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Autore: Nadja_Villain    30/04/2018    0 recensioni
Prima che il mondo intero iniziasse ad appassire, Trish era solo un'adolescente turbolenta, cresciuta nei bassifondi della stessa città dei Dixon, tra piccola criminalità e svaghi al limite del legale.
Nel presente ha perso anche sé stessa. Quando Negan l'ha trovata era ridotta ad uno straccio, sia a livello fisico che mentale.
Era convinta che sarebbe riuscita a smettere di soffrire se avesse chiuso le porte alle emozioni. Era convinta che fosse rimasta sola, che tutti coloro che conosceva fossero morti, ma non è così...
Riuscirà il ritrovo con Daryl ad aiutarla a ritrovare qualcosa per cui lottare?
Genere: Azione, Drammatico, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

7.2 # Paura


Mi schiacciai il cuscino sulla faccia, accecata dalla luce del sole che fendeva dalla finestra. Avevamo dimenticato di abbassare la persiana. Mi rivoltai nel materasso cercando il motivo di un rumore perpetuo e grave, come la vibrazione di un cellulare. Spostai il braccio di Zach e tastai lungo la pellicola che separava il materasso e le coperte dal pavimento. Trovai l'oggetto incriminato che vibrava con insistenza sotto un cumulo di vestiti.

Mia madre. Cazzo. Mi ero dimenticata di nuovo. Una volta mi aveva confessato che avesse la paura, anzi il terrore, anzi l'ossessione di ritrovarmi sui necrologi del giornale o vedermi al telegiornale ammanettata e senza denti, gli occhi fuori dalle orbite e con le ossa in bella mostra. Praticamente era terrorizzata che mi trasformassi in uno zombie per colpa delle droghe. Le avevo riso dietro, ma aveva le sue ragioni.

Erano quasi le quattro di pomeriggio e Zach dormiva ancora. Doveva essere stata una serata pazzesca, di cui come al solito mi ricordavo poco. 
Mi vestii velocemente indossando la sua felpa e i miei jeans. Scarpe ai piedi. Telefono, chiavi e sigarette nelle tasche. Mi infilai una sigaretta in bocca, passando di fronte allo specchio dell'ingresso, l'unico arredamento che ci eravamo potuti permettere oltre ad un piccolo tavolo da campeggio con sedie e un divano pieno di acari. Avevamo tutto ancora racchiuso nei borsoni e nelle scatole sparse per l'appartamento.
Davanti a me c'era un fantasma che mi guardava assonnato. Il trucco colato mi faceva sembrare davvero una drogata. Ora quell'aspetto spaventoso non mi intrigava più così tanto. Strascicai i piedi fino in bagno per lavarmi la faccia.

Sentii il russare di Skyler che dormiva a pancia in su tutto scoperto, con quei suoi ciuffi di capelli verdi che gli stavano dritti anche mentre dormiva. Il russo di David era troppo fine rispetto a quello del suo compagno di stanza per essere distinto. Anche perchè solo una parete lo divideva da quello di Jaxon, dalla cui mano potevo intravedere il perizoma rosa di una fan che doveva essere fuggita piuttosto presto.

Uscii di casa per non svegliare nessuno. Accesi la sigaretta e cominciai a camminare. Rigirai più volte il telefono nella tasca indecisa se buttarmi o meno. Il bordo del tasto verde sotto il polpastrello. Non sapevo se sarebbe stato più facile se mi avesse chiamato lei di nuovo. Non sapevo nemmeno perché fossi così agitata.

Quando arrivai alla panchina davanti al parchetto, considerai se fosse il posto migliore per sentire mia madre e tranquillizzarla sul non stare in fin di vita in mezzo ai drogati.
Un paio di scarpette rosa sfrecciavano giù dallo scivolo giallo. Un ciuffetto rizzo giocava a rincorrere i piccioni. Una manina appiccicosa serrava il cono di un gelato che colava da tutte le parti. Da lontano, gli schiamazzi di un gruppo di giovani che si passava un pallone nel piccolo campo da basket. Le mamme a chiacchierare sulle panchine. I padri a spinger le altalene. Tra il rumore del traffico e il chiacchiericcio, l'abbaiare di un cane che rincorreva un bastone e ruzzolava nella terra, capii che stavo montando un sacco di scuse.
Cliccai sul tasto di chiamata senza più pensarci. Attaccai l'altoparlante all'orecchio e la mia gamba cominciò a ballare senza tregua. Finchè rispose.

-Ciao, mamma. - parlai per prima, presa dall'emozione.

-Ciao, Trish.

La voce che sentii non fu quella di mia madre. Bensì una più grave, più rugginosa, più increspata, più dolorosa per le mie orecchie e per le mie membra. La voce di mio padre.

Strinsi il telefono come se la pressione fosse potuta arrivare anche a lui, per fargli del male. Mi irrigidii.

-Dov'è la mamma? Che cosa ci fai col suo telefono?

-Mamma non sta bene. È all'ospedale. Sono giorni che cerco di contattarti. Perché non rispondi mai?

Scattai in piedi.

-Che cosa le hai fatto? - mi venne spontaneamente. Il fumo della mia sigaretta, me lo dimenticai in gola. - Perché in ospedale?

-Tua madre è stata male da sola. L'ha trovata tua zia. É stata una fortuna che avessero un appuntamento nella mattina. Ed è stata una fortuna che non mi trovavo molto lontano.

Una fortuna.

Mia zia non aveva capito mai nulla di suo fratello. Il troppo amore l'aveva accecata. Lo strazio per la perdita dell'unico figlio l'aveva fatta impazzire completamente. C'era un motivo se in famiglia nessuno aveva mai compreso in fondo che cosa succedesse in casa nostra.

-Bè, insomma, mamma cos'ha?! Cos'è successo?! - chiesi spazientita.

-Non so come dirtelo, Trish. Tua madre... le hanno trovato delle masse...

La sigaretta mi cadde ai piedi.

-Masse?

-Trish...

-Cosa, che cosa vuol dire che ha... delle masse?!

Mio padre sospirò. Sembrava che gli importasse davvero adesso, sembrava seriamente afflitto e in difficoltà nel darmi la notizia, ma non potevo lasciarmi intenerire. Sapevo che era una recita. Un uomo come mio padre non conosceva l'amore, o il dispiacere, o la sensibilità. Mio padre aveva una pietra al posto del cuore. Ma non una pietra di fiume arrotondata dalla carezza dell'acqua, no. Al posto del cuore aveva una pietra tagliente e sfaccettata, piena di angoli spinosi. 
Finse di sospirare di nuovo e io potei fare altro che infervorarmi ulteriormente.

-Che cazzo ha mia madre?! Parla! - urlai. Non mi interessava che la gente che passava pensasse male.

-Ha il cancro. In stadio avanzato. Non c'è speranza di guarigione. Vedi di fare le valigie se la vuoi vedere ancora.

Mise giù.

Mise davvero giù senza aggiungere altro. Aveva chiuso la chiamata sbattendomi la novità in faccia, liberandosene come un malloppo pesante da passare. Si era lavato la coscienza.

Raccolsi la sigaretta da terra e la riaccesi nonostante le mie mani tremassero più del solito. Feci due tiri, poi me la dimenticai tra le dita a fumarsi da sola. La schiacciai a terra. Ripresi a camminare fissando un punto impreciso tra il marciapiede e l'ombra delle persone che vedevo camminare attorno a me senza metterle a fuoco. Svoltai l'angolo. Comprai una scatola di ciambelle alla glassa, un pacco di caffè e tornai indietro. Una distrazione per il panico che iniziava dai piedi a divorarmi l'anima, aggrappandosi al mio cuore con i suoi artigli acuminati.

Zach si era svegliato. Sistemava le coperte nel salone. Della musica si animava dallo stereo in cucina. Mi guardò accigliato. Dovevo avere anch'io un'espressione strana in faccia. Doveva essere visibile che stessi soffocando un urlo proveniente dalle viscere.

-Ciao.

-Ho portato la colazione. Sei sveglio solo tu? - chiesi con una punta di timore.

-Uuh! Ciambelle!

David apparve dalla camera, sgraffignò una ciambella e si diresse in cucina con tutta la scatola in equilibrio sulla punta delle dita.

-Si ringrazia. - lo riproverò Zach, lanciandomi un'occhiata, forse sorpreso che non l'avessi fatto io.

-Grazie, Trish! - biascicò David con la bocca piena.

-Tutto bene?

-Ho bisogno di caffè. - farfugliai. Avevo caldo, ma non avevo la forza di togliermi la felpa. La tenni su di me come un abbraccio.

Mi adagiai su una delle sedie da campeggio dopo essermi versata da bere. David mangiava affacciato alla finestra, la sua tazza posata sul davanzale, il telefono in mano, una sigaretta già pronta dietro l'orecchio.

-Avete sentito cosa sta succedendo? È scoppiata un'epidemia misteriosa. Ci sono già trenta casi in tutto il continente.

-Che epidemia misteriosa? - domandò Zach di spalle, mentre riscaldava il caffè in microonde. Scelse una ciambella e si sedette davanti a me. - Non è la tua tazza preferita.

La guardai. C'era un gioco che perpetuavamo come routine, come dei bambini. Ognuno aveva la propria tazza e nessuno poteva toccare quella di qualcun altro. Era Zach il perfettino che si accorgeva di queste cose tra gli uomini che vivevano in quella casa. A volte bacchettavo chi avesse rubato la mia, che era nera, di forma perfettamente cilindrica, con la scritta "NO" sul davanti, un po' graffiata, e due sbecchi agli opposti sul diametro del bordo. Quella che avevo in mano era rossa terracotta, leggermente panciuta, era disegnato un fiore in rientranza sulla facciata e aveva una singola sbeccatura sul manico. La tazza di Skyler.

David parlava, parlava. Sentivo la sua voce, ma non capivo cosa stesse dicendo. Neanche Zach lo ascoltava con molta attenzione. Lo vedevo che continuava a dare occhiate alla mia tazza raffreddata.
Neanche il caffè mi andava più. L'odore che infestava la casa era diventato di colpo nauseabondo. Il mio stomaco si convulse. Corsi in bagno, senza curarmi di chi lo stesse occupando e davanti ad un Jaxon in mutande rimisi nel water tutto ciò che mi ero tenuta dentro nel tragitto, tutti gli anni di segrete torture verso me stessa.

-Un'altra che si è svegliata bene! - Rise Jaxon - Ah, Sky? Hai compagnia!

Il muggito che si sentì aldilà di due porte avrebbe dovuto farmi ridere. Invece iniziai a piangere a dirotto, a singhiozzi sempre meno contenuti.

-Ops, l'ha presa male. Mi dispiace. Skyler non è affidabile, dovresti saperlo.

-Stai zitto, Jax, okay? Puoi stare zitto?!

-Ehi, ehi!

-Che succede? - fece la voce di Zach. Poco dopo i suoi passi si fermarono sulla porta.

-Non è la tua cazzo di coca il problema, okay? Non puoi essere sempre tu al centro dell'attenzione! - mi sgolai per ogni lacrima. Zach si piegò su di me, mi fece rialzare.

-Oh, ma che ti prende?!

-Che mi prende? Che mi prende?! Mi prende che sono mesi che non vedo mia madre per questi cazzo di concerti di merda che non ci pagano nemmeno abbastanza e ci tocca dormire per terra come degli zingari! Ogni volta mi ripeto di chiamarla, ma non riesco mai a sentirla perché siamo sempre fuori o siamo fatti da fare schifo e adesso mi ha chiamato mio padre, capisci? Mio padre!

-No, non capisco. - fece Zach, corrucciando la fronte, braccia conserte.

No che non poteva capire. Non sapeva niente di quella parte della mia vita. Ed era meglio che non la conoscesse. Sapeva solo di Greg e che era stato un incidente. Non era difficile leggergli in faccia il sospetto che stava iniziando a montare. Non potevo biasimarlo. Era come se gli stessi dando la colpa di tutto.

-Perché ti ha chiamato tuo padre?

-Per dirmi che... per dirmi... - I singhiozzi mi impedivano di parlare. - Mia madre sta morendo. Sta morendo... e io... non sono lì con lei.

-Cazzarola, questa si è fottuta la testa! - fece Jaxon alzando le mani sul capo. Ridacchiò.

-Ma che stai dicendo?

-Ha il cancro. Sta male. È in ospedale.

-Oh... merda... - Jaxon non rideva più.

Mi rimaneva solo lei. L'avrei persa e non era nemmeno colpa di mio padre. Non potevo prendermela con nessuno. Solo io avevo colpa. Io l'avevo abbandonata.

 

-Devo andare a vederla. Devo andare da lei assolutamente.

 

-Certo... Vuoi partire subito?

-Credo di sì.

-Quanto tempo vuoi stare? - Chiese mentre si grattava la fronte e si scambiava occhiate con Jaxon.

-Non lo so. Mi fai domande troppo difficili.

Mi pulii la bocca con la maglia, scaricai lo sciacquone. Scanzai il busto che si era piantato davanti alla porta e barcollai fino al salone. Mi buttati sul materasso, la schiena verso la porta, la faccia affondata nel cuscino in cui avrei affidato lo sfogo isterico delle mie corde vocali strepitanti. Sarei rimasta lì sdraiata per il resto dei miei giorni, rifiutando qualsiasi forma di sopravvivenza. Volevo solo piangere e prosciugarmi di ogni liquido corporeo.

Immaginai mia madre nel suo lettino bianco a fissare il soffitto tutto il giorno, rimbecillita dagli effetti dei farmaci, che non riusciva nemmeno a parlare e cacciare quel bastardo di mio padre dalla stanza. Mia madre aveva bisogno di me.

Mi alzai e cominciai a recuperare vestiti e metterli in borsa piegandoli e ammassandoli sul fondo, un po' di lato, un po' dove capitava, dove c'era spazio. I capelli bagnati dalle lacrime ammucchiati dietro le orecchie, la vista appannata, il naso che mi colava e la gola che si annodava su sé stessa tra i singhiozzi. Dovevo andare. Dovevo andare subito. Sarei arrivata da lei la sera stessa.

-Sai che ci hanno accettato per suonare anche questo week-end, vero?

-Starò via qualche giorno. Tornerò giusto in tempo per suonare. - dissi solo per farlo stare zitto.

-Ci conto. È importante.

Presi un respiro profondo.

-Zach. È mia madre. Vuoi che la lasci... a morire da sola?

-Non ho detto questo.

Abbuffai la borsa di tutto ciò che di mio trovavo in giro. Zach era sempre dietro di me che mi osservava.

-Con cosa ci vai?

-Con la moto, è ovvio.

-Non abbiamo pagato l'assicurazione.

-Non fa niente. Non mi schianterò proprio oggi. E se mi schianterò, sarà meglio così. - conclusi senza respiro, cercando di silenziare i singulti.

Zach mi prese il viso tra le mani. Volevo asciugarmi gli occhi per imprimere perfettamente i suoi lineamenti nella mia mente prima di andare, ma non ne avevo la forza. Le mie mani erano diventate di piombo. Anche quando i nostri bacini si incontrarono riuscii solo ad aggrapparmi debolmente alla sua maglia. Erano rari gli abbracci di Zach, sebbene non fosse uno troppo restio al contatto fisico. Quelli lunghi, uscivano dall'ordine del giorno. Non c'era mai tempo per quelli. Ma quando capitavano, avevano un potere curativo su di me e mi facevano pentire di tutte le volte che lo avevo trattato come una palla al piede. Se mai Dio fosse esistito almeno in un minuscolo istante nella mia vita, era apparso là dentro, tra quelle braccia solide, e mi aveva toccato.

-Non fare la cretina. Tienimi informato.

"Non fare la cretina" significava non superare i limiti di velocità e smetterla di esporre pubblicamente i miei istinti suicidi.
Non mi aspettavo che si proponesse di accompagnarmi. Le questioni amministrative della band non si risolvevano di certo da sole. E poi sapere di avere qualcuno che mi aspettava a casa mi avrebbe fatta sentire meno in colpa quando sarei dovuta tornare.

Mi staccai per prima e mi asciugai la faccia. Sulla rima delle ciglia ancora rimanevano tracce di trucco. Il dorso della mia mano era coperto di linee ed aloni neri. La metafora della mia vita: cercavo di andare avanti, lavavo i miei peccati, ma rimaneva sempre una traccia di sporco che non riuscivo a pulire.

-Vado. Ci sentiamo per telefono.

Presi la porta. Non salutai nemmeno gli altri due che si erano appostati davanti con aria interrogativa. Non vedevo nemmeno le scale, non le percepivo sotto i piedi. Sfrecciai accanto alla sagoma di Matilda, l'amica di Skyler, con i suoi capelli fucsia, il suo rossetto blu e i suoi mille piercing in faccia, che saliva. Non la travolsi per un pelo. Non c'era tempo per spiegare. Spolverai la sella della Triumph e vi saltai sopra. Aveva ancora abbastanza benzina per il viaggio, così partii in autostrada facendo slalom tra le auto. Il paesaggio fuori dal casco si schiacciava e filava via. Non era interessante come ogni volta che passavo di lì. Davanti a me c'era solo la strada. E mia madre. Niente importava. Nemmeno mio padre. Mio padre l'avrei preso a calci. Non mi faceva più paura. Nemmeno l'acqua mi avrebbe fermato se avesse iniziato a diluviare. L'unica paura che avevo era di arrivare troppo tardi.

   
 
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