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Autore: Nina Ninetta    22/04/2018    10 recensioni
Primo Classificato al contest "Amor, ch'a nullo amato amar perdona" indetto da Little_Rock_Angel5 sul forum di EFP
Maria Caterina Di Vece è una delle donne magistrato più conosciute della Campania, ma un male incurabile la costringerà a fare i conti con la propria coscienza. Sarà la sola e unica figlia Chiara a scoprire i segreti più intimi di sua madre (grazie a dei vecchi diari), tra cui l’identità mai conosciuta del padre.
Seconda classificata al contest "Sette colori per sette peccati" indetto da missredlights sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’altra te

"Perciò non lacrimai
né rispuos’io tutto quel giorno
né la notte appresso"
INFERNO, CANTO XXXIII 
 

Capitolo 1

Crediamo di conoscere una persona: i suoi gusti; i suoi pensieri; i suoi modi di fare; i suoi affetti. Ciò che ama, ciò che odia. Poi la malattia la cambia completamente, stravolge la persona che era e che credevi di conoscere. Ti giustifichi con gli altri convincendoli che «fa così perché è la malattia. È il tumore.» Loro ti osservano, fanno gli occhi dispiaciuti, occhi di gente pieni di compassione e che ti posano una mano sulla spalla per non farti sentire sola e ti dicono «se hai bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa…» e lasciano la frase a metà.
«Sì,» vorrei rispondere «ho bisogno di qualcuno che pulisca il culo a mia madre quando si caga addosso, oppure se gentilmente poteste venire a stare al mio posto questa notte. Sa’, sono mesi che non mi faccio una bella dormita.» Invece ringrazio e mi sforzo di sorridere, mentre mia mamma - dalla sua prigione fatta di lenzuola bianche, tubicini nelle vene e materasso ad acqua – si fa una bella chiacchierata con il muro che non le risponderà mai.
Ad esempio, l’altro giorno il giudice Rocco ha scosso la testa tutto il tempo mentre le carezzava il capo. Mia madre lo ha guardato e ovviamente non l’ha riconosciuto:
«Non mi toccare figlio di puttana! Io sono il magistrato Di Vece!» Ha urlato e per l’ennesima volta mi sono dovuta scusare per una colpa non mia. L’uomo, un tipo giovanile nonostante la sua veneranda età, ha sorriso e si è allontanato dalla malata, quasi fosse infettiva.
«Abbiamo perso una grande donna,» ha blaterato indietreggiando «però non ha smesso la sua arringa.»
Vero, mi sarebbe piaciuto aggiungere, il suo carattere di merda è ancora intatto.
 
Era tosta mia mamma. Una vera forza della natura. Inarrestabile. Una vera stronza!
Maria Caterina Di Vece era uno dei magistrati donna più famosi della provincia di Salerno. Nei primi anni 2000 divenne l’idolo di ogni donna italiana per aver fermato un criminale che durante la sentenza aveva assalito la sua ex fidanzata, già vittima dello stesso che l’aveva deturpata con un taglierino. La nonna per anni ha mostrato orgogliosa il ritaglio di giornale incorniciato nel salone, la foto ormai sbiadita mostrava mia mamma che teneva l’uomo per le spalle e il ginocchio alzato all’altezza del pube. La gonna del tailleur grigio tirata fino a metà coscia, le calze scure fasciavano gambe slanciate e dannatamente sexy.
Io non ho la sua bellezza, né il suo fisico asciutto. Lei diceva che tutto dipende da quello che si mangia oggi, non ci sono più cibi genuini, e la tecnologia ha reso il mondo un posto peggiore. Se a cinquant’anni poteva vantare ancora un fisico da ventenne lo doveva ai kilometri che aveva percorso in passato per raggiungere il campus universitario, quando non aveva i soldi neanche per comprarsi un panino - e allora figurarsi quelli del biglietto dell’autobus - o ancora i passi che separavano il suo monolocale dalla sede del tribunale; senza dimenticare tutti i pranzi consumati su una panchina sul lungomare Cristoforo Colombo, con il sole sulla faccia, l’intenso odore di salsedine e il rumore delle onde a fare da sottofondo.
Oggi vorrei chiederle secondo lei quale dei tanti fattori benefici che sempre mi ha spiattellato in faccia, in particolare quando a quindici anni me ne stavo comodamente sdraiata sul divano a chattare con le mie amiche, le hanno causato un glioblastoma multiforme al IV stadio.
 
Il primo magistrato donna della penisola italica ad aver fermato personalmente un criminale con un calcio nei coglioni si è spenta tra atroci sofferenze, dopo appena un anno di radio e chemio, quasi senza sapere chi fossi: Chiara, la sua unica figlia ora completamente sola al mondo. Non ho mai conosciuto mio padre. Lei mi ha sempre raccontato che non ha voluto sapere nulla di me, perciò da grande non avrei dovuto cercarlo né fare domande inopportune ai conoscenti per scoprire chi fosse o dove vivesse.
Peccato che i parenti – vicini e lontani – la cara mammina li abbia fatti scappare tutti. La sua sola sorella la mandò a quel paese diversi anni fa, e per un’ottima ragione. Durante il pranzo natalizio mia madre le fece notare che non aveva compiuto nulla nella sua inetta vita. Secondo il giudice sua sorella era una donna della peggiore specie, di quelle il cui unico scopo è trovarsi un buon partito, sposarlo e dargli una prole adeguata al mantenimento (in caso di divorzio).
«Ma di cosa ti preoccupi tu.» Aveva aggiunto mia mamma con un calice di vino rosso tra le mani che non avrebbe mai bevuto, le piaceva tenerlo così, all’altezza del viso con il gomito piegato, solo per darsi delle arie. «Tu non avrai mai le palle di lasciare quell’impiastro di tuo  marito, neanche se ti portasse a casa una delle sue tante puttanelle con cui si diverte.»
Da quel 25 dicembre non ho più rivisto il ritaglio di giornale appeso alla parete che tanto aveva reso fiera mia nonna.
Guido e Annarita sono le uniche persone che mi sono rimaste, alle quali posso rivolgermi in caso di necessità. Oggi, dopo le esequie, sono stati così gentili da riaccompagnarmi a casa, preoccupandosi che mangiassi qualcosa.
Annarita e mia madre si conoscevano da una trentina di anni: sono state compagne di banco fin dalle scuole medie e neanche le scelte di vita sono riuscite ad allontanarle. Suo marito Guido ha invece conosciuto il grande magistrato Di Vece durante il primo anno alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Salerno. Quando mia mamma si è ammalata iniziando a mostrare i primi sintomi della malattia, tra i quali momenti di assenza e alterazione del comportamento, Annarita mi ha confessato che le sarebbe stata sempre debitrice per averle presentato l’amore della sua vita, Guido appunto, l’uomo che le ha cambiato l’esistenza. Purtroppo non hanno figli: la natura è stata fin troppo avara con questa coppia che ritengo perfetta. Nessuno dei due ha voluto conoscere il motivo di tale sterilità, a loro non interessa di chi sia la “colpa” – come una volta chiese mia madre alla sua amica Annarita: «Non ti importa di chi sia la colpa?» -, non vogliono diventare una di quelle coppie che si accusano l’un l’altra per l’infelicità matrimoniale.
È un modo di recepire la vita coniugale che io ammiro, al contrario di mamma ovviamente che non l’ha mai concepito; più di una volta ha lasciato intendere ad Annarita che la “colpa” fosse sua, come se lei sapesse fare una diagnosi solo guardandola.
Guido è ormai un uomo prossimo ai cinquant’anni, ma i suoi folti capelli ancora tutti neri e gli occhi di un azzurro ghiaccio gli donano un’aria decisamente giovanile. Mentre sua moglie si sta occupando della stanza che in quegli ultimi mesi si è trasformata in una vera e propria camera d’ospedale, lui è in piedi davanti a me, ad accertarsi che finisca la Margherita presa al volo alla piccola pizzeria sul corso Vittorio Emanuele. Ha le braccia conserte e gli occhi chiari mi fissano, sono velati e lucidi, è evidente che anche lui era affezionato al magistrato Maria Caterina Di Vece. Scioglie le braccia, assumendo l’espressione di qualcuno che vuole dire qualcosa ma non sa da dove cominciare. Posso solo immaginare quello che gli passa per la testa, perciò lo precedo nella risposta provando a dargli una mano per toglierlo dall’imbarazzo:
«Tranquillo, starò bene» dico e lui mi sembra rattristarsi ancora un po’. Improvvisamente non mi sembra più tanto giovane, al contrario pare gli siano crollati sulle spalle venti anni di sofferenze.
Quando vanno via la casa precipita in uno strano e insolito mutismo. Non ci sono più abituata. All’inizio credevo che non sarei mai riuscita a rassegnarmi ai rumori lievi e cadenzati delle apparecchiature che tenevano in vita mia madre: il respiratore, il monitor per tenere sotto controllo i battiti cardiaci e la pressione sanguigna. La prima sera che siamo rimaste da sole tremavo letteralmente dalla paura. L’infermiere mi aveva rassicurato che non dovevo fare assolutamente nulla, solo aiutarla a bere nel caso me lo avesse chiesto. Invece rimasi nella camera accanto alla sua, con la luce dell’abat-jour accesa, rannicchiata contro il muro, ascoltando e contando ogni suo respiro.
Non ero neanche lontanamente consapevole che il peggio doveva ancora arrivare.
 
Dopo mesi interi torno nella camera da letto che era stata di mia mamma, non della persona malata e inerme costretta in un letto con le sbarre, ma della donna forte e caparbia conosciuta come il giudice Di Vece. Le tende di broccato sono chiuse, il letto immacolato così come lo ricordavo. Mi avvicino al comò di legno chiaro e sfioro la superficie con i polpastrelli, si è formato uno spesso strato di polvere. Il magistrato andrebbe su tutte le furie se lo vedesse. Apro il primo cassetto, è pieno di gioielli e cianfrusaglie varie; lo chiudo e sbircio nel secondo, dove la biancheria intima è alla rinfusa. Mia mamma non è mai stata una maniaca dell’ordine, o perlomeno non di quello nascosto, lei teneva molto all’apparenza, diceva che il proprio aspetto e tutto ciò che è visibile agli altri, è una specie di biglietto da visita, perciò va curato con minuziosa attenzione. Butto la mano fra mutandine di pizzo e reggicalze, mischiando il tutto quasi a volerle fare un dispetto. Il colore dominante è il viola: il colore preferito dal grande magistrato donna.
«Il viola è il risultato di due colori forti: il blu e il rosso. Il primo incarna la saggezza, il secondo la passione. Il viola è dunque il colore di tutto ciò che muove il mondo, rappresenta il mistero, la magia. La metamorfosi. Il viola è donna!» Mi spiegò una volta, senza che io glielo chiedessi. Poi sento qualcosa di duro e liscio sul fondo del cassetto e resto interdetta. Spostando la lingerie scorgo un’agenda, di quelle classiche con la copertina in pelle morbida che si comprano in cartoleria. Incuriosita comincio a sfogliarlo e non ci vuole molto a capire che si tratta di un diario. Un vecchio diario di mia madre e in verità non è neanche l’unico. Svuoto tutto il contenuto del cassetto sul pavimento e scopro ben altre due agende della stessa grandezza e tonalità. Senza sapere bene cosa aspettarmi li porto con me sul divano, nel salone all’ingresso, e comincio a leggere quello che dalla data sembra il più vecchio.

 
Salerno,
Martedì 17 aprile 1987
Ore 22:15
 
Caro diario,
oggi per me è stato un giorno difficile. Purtroppo l’esame di Diritto Romano non è andato come volevo, eppure ci speravo tanto! Avevo bisogno che questo esame andasse bene per risollevarmi il morale. Il professore Aiello si è incaponito su una domanda trabocchetto e non sono riuscita a venirne a capo. Sono uscita dall’aula che avevo le lacrime agli occhi: mai mi sono sentita così umiliata in vita mia, davanti a tutti per giunta!
Guido mi è subito corso dietro, dicendo di non pensarci, che la prossima volta andrà meglio, che il professore Aiello è un dinosauro che dovrebbe essersi estinto milioni di anni fa, ma è scampato alla glaciazione solo per rompere le palle agli studenti di giurisprudenza. Tra le lacrime è riuscito a strapparmi un sorriso, però questo non è inusuale: lui sa sempre come tirarmi su. Poi mi ha accompagnato al bar della Facoltà di Lettere e abbiamo preso un caffè insieme, chiedendomi se avessi con me il nostro portafortuna. Ovviamente gli ho risposto di sì, estraendo dalla tasca dei pantaloni la nostra collana portafortuna con incastonata una pietra viola. Si tratta di un gioiello da quattro soldi, ma per noi ha un valore immenso.
Ti ho mai raccontato la sua storia?
Accadde durante la prima sessione di esami, al primo anno; entrambi morivamo di paura quel giorno perché «il primo esame è un po’ come la prima visita ginecologica», scherzava Guido. Sul banco dove prendemmo posto, nell’aula 23 stracolma di studenti giovani e speranzosi per il futuro come noi, c’era questa catenella color oro che reggeva una pietra dalla forma inequivocabile di una mela, ma della stessa tonalità della malva. L’esame andò benissimo a tutti e due, per questo lui decise che quella collana squattrinata sarebbe stata il nostro portafortuna e per nessuna ragione al mondo avremmo dovuto dimenticarla a casa nei giorni importanti.
Seduti sugli sgabelli vicino al bancone del bar gliel’ho porta, dicendogli che adesso toccava a lui affrontare Diritto Romano, ma Guido ha chiuso la sua mano a pugno intorno alla mia, affermando che se non ero riuscita a superare io la prova, figuriamoci lui.
Quel giorno, il giorno in cui trovammo la collana, ci facemmo anche un’altra promessa: laurearci insieme.
Dopo il caffè siamo saliti fin sulla torre della biblioteca, si è acceso una Marlboro e mi ha guardato attraverso i suoi occhi di ghiaccio – i diamanti come li chiamo io.
«Come va a casa?» Ha domandato. Io ho fatto spallucce.
«Come vuoi che vada? Mio padre è un porco e mia madre sembra avere i prosciutti sugli occhi.» Mi ha passato la cicca e ne ho tirato una lunga boccata amara.
«Lo ama.» Si è ripreso la sigaretta, quindi ci siamo incamminati verso il centro della piazza.
«L’amore è sopravvalutato.» Ho sentenziato. «Sopravvalutato.»
Nessuno dei due ha detto altro.
Caro diario, nonostante mia madre sappia benissimo che papà si vede di frequente con una donna, dice che non riesce a cacciarlo di casa, che diventeremmo lo zimbello del quartiere e che non vuole dare un dispiacere alle rispettive famiglie. È evidente che del suo dispiacere non se ne preoccupa nessuno, nemmeno lei.
Io non voglio neanche vederlo per casa, quelle rare volte che si degna di ricordarsi di avere delle figlie e una moglie non gli rivolgo la parola. Per me è come morto, non esiste. Anzi, se fosse davvero defunto sarebbe meglio, perlomeno mamma saprebbe dove si trova suo marito.
Ho deciso: da domani mi cerco un lavoretto, così potrò pagarmi gli studi senza dover dipendere dal maiale!
Buonanotte caro diaro,
tua M. Caterina.

 
 
 
Alzo gli occhi dalla pagina che ho appena finito di leggere. Non sapevo assolutamente nulla del nonno e di quello che aveva fatto in gioventù. Lui è morto di ictus quando io ero ancora una bambina e ricordo davvero poco del suo funerale. Di sicuro notai gli occhi asciutti di mia madre e mi chiesi per quale motivo lei non piangesse per la dipartita del suo genitore come invece facevano la nonna e la zia.
Guido e il magistrato Di Vece sembravano davvero molto uniti da giovani, quasi amici del cuore. Se non conoscessi mia mamma oserei dire che fosse innamorata. In ogni caso qualcosa deve essere andato storto nel percorso universitario di Guido, dal momento che lui non ha mai finito gli studi come invece ha fatto la mamma.
Il giorno in cui il magistrato donna invitò Annarita e Guido a casa nostra, poiché aveva una cosa importante da confessare, era lo stesso del colloquio con l’oncologo D’Antonio che con una freddezza tipica degli automi ci aveva spiegato come stavano realmente le cose, partendo da lontano. Da molto lontano.
«Magistrato Di Vece,» esordì schiarendosi la voce e consultando le migliaia di analisi e lastre che teneva sparpagliate sulla sua ampia scrivania, «lei si è recata dal suo medico di famiglia lamentando un forte mal di testa, spesso accompagnato da nausea e stanchezza. Dopo vari esami, il dottor Petrosino ha pensato bene di approfondire la situazione consigliandole un bravo neurologo: il professor Ronca.»
Mia mamma cominciava ad agitarsi sulla sedia, per questo motivo odiava i dottori diceva, non avevano le palle di dire le cose in faccia – le sentenze le chiamava nel proprio gergo –, ci giravano intorno, quasi sperando che fossero i pazienti ad arrivare alla diagnosi da soli.
«Il professor Ronca l’aveva ammonita di fare una TAC quanto prima…»
«Si, ma avevo delle cause intricate e dovevo studiare minuziosamente i casi. Sa’, se non faccio bene il mio mestiere potrei rischiare di rovinare la vita alla gente. Potrei ammazzarli non meno di quanto fate voi con i vostri bisturi e le vostre prognosi!»
Il dottor D’Antonio le mostrò il palmo, continuando a tenere lo sguardo sulle scartoffie.
«Però, a causa della sua negligenza, è dovuta correre al pronto soccorso perché non ricordava più il nome degli oggetti che la circondavano, né quello di sua figlia. Neanche il proprio.» Mia mamma si ricompose e tornò scura in volto.
Quella sera l’accompagnai io all’ospedale di Salerno dove la ricoverarono. Se dovessi indicare un giorno, un momento, un istante in cui la mia vita è cambiata credo che sceglierei quello: il 13 marzo 2017.
«L’hanno sottoposta subito ad una TAC con contrasto e poiché questa ha evidenziato alcune anomalie, ha fatto una risonanza magnetica. Io e i miei colleghi ci siamo chiesti se fosse anche il caso di continuare con gli esami e sottoporla ad una PET, la quale ci avrebbe aiutato a dare un’ulteriore conferma alla nostra tesi, ma siccome eravamo più che concordi sulla sua diagnosi, abbiamo preferito accelerare i tempi e sottoporla ad una biopsia.» Finalmente il medico alzò gli occhi, lasciando perdere le carte dinnanzi a sé. «Magistrato, lei ha un glioblastoma multiforme al IV stadio. Mi dispiace.»
Sembrava uno scioglilingua che se dovessi ripeterlo io ad alta voce per due volte di seguito mi impappinerei come una bambina all’asilo di origine marocchina.
«Se io cominciassi a usare i termini tecnici e precisi del mio settore stia pure tranquillo che non riuscirebbe a capire neanche un 5% di quello che le sto dicendo. La stessa cosa vale per me in questo momento. Quindi, gentilmente, può spiegarmelo in lingua volgare se non è chiedere troppo?» Domandò mia mamma continuando a tenere un aplomb invidiabile.
«Lei ha un tumore al cervello. Il peggiore che esista.»
«Sto morendo? È questo che mi sta dicendo dottore? Sto morendo?» Il grande magistrato Di Vece perse d’un tratto tutta la sua calma granitica, la voce balbettante e le mani tremolanti.
«Mi dispiace.» Ripeté il medico dall’altra parte della scrivania, ma non aveva l’aria di uno davvero dispiaciuto, piuttosto di uno abituato a determinate situazioni e reazioni.
Mia mamma fece un respiro profondo socchiudendo gli occhi per un attimo, cercando dentro di sé la forza per porre la prossima domanda.
«Quanto mi resta?»
Io la guardai stralunata. Perché aveva fatto una domanda così fuori luogo? La medicina aveva fatto passi da gigante nel campo dei tumori, conoscevo storie di persone che erano sopravvissute al cancro. La nostra vicina era viva e vegeta nonostante la mastectomia, no?
«Con un ciclo di radio prima e chemio dopo,» l’oncologo prese tempo «al massimo un anno di vita.»
  
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