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Autore: yonoi    25/04/2018    9 recensioni
Un antico camposanto posto sulla sommità di uno sperone roccioso: è il cimitero monumentale della Rupe, detto anche l'Isola dei Morti. Un luogo che appartiene all'eternità, che un lago silenzioso separa definitivamente dal mondo dei vivi. Tra austere cappelle familiari, sepolture vegliate dagli angeli, un sacrario dedicato ai caduti di guerra, gli abitanti della Rupe vivono il quotidiano della morte rievocando il passato, attendendo una visita o cercando di riconciliarsi con se stessi, come il Suicida per la vergogna e il soldato semplice Ruhe. Soprattutto, lasciandosi risanare dalla musica di Aldo Gorini, virtuoso del violoncello, che ha scelto di dimorare alla Rupe per rimanere accanto alla moglie defunta. La storia di un amore che vince la morte, dell'amicizia tra due giovani, della loro rinascita e del lento cammino verso l'Eternità.Prima classificata al contest True Colors (of Your Life) indetto da Laodamia94 sul Forum di EFP, a pari merito con "Like a bridge over troubled water" di Setsy
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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“Come se il mare, aprendosi
Svelasse un altro mare
E questo un altro ancora
E i tre - solo il presagio fossero
D’infiniti altri mari, non toccati da riva
come se il mare a mare fosse riva
questa è l’Eternità
(Emily Dickinson, “As if the Sea should part”)
 

            4. Non chiedermi nulla, se puoi
 

            La morte di Emily aveva inaugurato una nuova consuetudine nella vita quotidiana di Aldo Gorini. Una volta terminati gli impegni con l’orchestra, le prove, i concerti, l’anziano musicista affrontava la lunga salita fino alla Rupe e al campo degli stranieri, l’angolo del cimitero dove era stata seppellita Emily Olsen.
            Doveva trattarsi di una sepoltura provvisoria, nell’attesa che gli anziani genitori di lei ottenessero il trasferimento della salma in Danimarca. Gli Olsen desideravano avere un posto dove andare a trovarla, a magra consolazione della loro vecchiaia e nell’attesa di ricongiungersi all’unica figlia. Era un pio desiderio, eppure destinato a rimanere tale: perché Aldo Gorini, solitamente noto per il suo carattere condiscendente, si oppose con tutte le forze a quella che definiva la seconda dipartita di Emily. Al punto da affermare che questo nuovo abbandono gli risultava ancora più insopportabile del primo, e che avrebbe fatto di tutto per impedirlo.
            Spettava a lui solo ricongiungersi con la sua amata, quando fosse venuta l’ora.
            Nel frattempo, Gorini trascorreva ogni momento libero alla Rupe. All’inizio, si prendeva semplicemente cura del sepolcro: cambiava l’acqua nei vasi, levava ciò che era appassito, secondo la stagione interrava gruppi di primule, roselline selvatiche, e d’inverno rametti di calicantus odorosi. Gli abitanti della Rupe amavano il calicantus e il suo profumo che ricordava il Natale, il calore di casa e il sapore del cioccolato sulle labbra. Spesso Aldo Gorini offriva anche alle tombe più disadorne uno di quei rametti dai piccoli fiori gialli, con un cuore purpureo che, nel loro linguaggio, significava amore e desiderio di protezione. Ne regalò un rametto anche alla vecchia nonna del Suicida per la vergogna, che saliva ogni domenica per curare la tomba, strappare via le erbacce e recitare un rosario per la buonanima del nipote.
            Esaurite le sue incombenze, Aldo Gorini passeggiava lungo i viali di ghiaia bianca, si riposava sulle panchine sotto ai cipressi, nei punti panoramici sostava a contemplare il lago sottostante, simile a una distesa di luce ineffabile.
            Almeno i primi tempi, non si era comportato molto diversamente dagli altri visitatori: le vedove indaffarate, a loro agio come nel giardino di casa, coi guanti da giardiniere per potare le rose, l’edera che si arrampicava instancabile sui muri delle cappelle. Le visite erano ormai sempre più rare all’Isola: ma ancora, il due di novembre, c’erano dei parenti che salivano apposta, e dopo avere salutato i loro morti andavano a passeggio a vedere le tombe nuove, seguiti dai bambini che giocavano a nascondino e riempivano i viali di voci alte e sottili. I bimbi della Rupe avrebbero voluto correre insieme a loro, e sedevano tristi per quella divisione che imponeva la morte.
            Col passare del tempo, Aldo Gorini aveva fatto amicizia con la più assidua frequentatrice del cimitero: la nonna del Suicida per la vergogna era un’anziana curva, così piccina che spariva tra i rovi, i boccioli avvitati e le rose eleganti, di cui curava attentamente la crescita sulla tomba del nipote. Le rose erano tutte di un inviolabile color bianco, che nel linguaggio dei fiori rappresenta l’amore spirituale e l’innocenza. Non era certo innocente, il Suicida per la vergogna: ma agli occhi della nonna, che lo vedeva con la saggezza della vecchiaia e per di più con l’attenuante della morte da giovane, restava comunque esente da ogni condanna.
            Con la nonna del Suicida, Aldo Gorini scambiava consigli di giardinaggio e idee sulla morte, getti di piante da provare a mettere a dimora, pensieri su ciò che attende l’anima nell’aldilà.
            Dopo un poco di tempo, la presenza di Aldo Gorini presso la piccola comunità della Rupe divenne pressoché continua: quando l’inconsolabile coniuge cominciò ad arrampicarsi alla Rupe col violoncello, la tomba di Emily si trasformò in una sorta di saletta auditorium dove Aldo Gorini svolgeva i suoi quotidiani esercizi, imparava nuovi brani per i concerti, si dedicava alla composizione.
            Di lì a poco, il suocero rinunciò al suo desiderio di seppellire Emily nella tomba di famiglia. Malgrado l’età avanzata e la distanza, aveva tuttavia conservato sufficiente lucidità per rendersi conto che i comportamenti di Gorini sfioravano l’ossessione. Da ultimo, aveva ritenuto opportuno ammonirlo:
            “Carissimo, a differenza di me e mia moglie, che siamo molto vecchi, tu sei ancora lontano dal mondo della morte. Non puoi entrarci in anticipo. Non starebbe a me dirlo, ma forse sarebbe meglio se tu privilegiassi la compagnia dei vivi. Dovresti risposarti.”  
            Simili parole agli orecchi di Aldo Gorini suonavano assurde: lui non riusciva semplicemente a immaginarsi la vita senza Emily. In realtà, pur non condividendo con nessuno il suo pensiero, considerava la moglie ancora viva e vegeta, seppur in modo diverso.
            Per prima cosa, procedette all’acquisto di una cappella in rovina, situata nell’area monumentale del cimitero. Per mesi, dovette districarsi tra pratiche burocratiche, autorizzazioni della Soprintendenza alle Belle Arti, cavilli di ogni genere: finché riuscì a ottenere il permesso di restaurare l’immobile e trasferirvi la salma della moglie. Commissionò per Emily quel sarcofago straordinario, realizzato dall’anonimo che si diceva in grado di trasformare gli esseri viventi in sculture di pietra: il che era una leggenda, perché all’interno di quel raffinato contenitore, che di Emily riproduceva le sembianze, il corpo era ordinariamente piombato dentro a una cassa, con i sigilli apposti il giorno del funerale.
            In ogni caso l’opera, realizzata su una serie di vecchie foto sbiadite e neanche bene a fuoco, mostrava un realismo davvero impressionante: persino le ciglia posate sulle guance e il perfetto ovale delle palpebre chiuse, persino l’attaccatura crespa dei capelli di Emily erano riprodotti con la massima precisione. Aldo Gorini trovò del tutto naturale scambiare quella forma per Emily stessa, nelle nuove sembianze assunte dopo la morte. Ogni mattina, entrando nel mausoleo la salutava - anche solo con un cenno, tanto tra loro non erano mai state necessarie troppe parole. Passava la giornata dedicandosi allo studio del violoncello. Di tanto in tanto volgeva uno sguardo alla sua amata, come se lei potesse dargli un parere con un solo movimento dell’aria: il sì di una brezza calda, o una corrente fredda per dire no, non ci siamo, devi provare ancora. Ripeti quel passaggio, attento che qui c’è una pausa.
            Per far fronte alle spese, Aldo Gorini accumulò debiti. Negli anni successivi diede fondo ai risparmi e alla sua sparuta pensione da orchestrale. Si ridusse a sopravvivere con le lezioni di violoncello che impartiva agli allievi del conservatorio, e con i proventi di qualche concerto.
            Arrivò a dover vendere addirittura la casa dove aveva vissuto con Emily, soltanto per finanziare il suo sogno di abitare presso di lei nella morte: pur di restarle accanto, scoprì di essere disposto a rinunciare persino ai ricordi. Capì di quante poche cose ha bisogno un uomo quando l’amata è presente: un tavolo per i pasti, una sedia a dondolo per il riposo, il violoncello e gli spartiti per gli esercizi.  
            Una volta che il mausoleo fu restaurato, e il corpo di Emily poté prendervi posto, Aldo Gorini cominciò a passare le sue giornate alla Rupe. Ogni mattina attendeva l’arrivo del custode che apriva i cancelli, e se ne andava puntuale all’ora di chiusura: solo com’era venuto ritornava in città, alla stanza che era riuscito ad affittare con gli ultimi spiccioli.
            Passò così molti inverni, con l’unico conforto di una stufetta elettrica che, con un sistema elaborato di cavi, riusciva ad allacciarsi all’ufficio del custode. Questi, inizialmente perplesso riguardo alla presenza di Gorini alla Rupe, convenne infine che si trattava di un brav’uomo, innocuo e soprattutto di gusto: l’assortimento di vini ricevuto come ringraziamento per il disturbo, nei giorni della traslazione di Emily Olsen, aveva riscosso la sua piena approvazione.
            Nel frattempo, si diffondeva la fama romantica di Aldo Gorini, della sua dedizione capace di oltrepassare i limiti della morte: sull’argomento, uscì addirittura un articolo sulla cronaca locale. C’era da dire che il Gorini, malgrado l’età avanzata, continuava a serbarsi dritto come un fuscello, unendo la finezza del musicista al portamento austero di un ufficiale: molte si misero in testa di dissuaderlo dal dare ulteriore seguito ai suoi voti matrimoniali, visto che ormai la sposa era morta da un pezzo.  
            La cortesia di Aldo Gorini era proverbiale almeno quanto il suo fascino: non trattò mai nessuna delle aspiranti alla sua mano con sgarbo e impazienza. Semmai, si fece ancora più schivo.
            Cominciò a somigliare a quelle lucertole che d’estate facevano capolino dalle crepe, attratte da un raggio di sole: sostavano un poco crogiolandosi in quel tepore, ma non appena un’ombra abbassava di poco la temperatura, presagio di qualcosa che stava per accadere, correvano a nascondersi nella loro fessura.
            Così era Aldo Gorini: solo desideroso di continuare a vivere accanto alla sua Emily, fino al momento in cui si sarebbero incontrati di nuovo e per sempre.
            Nei momenti di pausa, leggeva poesie da un libro ritrovato per caso durante lo sgombero della sua vecchia casa:
            “Noi ora saliremo verso l’Eterno, ci basta raggiungere il cielo e sfiorarlo
            noi siamo i figli della luce, fiamme dello splendore
            e il nostro viaggio è appena incominciato”.
 
******
 
            A notte fonda persino il violoncello di Aldo Gorini s’era spento con un ultimo, dolcissimo fruscio.
            Tutta l’Isola dormiva. I bambini abbracciati ai loro giocattoli, le anziane coppie di coniugi distesi sulle loro imbottiture di raso, le mani conserte con il rosario intrecciato: così come li avevano deposti coloro che li avevano amati. Soltanto i mozziconi del Suicida per la vergogna e del soldato Ruhe erano ancora accesi, due occhi aperti e vigilanti nel buio.
            Il Suicida per la vergogna non riusciva a capire che cosa ci trovasse Ruhe a stargli vicino. A parte gli interminabili silenzi e il quotidiano cattivo umore, fino a quel momento il piccolo tedesco aveva rimediato soltanto un soprannome, per giunta irritante: Husky, per via degli occhi celesti così limpidi e tersi, che in natura non se n’erano mai visti di uguali. Non s’erano, quegli occhi, schiariti con il tempo trascorso dalla morte: anche da vivo Ruhe aveva posseduto quella trasparenza angelica di tratti e di colori, ed era stato per quello che a un certo punto il sergente maggiore Linder s’era accorto di lui.
            “Cosa vuol dire Husky?” aveva chiesto Ruhe, un poco contrariato, la prima volta che il Suicida per la vergogna gli aveva appioppato quel soprannome. L’altro aveva riso, e per un istante il suo viso da attore del cinematografo era tornato alla spensieratezza di un tempo:
            “L’Husky è una razza di cani da slitta.” Poi, notando che l’altro si risentiva: “Alcuni hanno occhi azzurri molto particolari. Molto simili ai tuoi.” Siccome il ragazzo non pareva convinto gli mise un braccio al collo, e continuando a ridere lo attirò a sé:
            “Esiste il Siberian Husky, e tu sei il mio German Husky.
            Innervosito, Ruhe si era svincolato dall’abbraccio:
            “Non farlo mai più, non voglio”, lo spinse via con furore. “Hai inteso? Non voglio.” 
            Il Suicida, stupito, lo lasciò andare. Tutt’a un tratto si sentì in soggezione, e come intimorito dalla reazione del giovane. Guardò il piccolo Husky che teneva le braccia strette attorno alle gambe, come per proteggersi da qualcosa che vedeva soltanto lui: a un tratto il suo sguardo era fisso nel vuoto, come quello di certe bestiole prese in trappola.
            “Va tutto bene, Husky... Ruhe, va tutto bene.” L’unica cosa che al Suicida venne in mente fu di allungare la mano, per posarla sulla schiena dell’altro. A quel tocco, il ragazzo si voltò verso di lui, pallido e aggressivo:
             “Ti ho detto di non farlo.” Lo respinse con rabbia, e cominciò a tremare. Tutto il suo corpo era in preda a un tremito incontrollabile: tremavano le spalle nell’uniforme troppo grande, la nuca coi capelli rasati così corti eppure strappati in più punti, interrotti da tagli e da lacerazioni. Il Suicida per la vergogna lo fissava stupito, e d’un tratto anche attento: molti segni a cui non aveva mai fatto caso prima d’allora, gli saltavano agli occhi. Messi uno dietro l’altro, cominciavano ad acquistare significati inquietanti.
            Era chiaro che Ruhe era troppo giovane per aver preso parte a lunghi combattimenti, e per essersi logorato l’anima e il corpo, oltre che l’uniforme, nel buco di una trincea. Eppure il suo volto era pieno di ecchimosi, e attorno al collo e ai polsi anneriva l’impronta di lividi brutali: i segni di una mano simile a una tenaglia affondavano letteralmente nella sua carne, come se avesse sostenuto un corpo a corpo. Intuì che la schiena non poteva essere toccata perché tutta strisciata, trascinata a terra e penetrata con forza dai sassi, dal groviglio di arbusti di un luogo riposto, dove probabilmente nessuno era riuscito a sentirlo, né a venirgli in aiuto.    
            Adesso, all’improvviso, comprendeva il perché di quella camminata che pareva sempre dolente, come se dovesse sopportare ogni volta una nuova sofferenza, e una nuova vergogna; il pudore di cui si circondava in ogni situazione, e che lo spingeva a sedersi sempre un poco in disparte, sia dagli altri soldati sia quando era accanto a lui.
            Tutta la sua compostezza gli serviva a proteggere quella grande macchia di sangue che si allargava sotto alla sua cintura, e in fondo alla schiena: una chiazza annerita che lui aveva pensato fosse di putrefazione, e invece era una sciocchezza perché le anime non marciscono come i corpi, tanto meno l’anima limpida del soldato semplice Ruhe.
            E se il Suicida avesse veduto anche le unghiate sulle natiche magre, la carne strappata viva per costringere il ragazzo ad aprirle, allora sì avrebbe capito, avrebbe capito tutto. Ma in realtà non c’era bisogno di altri indizi, perché il Suicida per la vergogna aveva già indovinato quello che era successo, e provò una grande pena. Era la prima volta da chissà quanto tempo che invece di pensare solamente a se stesso, si preoccupava e soffriva per un altro essere umano.
            Lo attirò a sé di nuovo, ma stavolta il suo tocco era pieno di discrezione, dello stesso pudore che affliggeva Ruhe e lo spingeva a stendere, ovunque si sedesse, un vecchio fazzoletto solo per non sporcare. Lo attirò ma anche lo strinse, per impedirgli di andarsene:
            “Va tutto bene, Husky. Ti giuro che andrà bene, fosse l’ultima cosa che giuro in vita mia.”
            “Cos’è, uno dei tuoi film? Non puoi giurare sulla tua vita. Sei morto già da un pezzo, non lo ricordi?”
            “Ma neppure da vivo mi era capitato di tenere così tanto a qualcuno.” 
            “Solamente perché ti faccio fumare a scrocco.”
            In realtà il soldato Ruhe, malgrado la vergogna, la rabbia e tutto il resto non desiderava altro che essere accolto, come un bambino che inciampa e si sbuccia un ginocchio: stanco come se avesse vagato per mille anni, nel tentativo di sfuggire al sergente maggiore Linder, si accovacciò tra le braccia del Suicida per la vergogna.
            A lui, che non sapeva neppure come tenerlo per non fargli del male, per pudore non rivolse neppure uno sguardo, ma solo un breve avviso:
            “Ti prego, non chiedermi niente.”
            “Non lo farò. Ma non chiedermi nulla, se puoi, neppure tu.”
 
******
 
            Anche attorno all’albero di Natale dei beati ribelli fiorivano i fuochi fatui. Alcuni si schiudevano tra i corpi appesi ai rami, e parevano uscire dalle mani dei morti legate dietro alla schiena, e dalle gambe tese a sfiorare la terra. Accanto al piazzale, come una piaga si apriva uno stagno d’acqua nera: altri fuochi sbocciavano sopra alla superficie ricoperta di muco e grovigli d’erbe marce.
            La calura estiva, che di giorno rendeva il cielo una cappa di piombo, di notte ristagnava senza un filo di vento: mescolato all’odore corrotto dello stagno, il fetore dei corpi era tale che Ruhe era costretto a svolgere il turno di sentinella premendosi un fazzoletto sul naso per tutto il tempo. Come di consueto, anche quella sera a montare la guardia erano in due. 
            “Che schifo” aveva commentato l’altro che era con lui “prima o poi bisognerà seppellirli, quei cosi. Non sono rimasti appesi abbastanza a lungo? Ormai, quelli del paese li hanno visti tutti. Cos’è, dobbiamo aspettare che ci cadano addosso i pezzi?”
            Ruhe aveva offerto al compagno una sigaretta. L’altro aveva accettato, senza smettere per un attimo di brontolare:
            “La puzza che fa la morte, non la si dovrebbe mai annusare. Porta scalogna.”
            Andava avanti e indietro, il soldato Santifaller, dondolando sui passi pesanti la stanchezza, la sua stazza da armadio e tutto il suo disappunto. Ruhe lo adorava: accanto a lui si sentiva protetto come da un padre. Leo Santifaller era un austriaco di cinquant’anni, che giudicava il tempo dal cielo e parlava continuamente della moglie e dei figli, dei parti delle vacche, dei lavori da fare secondo le stagioni. Veniva da un paese arrampicato così in alto sulle montagne, che neppure era segnato sulle carte geografiche. Trattava Ruhe come uno dei suoi ragazzi: gli teneva da parte i bocconi migliori, per lui aveva sempre una stecca di cioccolato, un pugno di sigarette, un uovo per crescere.
            “Devi mangiare, sai” gli ripeteva sempre “altrimenti non ti fai grande. Puoi fare anche finta di essere un soldato ma sei una via di mezzo, sei come le rane giovani che hanno ancora la coda.”
            Per questo, Santifaller lo chiamava rospetto, e si accollava al suo posto i turni più sfibranti, gli incarichi più rognosi. Addirittura, non esitava a caricarsi sulle spalle lo zaino del ragazzo:
            “Io vengo dalla montagna” si schermiva con Ruhe “che vuoi che sia, per me. Sono abituato a portare sulle spalle pure i tronchi degli alberi. Se voglio, porto anche te.”
            Era vero fino a un certo punto, e infatti spesse volte Santifaller barcollava, e di sotto a quel carico dava l’idea che prima o poi ci avrebbe lasciato le penne. Ma ogni volta che Ruhe insisteva per aiutarlo, lui lo fissava con i suoi occhi tranquilli, sui quali non si vide mai traccia di impazienza, né ombra di timore, nemmeno nei momenti più difficili e rischiosi: quegli occhi stretti tra le ciglia corte e dure e un ventaglio di rughe erano colmi della sofferenza antica della sua gente, abituata a lottare con le insidie della montagna.
            Sotto allo sguardo vigile del suo commilitone, e al peso della sua mano posata sulla spalla, Ruhe si sentiva protetto. Ce la caveremo, rospetto, gli ripeteva l’austriaco, riusciremo a tirare i piedi fuori da questa fogna. E quando sarà finita verrai a trovarmi al paese, ci faremo una birra e una fetta dello strudel che prepara mia moglie con le mele del nostro frutteto. E se per caso avrai bisogno di lavorare potrai stare da noi, da fare ce n’è per tutti in montagna, non temere.
            Così andavano avanti a parlare per ore, e Ruhe raccontava com’era la sua stanza e i libri che leggeva, e Santifaller parlava del fienile da riparare, che era la prima cosa da fare al suo ritorno; poi d’un tratto rideva e diceva che no, riparare il fienile non era la prima cosa, la prima in assoluto sarà abbracciare mia moglie, non so se mi spiego, rospetto; Ruhe ammetteva che non tutti i suoi libri stavano sullo scaffale, visibili da sua madre quando passava a dare la polvere: ce n’era uno che lui teneva ben nascosto di sotto al materasso, perché leggerlo gli dava delle sensazioni strane. Lo faceva arrossire e gli veniva caldo, e poi… non si può dire. Di cosa parla sto’ libro, ghignava Santifaller, a quest’ora tua madre l’avrà trovato di certo. Lui era sposato da più di trent’anni, sapeva dove il rospetto voleva andare a parare. E rideva vedendo che Ruhe s’imbarazzava, arrossiva come la brace della sua sigaretta. Allora Santifaller frugava nelle tasche e cavava fuori qualcosa, prendi una cioccolata, sembra sterco di vacca però è nutriente - ghignava - proprio come il letame. Prendi un pezzo di pane, bada che se non cresci non si rizzerà mai, rimarrai rospo a vita e con la coda moscia, di questo puoi starne certo. E adesso che ci penso ne mangio pure io un pezzo, che quando torno mia moglie mi aspetterà al varco.
            E ridevano insieme, neppure immaginando che quella sera, al varco, li attendeva il sergente maggiore Linder. Fradicio di una quantità inimmaginabile di alcool, lo sguardo fisso che aveva nei momenti di maggiore esaltazione creativa, i due del turno di guardia se lo trovarono di fronte senza preavviso.
            La luce della luna, stemperata dall’afa in una foschia umida, illuminava lo spiazzo come in pieno giorno. Dal canneto che circondava lo stagno, Linder era da un pezzo che li stava osservando, in attesa del momento di uscire allo scoperto. Adesso procedeva nella loro direzione: sicuro di sé e addestrato ad avvicinarsi al nemico senza farsi sentire, il suo passo flessuoso ricordava quello di un predatore all’attacco. Come loro, era armato: e l’unica differenza, a parte l’ubriachezza, era il modo in cui teneva la mitraglietta spianata contro le due sentinelle, tenendole sotto tiro senza possibilità di equivoci.
            “C’è stato un improvviso cambiamento di programma” annunciò, scivolando uno sguardo vacuo sopra a rospetto Ruhe. Con la canna dell’arma, fece cenno a Santifaller di levarsi dai piedi:
            “Tu puoi tornare in branda. Monterai al prossimo turno, per ora resto io.”
            Poiché era strano il modo e strana la situazione, i due non si mossero. Linder si avvicinava, ed era preceduto da un forte odore di alcool. Ruhe cercò con lo sguardo gli occhi di Santifaller. Istintivamente, avvicinarono le spalle uno all’altro.
            “ Se non avete capito, si tratta di un ordine. Sloggiare, paparino. Stasera tocca a me.”
            Con questo, Linder riteneva di essere stato sufficientemente chiaro: né aveva voglia di spendere altre parole, abituato com’era ad essere obbedito all’istante. Quella volta, però, si aveva l’impressione che sotto l’improvvisa variazione del turno si nascondesse altro: un segreto proposito, qualcosa che ispirava un senso di pericolo.
            Né Ruhe né Santifaller riuscivano a capire dove il superiore volesse andare a parare.
            Ruppe il silenzio il più anziano, come di consueto facendosi avanti:  
            “Signore, chiedo di proseguire il mio turno in sostituzione del soldato semplice Ruhe.”
            E che rospetto Ruhe vada a stendersi in branda, altrimenti non cresce e non gli si rizzerà mai: questo pensò l’austriaco con un sorriso, ma il suo superiore non era di quel parere. 
            “Levati dalle palle, vecchio.” La canna traballante del sergente maggiore Linder si spostò lentamente verso di lui: “obbedisci al mio ordine” -
            Lo sguardo di Linder era fisso, come se fosse preso dalla visione di un altro mondo. Aveva il volto pallido malgrado il pieno di alcool, e la voce tranquilla era quella dei suoi momenti migliori: placida e noncurante, era la stessa con cui ordinava di impiccare i ribelli mentre girava lo zucchero nel primo caffè del mattino.
            I due del turno di guardia, come ipnotizzati, non riuscivano a staccare gli occhi dal sergente maggiore. Sapevano che non c’era niente di peggio di Linder ubriaco, visto che anche da sobrio era un pazzo esaltato. Era risaputo che Linder, ovunque andasse, si tirava dietro la morte come un cane al guinzaglio. 
            Ruhe in particolare, che per la giovane età aveva ancora voglia di farsi delle domande, considerava il suo superiore alla stregua di un enigma: sembrava un individuo colato nell’odio come dentro a uno stampo, eppure era di bell’aspetto e di buone maniere. Capace di una conversazione brillante quando non era sbronzo, e persino spiritoso quando ne aveva voglia. Viennese di origine, la sua famiglia possedeva una casa editrice che pubblicava poesia e studi di letteratura. Il salotto di casa era un vivaio di artisti, studiosi, ricercatori. Colto e attraente, il sergente maggiore Linder aveva tutte le carte in regola per avere successo nella vita e in amore, e nessuna ragione per infierire sul prossimo.
            Non riuscendo a venirne a capo, Ruhe spesso assillava con le sue domande gli altri veterani:
            “Come mai Linder si comporta così? Molto semplice, è pazzo. È fuori di testa.”
            “Troppi anni di guerra.”
            “È stato a Stalingrado, ed è sopravvissuto. Questo ti dice niente?”
            “Non c’entra Stalingrado, Linder era una bestia anche prima.”
            “Tu comunque, ragazzo, vedi di non capitargli a tiro. Bada, io non ti ho detto niente, ma tu stagli lontano. Segui il mio consiglio.”
            Questo era un altro enigma: in realtà, non c’era nessun motivo per cui il sergente maggiore dovesse avercela con lui. Era capriccioso e feroce, ma solo con il nemico. Ruhe non capiva da cosa doveva guardarsi, e cosa doveva temere.
            Eppure, quella sera si trovò a doverlo imparare sulla sua pelle.
            Linder teneva ancora sotto tiro Santifaller, ma questi non si decideva ad andarsene. Le due sentinelle fecero un altro passo per accostarsi una all’altra. Il loro superiore osservò compiaciuto quella patetica mossa di avvicinamento.
            “Sempre a strusciarvi assieme, voi due, che bello spettacolo...” poi, alzando la voce: “torna sotto la tenda, mi hai sentito, vecchio? Stasera tocca a me. A meno che tu non voglia restare a guardare. Magari mi dai una mano, e dopo ti cedo il posto.”
            Ruhe ancora non capiva, sicché non reagì quando Linder lo afferrò per un braccio, tirandolo a sé. L’austriaco invece aveva capito tutto, e approfittando del fatto che l’altro aveva una mano impegnata, gli fu subito addosso per tentare di disarmarlo.
            Fu questione di un attimo: dalla mitragliatrice partì una scarica che a Ruhe sembrò echeggiare per tutta la valle.
            L’effetto di quel colpo fu che Santifaller crollò lungo disteso.
            L’ultima cosa che Ruhe udì distintamente, prima che il terrore lo invadesse completamente, furono le parole del sergente maggiore, soffiate nel suo orecchio mentre quel volto di ghiaccio incombeva su di lui:
            “Un attacco dei ribelli. Hai capito, moccioso? Un attacco in piena regola, per portar via i cadaveri. E il tuo povero babbo si becca la croce di ferro.”  
            La stretta di Linder segnò l’inizio di un dolore intollerabile, che gli strappò le viscere e che fu accompagnata da quelle precise parole, mentre il suo superiore lo trascinava verso il buio di una radura.
 
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