambe non ne vogliono più sapere. Mi accascio a terra e Aurora mi accontenta seguendomi a sua volta, facendomi appoggiare la testa sulle sue gambe distese. Mi accarezza i capelli come una madre farebbe con una figlia. Io la guardo dal basso ed è bella, di una bellezza quasi impossibile. «Come hai fatto a trovarmi?»

«Ti troverò sempre!» sorride e io penso di non voler vedere nient'altro se non il suo sorriso per l'eternità. Vorrei rimanere qui, così, per sempre, ma lo so che non si può.

Aurora fa un lungo sospiro prima di parlare «Qui non è più sicuro per te. Dobbiamo andare alla fonte per farti immergere.» La guardo confusa ma, come ogni volta che sono con lei, so di potermi fidare del tutto. «Spiegami il piano.»

«Andiamo lì, ti immergi e così potrai rinascere. Il tuo aspetto fisico varierà ma non di molto. Per esempio gli occhi, quelli non cambiano. Hai sempre gli stessi occhi».

È nostalgia la sua, glielo posso leggere in viso.

Mi alzo e mi metto alla pari con lei, voglio capire cosa mi sta bruciando dentro, se tutto quello che provo è reale o solo frutto della mia immaginazione. Aurora non parla, si limita ad aspettare. Aspetta che le porga la domanda giusta. «Quante volte?» Quelle parole rimangono sospese in uno spazio di tempo infinito che adesso mi sembra separarci. Ma lo so di aver capito bene, me lo sento!

«Ti ho uccisa 63 volte! Hanno sempre provato a farti sparire mettendoti nei meandri più lontani del paradiso, ma io ti ho sempre ritrovata. Questa volta ci ho solo messo di più!» Mi soffermo sulla sua mano, è serenamente poggiata a terra. Ripenso al suo tocco sulla guancia e a come mi ha fatto tornare alla memoria l'incidente. «Voglio ricordare» le dico sfiorandole le dita.

Mi guarda, sembra aver paura e io penso sia ironico che la morte abbia paura. Poi succede, e mi sembrano attimi infiniti ma in realtà dura tutto pochi secondi.

Mi bacia con una delicatezza inaudita ma dentro di me è un caos. Le mie vite precedenti...tutte le volte che sono morta, mi passano davanti veloci che non riesco in nessun modo a coglierne i particolari. Sono poche le cose che mi rimangono impresse. Il nostro primo incontro qui, in paradiso. I nomi che le ho dato. I nostri baci...la nostre prime volte. E tutte le volte che sono stata costretta a scappare, a gettarmi nella fonte.

Ci stacchiamo, esauste, come se quei momenti li avessimo vissuti tutti di un fiato. Sono lacrime quelle che rigano il viso di entrambe. «Dobbiamo andare!» dice, alzandosi e porgendomi la mano. Io la prendo e sorrido, perché adesso ricordo che è così che faceva sempre.
 

La fonte non è altro che un enorme lago, e da qui non ne riesco a definirne i contorni, ma riesco a vedere che al suo interno non c'è acqua. È la terra quella, la riconosco. A sua protezione ci sono schiere di angeli infinite. Se ho studiato bene quelli devono essere i Potestà, gli angeli guerrieri per eccellenza. Fanno paura con quell'armatura e le lance in mano.

«Ti ricordi cosa devi fare?» Aurora è pronta per la sua missione. Io chino il capo per dirle che ho capito ma prima che lei faccia un passo avanti la blocco. «Perché ci permettono di rifarlo ogni volta?»

«Si nascondono dietro la bugia che ci perdonano sempre. In realtà si divertono a vederci soffrire!» Non sono spaventata, so come andrà a finire questa storia, e purtroppo è una scena rivista troppe volte.

Si scaglia contro i primi angeli che le vengono in contro per fermarla. Li mette al tappeto come se nulla fosse, io da dietro la seguo silenziosa. Cammino calma e tranquilla fino alla fonte mentre lei, uno per uno, annienta gli angeli che tentano di bloccarmi.

Sono arrivata, mi manca un passo per gettarmi e immancabilmente mi giro per ritrovare i suoi occhi.

Non possiamo stare insieme, almeno così dicono, ma io non trovo nulla di più perfetto dei nostri sguardi che si incrociano, delle nostre mani intrecciate, delle nostre labbra chiuse l'una sull'altra. Ora che ricordo, so che non c'è altro che vorrei.

Mi sta fissando pure lei, ma non piangerà, io invece lo faccio sempre.

«Mi troverai?» dico tra i singhiozzi.

«Come sempre!» mi risponde rivolgendomi il suo miglior sorriso.

 

Mi butto giù, pronta a tornare sulla terra, in mezzo ai vivi. Pronta a rinascere per poi morire un'altra volta per mano sua. Ma lo so che, come sempre, sarà qualcosa di estremamente dolce. E lo so che, come sempre, finirò per amarla un'altra volta.

   
 
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